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venerdì 17 giugno 2016

1529 - FIRENZE SOTTO ASSEDIO

L'assedio di Firenze, affresco in Palazzo Vecchio

Storia della disperata resistenza della Repubblica fiorentina alle truppe imperiali, fra realtà e mito. 

FIRENZE DOPO LA CALATA DEI LANZICHENECCHI

“Abbiamo preso d'assalto Roma; gli uccisi furono più di seimila, saccheggiata l'intera città, nelle chiese e dentro la terra prendemmo tutto ciò che trovammo”. Così scriveva Sebastian Scherthlin, un lanzichenecco che partecipò al sacco di Roma del 1527. Le sue brevi parole descrivono con rara efficacia la foga e la furia dell'esercito imperiale che per settimane ebbe tra le mani la preda più succosa che l'Europa aveva da offrire, la Città Eterna. Bartolomeo da Gattinara scrisse che i Lanzichenecchi si erano “governati come veri luterani”. Era questo il tragico epilogo della guerra accanita contro l'ingombrante presenza di Carlo V in Italia. La Lega di Cognac, formatasi nel 1526 e composta dalla Francia di Francesco I, dal Papato, dalla Repubblica di Firenze, dai Veneziani, dai Milanesi, dai Genovesi, subiva lo smacco più grave. L'obiettivo di allentare la morsa di Carlo V sulla penisola si era rivelato, in definitiva, troppo ambizioso. L'incontrastato imperversare delle truppe dell'imperatore su tutto il territorio italiano ne era la prova più eloquente.

A Firenze la notizia dello spaventoso sacco fu in un primo momento tenuta nascosta dalle autorità. La città era allora retta da Ippolito e Alessandro de' Medici, sotto la vigilanza del legato pontificio Silvio Passerini e con il benestare di papa Clemente VII, al secolo Giulio de' Medici (in quanto figlio illegittimo di quel Giuliano vittima della congiura dei Pazzi del 1478). Il motivo di tanta segretezza risiedeva nel timore che i repubblicani in città, ostili dalla dominazione medicea, insorgessero non appena saputo di Roma saccheggiata e di Clemente VII rinchiuso in Castel Sant'Angelo.

Le paure non erano infondate: all'udire la notizia del sacco, che del resto era fin troppo eclatante per poter essere tenuta nascosta a lungo, i Fiorentini colsero al volo l'occasione per restaurare le libertà repubblicane. Filippo Strozzi, Niccolò Capponi, Francesco Vettori e buona parte del patriziato fiorentino costrinsero il cardinal Passerini, Ippolito e Alessandro de' Medici a lasciare Firenze.

Rinacque così la Repubblica fiorentina, nella forma di un “regime democratico-oligarchico, di tipo veneziano” (Alessandro Monti). Furono perciò ripristinati organi e magistrature tipicamente repubblicani, come il Consiglio Maggiore o i Dieci di Libertà e Pace e alla carica di gonfaloniere venne eletto Niccolò Capponi, uomo di una certa età noto per la sua moderazione e la sua prudenza nonostante la passata vicinanza al Savonarola. La questione centrale, al di là del quadro istituzionale, era tuttavia una e una soltanto: come e con chi schierarsi nella complessa trama dei conflitti e delle relazioni internazionali?

LA REPUBBLICA CONTRO TUTTI

La Repubblica doveva darsi degli obiettivi in politica estera, assicurandosi al contempo la stabilità sul versante interno. Un compito, quest'ultimo, reso particolarmente difficile dalla diffidenza, dal sospetto e dalle accuse verso tutti coloro che in qualche modo erano stati legati al passato regime, come Francesco Guicciardini o Jacopo Salviati. Il Capponi si adoperò al massimo delle sue possibilità per la coesione della Repubblica, ma senza successo. La pestilenza scoppiata nel giugno dello stesso 1527 e il protrarsi della lotta contro le truppe imperiali certo non rendevano il quadro migliore. Forse fu proprio la gravità della situazione a spingere il Capponi a far proclamare Gesù Cristo Re di Firenze, come era accaduto ai tempi di Savonarola. La mossa se non altro gli valse il favore dei Piagnoni.

Ma era sul fronte della politica estera che la Repubblica di Firenze, quasi senza accorgersene, stava consumando quello che autorevolmente è stato definito il suo “peccato originale”. L'inclinazione naturale del nuovo regime, nato dalla totale rottura col passato mediceo e di conseguenza con Clemente VII, sarebbe stata quella filoimperiale: Carlo V avrebbe certamente accolto con favore un alleato tanto ostile al papa, specialmente se quell'alleato era un membro della lega di Cognac che mutava schieramento. E invece, contro ogni logica, ma in ossequio alla linea tradizionalmente tenuta dalla Firenze degli anni precedenti, la Repubblica aveva deciso di mantenere la sua posizione filofrancese, con il risultato di aver dato ai due uomini più potenti d'Europa, Carlo V e Clemente VII, un motivo in più per riavvicinarsi.

Il Capponi, da uomo avveduto qual era, era conscio dei rischi di una guerra contro l'Impero e il Papato, considerata in particolare l'esiguità delle forze fiorentine, ormai ridotte ai minimi termini dopo i conflitti degli ultimi anni. Proprio tali timori lo spinsero a riprendere le relazioni diplomatiche con alcuni emissari del papa, nella speranza di allontanare il pericolo di una guerra già persa in partenza. Questa sua iniziativa, realista e saggia, non passò tuttavia inosservata alle fazioni più estremiste della Repubblica: una lettera ritrovata il 16 aprile 1529 dal suo avversario Jacopo Gherardi rivelò la corrispondenza del gonfaloniere con l'odiato Clemente VII. L'accusa di aver tramato contro la Repubblica, certo una strumentalizzazione politica, costò al Capponi la carica. Già il 17 aprile dovette dimettersi.

Al suo posto fu eletto Francesco Carducci, un leader degli Arrabbiati di umili natali. Intransigente verso qualunque compromesso con i Medici e con gli esponenti della precedente classe dirigente, fino ad allora non aveva mai avuto un ruolo di primo piano nella politica fiorentina. Cionondimeno il suo estremismo compensò quel che gli mancava in termini di notorietà: il Carducci, stando a quanto riferito da una relazione inviata a Carlo V, “havea abbracciata la Repubblica con intention di doverla governare con quelle maniere, che più piacevano al popolo (…) e d'havere a essere asprissimo nimico de' nobili, e della famiglia de' Medici”. Inutile dire che le trattative con Clemente VII furono interrotte bruscamente. Firenze aveva scelto la guerra.

IL NEMICO ALLE PORTE

Nel frattempo gli ultimi sviluppi nel sistema delle alleanze avevano drasticamente mutato l'assetto delle relazioni internazionali. Nel giugno 1529 Carlo V e Clemente VII siglarono il trattato di Barcellona, con cui l'imperatore prometteva di riconquistare Firenze per i Medici in cambio della riappacificazione e dell'incoronazione papale (che sarebbe avvenuta a Bologna l'anno successivo). Inoltre nello stesso anno la pace di Cambrai pose fine, almeno per il momento, al conflitto tra Carlo V e Francesco I, sancendo la rinuncia di quest'ultimo a Napoli e a Milano in cambio della restituzione della Borgogna. Firenze era rimasta sola, come previsto dal Capponi.

Alla Repubblica non restò che preparare le sue difese. Dell'arduo compito si occupò, tra gli altri, Michelangelo, incaricato di potenziare le fortezze del dominio, come Livorno e Pisa, e di progettare nuove fortificazioni per la città attorno alla chiesa di San Miniato, luogo ideale per l'artiglieria. Il risultato fu ottimo: all'inizio dell'assedio Firenze “era ben fortificata e pressoché inespugnabile” (Najemy).

L'esercito fiorentino era composto da 10.000 mercenari e dalla milizia cittadina, rifondata nel novembre del 1528. Quest'ultima arrivò a contare diecimila uomini e durante l'assedio, spinta dall'ardore repubblicano e dalla retorica che si ricollegava alla grandezza di Roma e di Sparta, diede prove di valore e di coesione degne di nota. Il comando della difesa fu assegnato a Malatesta Baglioni, signore di Perugia, figura tra le più controverse dell'intera vicenda. Almeno sulla carta era un soldato di professione e la guerra la conosceva bene, come aveva dimostrato al servizio della Repubblica di Venezia. Ma nei fatti si sarebbe rivelato meno affidabile di quel che sembrava.

LA REPUBBLICA SOTTO ASSEDIO

Le truppe imperiali si presentarono di fronte alla città già sul finire del 1529. Il comando degli assedianti fu affidato a Filiberto di Chalons, principe d'Orange, generale molto apprezzato dall'imperatore Carlo V per la prudenza e le doti diplomatiche. Fra truppe tedesche, italiane e spagnole, disponeva inizialmente di circa 11.000 uomini, ma in seguito arrivò forse a contare su 30.000 unità.

L'esercito imperiale si accampò a sud dell'Arno. Il 12 ottobre il fuoco d'artiglieria proveniente dalle postazioni della Repubblica segnò l'inizio di un lungo, estenuante assedio. Nonostante i propositi del principe d'Orange di far breccia rapidamente nelle mura fiorentine, i combattimenti precipitarono in una fase di sconfortante stallo: gli assedianti, da un lato, si cimentavano in infruttuosi assalti alle fortificazioni di Firenze; gli assediati, dall'altro, tentavano disperate sortite per scompigliare lo schieramento imperiale.

Furono mesi orribili per i Fiorentini, terrorizzati dal martellamento dei bombardamenti avversari e decimati dalla peste e dalle cruente scaramucce. Persa fiducia nell'immobilismo del Baglioni, sempre più speranze erano riposte in un altro condottiero della Repubblica, Francesco Ferrucci. Allora quarantenne, il Ferrucci sarebbe divenuto l'eroe dell'assedio di Firenze, un onore che ben pochi di quelli che lo conoscevano gli avrebbero attribuito. Il filomediceo Francesco Baldovinetti ha scritto infatti che era un “uomo levato ad alterarsi, bestiale, bestemmiatore, crudelissimo, volenteroso, animoso e senza ragione”. Divenuto commissario a Empoli per conto della Repubblica fiorentina nel 1528, seppe tuttavia dimostrare la sua tenacia e il suo valore sul campo, dando un importante contributo nella predisposizione delle difese di Firenze e dell'area circostante. Divenne famoso per la repressione della rivolta della ribelle Volterra nell'aprile del 1530 e per il modo in cui riuscì a respingere i successivi attacchi di Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura al servizio delle truppe imperiali. Malgrado le stravaganze, il Ferrucci era l'unica di speranza di mantenere in vita la libertà del popolo fiorentino.

Frattanto a Firenze le cose non si mettevano bene. Dal gennaio del 1530 l'esercito imperiale, grazie all'apporto di forze fresche, era riuscito a chiudere l'accerchiamento della città, ormai circondata da tutti i lati. A causa del blocco delle principali arterie di rifornimento, il prezzo delle derrate era salito alle stelle e il governo aveva dovuto stabilire il razionamento del cibo. Alla fame si era aggiunta anche una maggiore pressione fiscale, imposta dalle autorità per far fronte alle spese militari. E tuttavia, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i Fiorentini, pervicaci come non mai, non persero neanche allora la loro compattezza; anzi dichiaravano con fierezza di essere “poveri, e liberi”. Testimonianza preziosa della profonda convinzione del popolo fiorentino è senza dubbio l'orazione alla milizia pronunciata il 3 febbraio 1530 da Bartolomeo Cavalcanti, nobile fiorentino sostenitore della Repubblica. Questi parlò ai concittadini utilizzando ogni espediente retorico per rafforzarne lo zelo, perfino quello dell'indipendenza della penisola italiana: “Difendesi la gloria del nome italiano da barbare e di quello inimicissime nazioni”.

“VILE, TU UCCIDI UN UOMO MORTO!”: DISFATTA A GAVINANA

Il governo fiorentino, consapevole della sempre maggiore scarsità di uomini da arruolare nonché dell'esiguità delle scorte, ordinò al Ferrucci di far convergere le sue forze (3000 fanti e 300 cavalleggeri) verso Firenze per spezzare l'assedio dall'esterno. Ma accadde qualcosa di inatteso: il principe d'Orange lasciò improvvisamente Firenze con un robusto distaccamento di 3000 uomini e di 1000 cavalieri e marciò a nord in cerca del Ferrucci, affidando il comando dell'assedio a Ferrante Gonzaga. Come poteva il comandante in capo delle truppe imperiali essere sicuro che, portando con sé tanta parte del suo esercito, il Baglioni non ne avrebbe approfittato per tentare una sortita con buone probabilità di vittoria? Stando alla tradizione storiografica, Benedetto Varchi (1503-1565) in testa, la spiegazione va ricercata nel tradimento: il comandante delle truppe fiorentine, certo dell'inevitabilità della disfatta e desideroso di mantenere le concessioni papali su Perugia e altre località, avrebbe promesso al principe d'Orange di non attaccare il campo degli assedianti durante l'assenza di quest'ultimo.

Tralasciando il dibattito sul ruolo e sulle reali intenzioni del Baglioni, da questa complessa fase di manovre e, forse, di sotterfugi emerse con chiarezza che sarebbe stata una battaglia a decidere le sorti dell'assedio. E fu il 3 agosto 1530 che lo scontro tanto atteso ebbe luogo nelle vicinanze di Pistoia, presso l'oscuro borgo fortificato di Gavinana.

La giornata, occorre dirlo, fu decisa già dalle manovre preliminari delle truppe imperiali. Il Ferrucci infatti, indugiando eccessivamente nel saccheggio del borgo di San Marcello, situato poco a ovest di Gavinana, aveva perso di vista i movimenti delle forze imperiali, al punto da lasciarsi circondare: alle spalle aveva la fanteria italiana e spagnola guidata da Alessando Vitelli e le bande panciatiche di Niccolò Bracciolini, a nord gli uomini di Fabrizio Maramaldo e di fronte le truppe imperiali del principe d'Orange provenienti da Firenze. Ben poco era lo spazio riservato alla strategia: l'obiettivo era aprirsi un varco in quel cerchio mortale.

I primi combattimenti videro prevalere la cavalleria fiorentina su quella del principe d'Orange. Gli uomini del Ferrucci, a suon di cariche furibonde, si guadagnarono l'ingresso nel borgo di Gavinana, proprio mentre Maramaldo vi entrava indisturbato con i suoi dall'altro lato del paese. Il principe d'Orange nel frattempo, ricompattate le sue forze, si lanciò in una carica vigorosa, spingendosi più in là di quanto sia concesso a un generale in battaglia. Quasi come punizione per aver svolto “offizio più di uomo d'armi che non di capitano” (Francesco Guicciardini), l'Orange fu colpito in pieno da due palle di archibugio sul petto e sul collo. La morte del loro comandante rese per un momento titubanti le truppe imperiali e diede un barlume di speranza al Ferrucci di poter spezzare la morsa dell'avversario. Ma la pressione di Maramaldo all'interno del borgo unita a quella dei nemici che aveva di fronte non permettevano di illudersi troppo.

La situazione si aggravò quando le truppe imperiali, sbaragliati i nemici che erano rimasti fuori da Gavinana, ebbero mani libere per condurre l'offensiva finale. Iniziò così l'estrema difesa del Ferrucci e dei suoi uomini contro forze schiaccianti che attaccavano da ogni lato e senza sosta. La battaglia raggiunse il suo momento più epico, ma il destino di quel che rimaneva dell'esercito fiorentino era segnato. Dopo una disperata resistenza, il Ferrucci e le sue truppe furono presi prigionieri. Il capitano fiorentino, che a detta di tutte le fonti coeve si era battuto come un leone, era gravemente ferito. Nonostante questo, Maramaldo, suo nemico di sempre, lo volle finire con le sue mani. La leggenda racconta che il Ferrucci prima di essere ucciso avrebbe detto: “Vile, tu uccidi un uomo morto!”.

UN DUCA PER FIRENZE

La disfatta di Gavinana segnò la fine delle speranze della Repubblica. Il 12 agosto 1530, presso la chiesa di Santa Margherita a Montici, fu siglata la resa. Per volere di Carlo V Alessandro dei Medici fu posto a capo della Repubblica fiorentina, per poi divenirne duca dal 1532. Il suo governo non sarebbe tuttavia durato a lungo: già nel 1537 fu brutalmente assassinato, lasciando il posto ad un membro dei Medici del ramo "popolare", Cosimo (1519-1574), figlio del celebre Giovanni dalle Bande Nere. Il suo governo, fortemente accentrato, inaugurò la lunga esperienza del Granducato di Toscana, passata attraverso l'estinzione della dinastia medicea con la morte di Gian Gastone (1737), la dominazione lorenese e, dopo la parentesi napoleonica, le travagliate vicende risorgimentali.

Di questa vicenda plurisecolare l'assedio di Firenze fu il preludio. Il fallimento della Repubblica mostrò infatti l'impossibilità per uno Stato italiano di sfidare apertamente i giganti d'Europa e mise a nudo il drastico ridimensionamento dell'Italia e delle sue realtà politiche nel panorama internazionale. L'unica via per sopravvivere era dotarsi di una costituzione monarchica, allineandosi alle tendenze politiche dell'epoca, e magari trovare la protezione di una potenza straniera. Soltanto la Repubblica di Venezia, in ambito italiano, mantenne saldamente la sua indipendenza e il suo assetto istituzionale.

Nonostante questa fine apparentemente irreversibile di tutto ciò che la resistenza della Repubblica fiorentina aveva rappresentato, la cultura del Risorgimento studiò con sommo interesse l'assedio di Firenze del 1529, elevato a simbolo dell'opposizione "italiana" allo straniero. Basti pensare a Francesco Domenico Guerrazzi, il quale pubblicò sulla vicenda un fortunato romanzo storico nel 1836, e ai molti che lo imitarono. Perfino Giuseppe Verdi pensò di realizzare un'opera in musica sul Ferrucci e si potrebbe andare avanti a lungo con le citazioni. In fondo è soprattutto questo che stupisce della Storia: i suoi fili non smettono mai di intrecciarsi.

Articolo di Giulio Talini, tutti i diritti riservati.

BIBLIOGRAFIA

- John M. Najemy, "Storia di Firenze. 1200-1575", Einaudi, Torino, 2014
- Furio Diaz, "Il Granducato di Toscana - I Medici", UTET, Torino, 1987
- Piero Bargellini, "La splendida storia di Firenze", Vallecchi, 1980
- Alessandro Monti, "L'assedio di Firenze (1529-1530). Politica, diplomazia e conflitto durante le guerre d'Italia", Pisa University Press, Pisa, 2015
- G. F. Young, "I Medici", Salani, Firenze, 1941
- Francesco Guicciardini, "Ricordi", Garzanti, Milano, 2012
- Francesco Guicciardini, "Storia d'Italia", a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino, 1971
- Benedetto Varchi, "Storia fiorentina", Salani, Firenze, 1963
- Giuseppe Lisio (a cura di), "Orazioni scelte del secolo XVI", Sansoni, Firenze, 1957
- Geoffrey Parker, "La rivoluzione militare", Il Mulino, Bologna, 2007
- Salvador De Madariaga, "L'impero di Carlo V", Res Gestae, Milano 2015




venerdì 4 settembre 2015

IN HOC SIGNO VINCES - INDAGINE STORIA SULLA CONVERSIONE DI COSTANTINO

Raffigurazione di san Costantino nella basilica di Santa Sofia a Istanbul. L'imperatore, che la Chiesa ortodossa ha definito «Simile agli Apostoli», proclamandolo santo, è raffigurato nell'atto di dedicare la basilica.

Il mutato atteggiamento di Costantino verso la religione e la Chiesa cristiane ha avuto una rilevanza tale che ancora oggi ne subiamo le conseguenze. Non a torto parte della dottrina parla di una “svolta costantiniana”. Forse è proprio per la portata storica della politica religiosa di Costantino che ci si è interrogati tanto a lungo sul suo fondamento, sulle sue cause più remote. Quando si convertì? Fu sinceramente cristiano? Oppure era mosso da ragioni pratiche? Il risultato di questo plurisecolare sforzo storiografico è stato il sovrapporsi di continue teorie e analisi elaborate sulla base di fonti per la verità non particolarmente attendibili. Occorre premettere, pertanto, che la questione, nonostante i fiumi d'inchiostro versati, è ancora aperta.
IL BATTESIMO DI UN IMPERATORE 

Battesimo di CostantinoQuando Costantino il Grande comprese che la morte era vicina, espresse il desiderio di essere battezzato per purificare la propria anima dai peccati commessi. “Questo è il momento che da tanto tempo aspettavo, assetato e desideroso di ottenere la salvezza in Dio” disse rivolgendosi ai vescovi che erano con lui in quei momenti di profonda angoscia. Costantino spirò a Nicomedia il 22 maggio del 337 d.C., dopo essere divenuto a tutti gli effetti un membro della Chiesa cristiana. Eusebio di Cesarea, amico personale e biografo dell'imperatore, mosso da pietosa compassione, scrisse che “questo sovrano benedetto fu il solo tra i mortali a regnare anche dopo la morte”. L'episodio del battesimo ha indotto alcuni storici a ritenere poco sincera la fede cristiana di Costantino: d'altra parte aspettò l'ora della fine per convertirsi. Ma nulla vi è di più infondato: nel IV secolo d.C. infatti la gran parte dei cristiani sceglieva di farsi battezzare solo in punto di morte. Ciò consentiva di condurre una vita terrena lontana dalla morale evangelica, purificandola dal peccato giusto prima di passare all'altro mondo. È perciò evidente che il battesimo ricevuto da Costantino, per quanto agli occhi di noi moderni possa apparire singolare, vada considerato come il punto d'arrivo, e non d'inizio, del suo percorso di fede. Ma quando e perché avvenne la conversione?

IL CONFRONTO CON LE FONTI

La tradizione cristiana antica tramanda che la conversione si sia verificata nel 312 d.C., a causa di un diretto intervento divino, durante la campagna militare contro il rivale Massenzio che ebbe il suo epilogo nella battaglia di Ponte Milvio. I due autori principali, entrambi cristiani, che ci parlano del prodigioso evento sono Lattanzio (240-320 d.C.), nel “De mortibus persecutorum”, e il già citato biografo di Costantino, Eusebio, vescovo di Cesarea (263-339 d.C.), nella “Vita di Costantino”.
Altri studiosi, diffidenti verso le fonti antiche, hanno proposto come data della conversione il 324 d.C., anno in cui Costantino vinse in una serie di battaglie decisive l'ultimo contendente rimasto, Licinio, il quale perseguitava le comunità cristiane all'interno dei suoi vasti territori. Il trionfo non parve essere soltanto il prevalere di un pretendente al trono imperiale su un altro, ma fu interpretato come la definitiva affermazione del Cristianesimo sul paganesimo sconfitto. Il concilio di Nicea, convocato l'anno successivo da Costantino stesso, sarebbe, secondo i fautori di tale tesi, nient'altro che la conferma dell'avvenuta conversione dell'imperatore vittorioso. È in effetti difficile negare che dopo il 324 d.C. Costantino fosse ormai cristiano, ma ciò non esclude che lo fosse già da tempo.
Alcuni sono addirittura arrivati a collocare la conversione ben prima del 312 d.C.: Costantino si sarebbe convertito al Cristianesimo in gioventù, avendolo conosciuto nella casa paterna. Costretto da ragioni politiche, avrebbe poi tenuto nascosta la propria fede, per poi renderla manifesta a partire dal 312 d.C. Una tesi tanto suggestiva quanto priva di reali appigli nelle fonti. Giusto per completezza dell'esposizione, vale la pena menzionare, seppur di sfuggita, due racconti sulla conversione di Costantino che, per quanto storicamente inattendibili, testimoniano la vivacità del dibattito sulla questione. Il primo è quello di Zosimo, storico vissuto nell'Impero Romano d'Oriente tra V e VI secolo d.C. Nella sua “Storia Nuova” racconta che Costantino avrebbe aderito alla religione cristiana solo dopo aver fatto uccidere il figlio Crispo e la moglie Fausta (326 d.C.): di fronte alla rigida ed esemplare posizione dei sacerdoti pagani, per nulla disposti a concedere la purificazione all'imperatore per una nefandezza di quella portata, Costantino si sarebbe rivolto al Cristianesimo, unica religione che “annullava qualsiasi colpa e conteneva in sé anche questa promessa, di liberare subito da ogni peccato gli empi che la praticavano”. La narrazione di Zosimo può essere messa da parte non solo perché è in contrasto con tutta la tradizione pagana e cristiana sulla conversione di Costantino senza avere conferme in altri autori, ma anche perché proviene da un autore pagano fino al midollo che tentò di spiegare la caduta dell'Impero Romano con la diffusione del Cristianesimo. La seconda “leggenda” è la versione papale diffusa a partire dall'VIII secolo d.C., in base alla quale Costantino avrebbe optato per la fede cristiana dopo essere stato curato dalla lebbra da papa Silvestro. Si tratta di uno dei molti racconti diffusi nel Medioevo per esaltare la figura del primo imperatore cristiano, il che lo rende poco utile ai fini della presente ricerca.
Le possibilità sono molte, le fonti poche. Tutto quel che si può pretendere è un cauto avvicinamento alla ricostruzione più probabile, “sine ira et studio”.

UN LAVORO DI CRITICA STORICA

Escluse quelle teorie che, a causa della loro inconsistenza, non meritano di essere approfondite, resta da analizzare il periodo tra il 312 d.C. e il 324 d.C., anni in cui, come hanno già intuito Simon e Benoit, deve esserci stata l'evoluzione religiosa dell'imperatore che lo portò al Cristianesimo.
Datare la conversione al 324 d.C. significa anzitutto sminuire la portata dei resoconti a sfondo religioso di Lattanzio e di Eusebio, entrambi autori che, al di là di ogni possibile obiezione, avevano conosciuto personalmente Costantino. I sostenitori di questa tesi, tra cui, in primis, Grégoire, ritengono che l'imperatore, pur avendo intuito già dal 312 d.C. l'utilità della religione cristiana per accattivarsi il favore degli abitanti di Roma, si fosse convertito pienamente durante la durissima lotta per la supremazia contro il rivale Licinio. I motivi che spinsero Costantino, secondo tale ipotesi, furono di tipo essenzialmente politico: a guidarlo fu l'utile, non l'anima. Non bisogna dimenticare, ad ogni modo, che alcuni hanno ritratto Costantino come un uomo religioso, inquieto, che, oltre alla ragion di Stato, badava anche alla proprio interiorità: in principio si considerò il discendente di Ercole; dopo si volse a una teologia solare che vede in Apollo il suo centro; da lì approdò a un sincretismo che tentava la conciliazione tra Paganesimo e Cristianesimo in chiave monoteistica. Il 324 d.C., in tale ottica, fu il punto d'arrivo di un incessante cammino di fede. La debolezza di queste teorie risiede principalmente nella mancanza di una prova valida che dimostri che la conversione non possa essersi verificata prima della vittoria su Licinio.
Comunque la si voglia vedere, il 312 d.C. rimane un anno denso di avvenimenti e di vicende che meritano una spiegazione. Davvero Costantino si convertì già durante la campagna in Italia contro Massenzio? Oppure fu l'inizio di un progressivo avvicinamento alla fede cristiana? Fu realmente un anno decisivo per la religiosità dell'imperatore o dovremmo sminuirne la portata storica? E cosa dire riguardo alle visioni prodigiose? Procediamo per gradi. Nell'ottobre del 312 d.C. Costantino si preparava ad affrontare l'atto finale della sua fulminante campagna in Italia contro il rivale Massenzio, che saldamente manteneva il potere a Roma. Aveva già conseguito due brillanti vittorie, una a Torino, a seguito della quale aveva ricevuto l'omaggio delle città della pianura padana, l'altra assediando Verona. Costantino si presentava come il liberatore d'Italia, il baluardo della rettitudine contro la scelleratezza del tiranno. Nell'asprezza della guerra civile, il Dio dei Cristiani, stando agli storici antichi, si manifestò a Costantino in tutta la sua potenza.
Sull'episodio uno dei racconti più vicini cronologicamente è quello di Lattanzio, che scrive il “De mortibus persecutorum” tra il 313 d.C. e il 320 d.C. La sua narrazione merita un'attenzione particolare se si considera che fu il precettore di Crispo, il figlio di Costantino, e che, di conseguenza, fu in stretti rapporti con l'imperatore. Lattanzio racconta di un sogno miracoloso in cui sarebbe stato ordinato a Costantino di far dipingere sugli scudi dei suoi soldati un segno divino per affrontare al meglio la battaglia finale contro Massenzio. Tuttavia Eusebio, nella “Vita di Costantino”, dà una versione dei fatti parzialmente diversa. Scriveva tra il 337 e il 338 d.C., ma era anche lui amico personale dell'imperatore, al punto da esporre in più occasioni fatti che aveva sentito dallo stesso Costantino. Sull'apparizione divina prima della battaglia di Ponte Milvio il suo resoconto è sospettosamente vasto e ricco di particolari, soprattutto se rapportato alle laconiche parole di Lattanzio: si parla di una visione in pieno giorno alla presenza di tutto l'esercito, di un segno nel cielo, di una luce abbagliante e del sogno in cui a Costantino è ordinato di far rappresentare quell'immagine divina sugli scudi dei soldati. L'elemento comune che colpisce il lettore è anzitutto quello del “segno celeste”. Di che figura può trattarsi? Per quanto riguarda la “Vita di Costantino” non ci sono dubbi: è il labarum, l'emblema militare che riporta le iniziali di Cristo e che da Costantino in poi sarebbe diventato uno dei simboli principali del nuovo impero cristiano. Ben altra cosa è individuare il segno di cui parla Lattanzio: “Un X attraversato da una linea perpendicolare con la sommità piegata”. Alcuni storici hanno interpretato la descrizione come un riferimento al labarum stesso, ma la dottrina storiografica prevalente, considerate le molteplici spiegazioni che si possono dare alle enigmatiche parole di Lattanzio, è scettica riguardo a tale tesi ardita. Dunque l'autore del “De mortibus persecutorum” con ogni probabilità non si riferiva al labarum. A ciò può collegarsi un dato letterario: lo stesso Eusebio in una sua opera precedente alla “Vita di Costantino”, la “Storia Ecclesiastica”, conclusa tra il 320 e il 325 d.C., non fa alcuna menzione dell'episodio miracoloso di cui Costantino fu protagonista, né tanto meno di un emblema divino. Altrettanto significativo è il fatto che la prima moneta bronzea in cui è attestato con certezza il labarum risale al 327 d.C., ben dopo i fatti di cui parliamo. Ecco che, di conseguenza, unendo tutti questi indizi, lo spettacolare racconto di Eusebio nella “Vita di Costantino” colloca con ogni probabilità l'adozione del famoso simbolo ben prima della sua reale comparsa tra le legioni, come congetturato da Marcone. È più probabile che possa essere stato utilizzato per la prima volta durante la campagna militare contro Licinio, nel 324 d.C.
L'anticipazione di eventi come l'adozione del labarum aveva il preciso scopo di attribuire all'imperatore una tutela dall'alto fin dal principio. Lo storico di oggi, conseguentemente, ha tutto il diritto di mettere in dubbio il resoconto delle fonti antiche, onde non cadere vittima della propaganda costantiniana. In effetti non possiamo ritenere credibile l'ipotesi di una conversione avvenuta in maniera tanto repentina e netta. E tuttavia il comportamento di Costantino dopo la battaglia di Ponte Milvio sembra confermare che qualcosa fosse cambiato. Le lettere, gli editti e le leggi dell'imperatore in tema religioso sembrano il frutto di un nuovo orientamento, dimostrando la chiara volontà di favorire la Chiesa e di introdurla ufficialmente nella vita pubblica. In tale ottica possono leggersi l'editto di Milano (313 d.C.), con cui era garantita la tolleranza ai cristiani; il riconoscimento del diritto della Chiesa di manomettere gli schiavi (316 d.C.) e del diritto di giurisdizione dei vescovi (318 d.C.); le innumerevoli donazioni. Alla luce di ciò, è evidente che il 312 d.C. rappresenti il principio della svolta religiosa dell'Impero Romano, ma sarebbe azzardato collocare senza riserve a questa data la conversione di Costantino. La prudenza consente al massimo di ipotizzare che dalla campagna d'Italia contro Massenzio Costantino abbia iniziato a manifestare un chiaro interesse per il Cristianesimo e per la Chiesa. Baynes lo spiega ancora meglio: “E' certo che dopo la vittoria agisce esattamente come ci si dovrebbe attendere se il racconto di Lattanzio fosse vero”. Resta tuttavia impossibile stabilire se dal 312 d.C. Costantino fosse già pienamente cristiano oppure se lo sia divenuto definitivamente a partire dal 324 d.C.
Di questa “rivoluzione” rimane da chiarire quali ne furono le cause. Si trattò di una cinica scelta politica oppure di un rinnovamento interiore e di una fede sincera?

LE RAGIONI DELLA SVOLTA

Spesso si è parlato di una scelta di comodo: a detta di Burckhardt, di fronte al dilagare del Cristianesimo Costantino si sarebbe cinicamente adagiato sull'inevitabile fato di Roma. I fautori di simili teorie lo immaginano come il maestro della realpolitik, come il principe machiavelliano in grado di adattarsi ai colpi bassi della fortuna. In realtà il calcolo politico sembra da escludere: la comunità cristiana di inizio IV secolo a.C. era ancora esigua nel numero e rappresentava una ristretta minoranza religiosa.
Oggi si tende a vedere maggiore sincerità nella fede cristiana di Costantino, pur senza aderire alle già accennate teorie che lo ritraggono come un convinto servitore della Chiesa in attesa del momento giusto per mettere a nudo le proprie convinzioni spirituali. Dobbiamo partire dal presupposto che Costantino era un uomo bramoso di gloria e di potere, ambizioso fino all'eccesso e capace di ogni cosa pur di conseguire i suoi scopi. Sognava una nuova Roma, pacificata dai conflitti e assoggettata al dominio di uno solo. Una protezione ultraterrena era esattamente quello di cui aveva bisogno per la sua missione: il politeismo, nonostante gli sforzi di Diocleziano e di molti altri, era superato; il monoteismo cristiano, al contrario, sembrava in grado di soddisfare le sue esigenze di legittimazione e di accentramento. Un solo Dio, un solo imperatore. È proprio sulla base di tali argomentazioni che potrebbero esserci margini per rivalutare, seppur con estrema cautela, la sincerità della conversione di Costantino: in fin dei conti aveva trovato un culto che, almeno all'epoca, si adattava perfettamente alla sua mentalità e alle sue concezioni politiche. Come conciliare però quanto appena detto con l'ambiguità di Costantino in fatto di religione? Risulta infatti dalle fonti che, durante il suo regno, né depose l'antica carica di pontifex maximus, né smise di esaltare i valori del mito e della gloria di Roma. Bisogna tuttavia tener presente che parliamo di un imperatore, una figura universale in cui tutti dovevano riconoscersi. Costantino era un politico troppo raffinato per non sapere che, nell'immediato, aveva ancora bisogno del consenso dei pagani e che dimostrare il suo favore esclusivamente alla minoranza cristiana poteva alienargli appoggi fondamentali. La sua equivocità era dettata plausibilmente dalla ragion di Stato. Su un punto possiamo essere certi: dopo Costantino l'Impero Romano non fu più lo stesso. È esagerato, certo, vedere nella conversione di un uomo il principio della fine dell'esperienza romana. Cionondimeno, al di fuori di alcune sporadiche eccezioni, il cammino intrapreso da Costantino fu seguito dalla quasi totalità degli imperatori venuti dopo di lui: dai suoi figli a Teodosio, da Valentiniano III fino agli ultimi deboli pretendenti al trono imperiale prima della caduta. La cultura medievale enfatizzò all'eccesso la figura del primo imperatore vicino alla comunità cristiana: si pensi a Gerberto d'Aurillac, papa dal 999 al 1003, che scelse di essere chiamato Silvestro II in memoria di quel Silvestro che fu amico di Costantino e che con quest'ultimo realizzò il sogno dell'Impero Cristiano. Gli esempi potrebbero andare avanti a lungo, inducendoci a trarre una conclusione paradossale: la conversione di Costantino, in parte oscura nel suo svolgimento e nei suoi particolari, ha illuminato il tortuoso cammino dell'Europa medievale e moderna. Osservando l'immagine sbiadita dell'evento non vediamo solo un'epoca tramontata e dimenticata. Vediamo anche noi stessi.

Articolo di Giulio Talini. Tutti i diritti riservati.

BIBLIOGRAFIA

Marcel Simon e André Benoit, “Giudaismo e Cristianesimo. Una storia antica”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2005
Robin Lane Fox, “Pagani e cristiani”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2006
Arnaldo Marcone, “Costantino il Grande”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2013
John B. Bury, “Cambridge Medieval History. Volumes 1-5”, Plantagenet Publishing, 2011
Zosimo, “Storia Nuova” a cura di Fabrizio Conca, BUR, Milano, 2007
Eusebio di Cesarea, “Vita di Costantino” a cura di Laura Franco, BUR, Milano, 2009
Eusebio di Cesare, “Storia Ecclesiastica” a cura di S. Borzi e F. Migliori, Città Nuova, Roma, 2001
Lattanzio, “Come Muoiono i Persecutori” a cura di M. Spinelli, Città Nuova, Roma, 2005
Andrea Frediani, “Le Grandi Battaglie di Roma Antica”, Newton Compton Editori, Roma, 2009
Alberto Barzanò, “Il Cristianesimo nell'Impero Romano da Tiberio a Costantino”, Lindau, Torino, 2013

mercoledì 21 gennaio 2015

LIBERA NOS DOMINE, COME LA PESTE NERA CAMBIO' IL VOLTO DELL'EUROPA MEDIEVALE

Tra il 1347 e il 1351 la Peste si portò via sul suo carro funesto una porzione paurosa della popolazione europea (secondo la gran parte delle stime, circa un terzo degli abitanti del continente). Era venuta a Messina a bordo di una flotta proveniente da Caffa, base commerciale genovese sul Mar Nero, dove il morbo aveva iniziato a diffondersi dall'esercito mongolo che la assediava. Nel giro di un anno il flagello aveva toccato quasi ogni angolo d'Europa, trasportato ovunque dai fiorenti commerci, i pellegrinaggi, i numerosi conflitti. Le piazze e le strade delle città si riempirono di cadaveri. Solo a pochi fortunati infatti toccò una degna sepoltura: quasi tutte le vittime passarono all'altro mondo senza nemmeno il pianto dei cari. Si moriva in pochi giorni e ci voleva ancora meno per contrarre la malattia: le vie della “peste nera”, come quelle dell'Onnipotente, erano infinite. Alcuni vedevano nell'onda mortifera un segno della collera di Dio; altri parlavano di congiunzioni astrali; altri ancora puntavano il dito contro ebrei e lebbrosi. Oggi sappiamo che la causa della pestilenza era un bacillo, chiamato Yersinia pestis, trasmesso all'uomo dalla Xenopsilla cheopis, una pulce parassita dei ratti. Ma ciò che per la scienza medica contemporanea appare scontato, all'epoca non era neanche lontanamente immaginabile. A turbare enormemente i medievali, al di là delle cause, era il fatto che né il denaro, né il potere, né le cariche politiche costituivano una valida via di scampo dal morbo. Re, nobili, vescovi, mercanti, contadini e perfino animali perivano indistintamente sotto la falce impietosa della Morte Nera, simile a una gelida livellatrice. Con sguardo ben più lucido e disinteressato, la storiografia più recente ha rivelato quanto diversificate e complesse furono in realtà le vicende seguite a questo cataclisma epocale, tutt'altro che omogeneo. Per dirla con Adriano Prosperi, “nella storia umana, niente, nemmeno la morte, è uguale per tutti”.

CACCIA ALL'UNTORE
Una trattazione che intenda descrivere gli effetti socio-economici della Peste Nera non può che prendere le mosse dalle interpretazioni che della piaga diedero i contemporanei e da coloro che furono additati come colpevoli. Potrà sembrare un aspetto tutto sommato marginale, vista la scarsa rilevanza della gran parte delle numerosissime spiegazioni dell'evento, dimenticate appena dopo esser state teorizzate. A ben vedere però è un tema non secondario per lo storico, non solo perché è in grado di mostrare il modo di pensare dell'uomo del Basso Medioevo, ma soprattutto perché aiuta a comprendere con chiarezza le conseguenze più “immediate” della pandemia. Il Boccaccio, che la Peste la vide coi suoi occhi, enuncia nel suo Decameron le due tesi fondamentali sull'origine del morbo: “l'operazion de' corpi superiori” e la “giusta ira di Dio” per le “nostre inique opere”. La prima fa riferimento alle numerose teorie che ponevano l'accento su fenomeni astronomici, tra cui quella di alcuni dotti arabi secondo i quali la posizione dei corpi celesti poteva aver fatto in modo che i miasmi e le putrefazioni situate nelle profondità della terra fossero risaliti in superficie, provocando l'epidemia. La seconda ipotesi riguarda invece una punizione che Dio, per mezzo della Peste Nera, avrebbe inflitto a un'umanità profondamente lontana dai suoi precetti e dalla sua morale. Su queste e su molte altre possibili spiegazioni si affannavano dotti, filosofi e chierici di tutto rispetto, senza tuttavia addivenire ad una soluzione definitiva. Ma quale fu l'opinione delle masse? L'idea che dietro alla Peste Nera ci fosse la mano di Dio ebbe inizialmente un successo notevole. Lo testimoniano l'aumento vertiginoso del numero di iscritti nelle confraternite religiose e i frequenti lasciti testamentari destinati all'abbellimento e alla ricostruzione di edifici di culto. Non è un caso che nelle liturgie fu introdotta l'invocazione disperata: “A peste, fame et bello / libera nos Domine”. Tuttavia il moltiplicarsi delle vittime, unitamente ai fallimenti della medicina e della preghiera, condussero a una esasperazione tale da far ricercare altri colpevoli. E, come sempre accade, furono presi di mira i più deboli, i “diversi”: lebbrosi e, soprattutto, ebrei. Sui “perfidi Giudei” in particolare si riversò la gran parte della sete di sangue di intere folle prostrate dalla peste bubbonica. Un primo episodio, tragico, si verificò a Tolone, tra il 13 e il 14 aprile 1348, dove una quarantina di Ebrei vennero massacrati furiosamente. Nel giro di poco fatti di cronaca come questo divennero la normalità. Le minoranze ebraiche di tutta Europa tremavano sotto la minaccia dello sterminio, dell'espulsione o di processi dai tratti farseschi. Vani furono i tentativi del papa, Clemente VI, e delle autorità cittadine di affermare l'innocenza degli ebrei. Ad avere successo potevano essere solo coloro che cavalcavano in pieno l'inarrestabile ondata d'odio, facendo leva, in quegli anni di isteria collettiva, sulle paure più antiche e radicate nelle fasce basse della società, sulla naturale irrazionalità che conquista gli uomini in ogni catastrofe. Nell'intento riuscirono benissimo i Flagellanti, gruppi di individui che giravano per le città dell'Europa centrale frustandosi la schiena e incitando a trucidare gli ebrei. Le loro argomentazioni erano piuttosto semplici: gli infidi amici di Giuda, ancora sporchi del sangue di Cristo, avevano avvelenato i pozzi, dando inizio all'epidemia, e perciò meritavano la morte, unica via di purificazione. Per quanto drastiche, le prediche degli esponenti di tale movimento non potevano trovare terreno più fertile: se da un lato appagavano gli animi bollenti delle masse incolte perennemente alla ricerca di uno sfogo, dall'altro guadagnavano il consenso di alcuni esponenti delle classi più agiate che approfittavano delle persecuzioni contro gli ebrei per trarne profitto in termini economici, impadronendosi dei loro beni. Eccezione d'onore, una volta tanto, fu l'Italia. Per capire in che senso però dobbiamo partire da quanto scrisse lo storico fiorentino Giovanni Villani (1276-1348), autore della “Nuova Cronica”, da lui lasciata incompiuta proprio perché caduto vittima del morbo. Come in quasi tutti i cronisti italiani che hanno raccontato la Peste Nera, il flagello fu da lui inquadrato in un più ampio sfondo apocalittico, fatto di cupi presagi come comete, terremoti, carestie. Di ebrei, tuttavia, neanche l'ombra. E non si trattava di un caso: il fatto che i cronisti italiani come il Villani omettessero o, in parecchi casi, confutassero le accuse ai “perfidi Giudei” riflette l'atteggiamento ben più tollerante che si registra in tutta la penisola italiana verso di loro. Le persecuzioni, i massacri, i processi rimasero nulla più che occasioni isolate, senza alcun seguito rilevante. Perché, verrebbe da chiedersi? I motivi potrebbero essere stati essenzialmente due. In primo luogo, l'Italia era una realtà frammentata, sia da un punto di vista etnico, sia sotto il profilo politico: come poteva un territorio privo di identità nazionale percepire come estranea una delle moltissime minoranze che lo abitavano? Secondariamente, ma non per importanza, gli ebrei e le loro attività economiche avevano tutte le carte in regola per integrarsi alla perfezione nella realtà cittadina italiana, fatta di commercianti e di traffici, di prestatori di denaro e di artigiani. Culmine dell'ondata di abbrutimento furono l'ingresso nella cultura popolare di una serie notevole di inedite figure maligne e la riesumazione di leggende sepolte negli abissi della memoria. Sembra che fosse proprio il 1350, come spiega Jean-Claude Schmitt, l'anno in cui una serie di temi che separatamente avevano a che fare con la stregoneria si condensarono nello stereotipo della strega, destinato ad avere molta fortuna in Europa. Il collegamento immediato con la Peste Nera non è certo, ma altamente probabile. Il fenomeno, d'altro canto, parrebbe perfettamente coerente con la sete di sangue colpevole di quegli anni. Ma non tutti si affannarono a dar la caccia agli untori. Alcuni, infatti, certi che prima o poi il carro funesto della Morte se li sarebbe portati via, abbandonarono i freni che la società medievale imponeva e, in una sorta di oraziano “carpe diem” portato alle estreme conseguenze, dedicarono i loro ultimi giorni di vita terrena ad assaporare il peccaminoso gusto della lussuria. Ancora una volta dobbiamo affidarci alle parole di Boccaccio: “Altri  […] affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfar d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male”.

LE CITTA' E LE CAMPAGNE: NUOVI RAPPORTI
Black Death.jpgAccanto alle conseguenze immediate del morbo troviamo dei cambiamenti duraturi che questo portò con sé. Dopo la Peste Nera nessun villaggio, città o regione rimasero gli stessi. Marx la inserì tra i punti salienti della grande Crisi del Trecento, da lui interpretata come il cominciamento del turbinio di eventi che avrebbe condotto al definitivo collasso del sistema feudale. Un po' in tutta Europa, in effetti, si registrano novità, in primis nei rapporti sociali ed economici. Ma, sebbene il pensiero marxista possa al riguardo trarre in inganno, i mutamenti furono di entità e importanza diverse, a seconda dell'area geografica. In Europa centrale e orientale la nobiltà feudale reagì duramente ai malcontenti delle masse contadine, attraverso un deciso inasprimento del controllo sociale. Da questa si distinse la situazione nelle campagne e nelle città delle aree mediterranee, dove, da un lato, mercanti e banchieri, in cerca di maggiore sicurezza, volsero le loro mire alle zone rurali sostituendosi spesso alla nobiltà locale; dall'altro in molti casi le famiglie contadine, spinte dalla necessità, dovettero provvedere come prima cosa al loro sostentamento, praticando una produzione agricola finalizzata prevalentemente  all'autoconsumo. Di particolare interesse furono i mutamenti verificatisi nell'Europa atlantica e inglese, dove la Peste Nera, che si aggiungeva ai continui conflitti (per dirne uno: la Guerra dei Cento Anni) e al fiscalismo spietato praticato dalle autorità politiche, condusse ad un drastico indebolimento della nobiltà feudale, che dovette assistere impotente al ridimensionamento della sua autorità. Spostato il baricentro della realtà sociale, i vuoti di potere furono colmati prevalentemente da ricchi borghesi alla ribalta. Ai contadini, come di solito accade, toccò una sorte ben più misera. Stremati dalle continue pestilenze, dalla tassazione e dalle devastazioni della guerra si riunirono in gruppi, seguirono predicatori che promettevano il riscatto sociale e la vendetta e imbracciarono armi o, se non ne avevano, bastoni. Uno dei tumulti principali in quell'area d'Europa fu la Jacquerie francese del maggio 1358. Condotta da un certo Guillaume Charles, la massa di braccianti in rivolta partì dall'Ile-de-France e da lì si estese a macchia d'olio alle zone limitrofe. “Questa è la verità: vergogna a chi non vuole la morte dei nobili” mugugnavano quei contadini furibondi, secondo il racconto del Froissart. Ma il sogno durò poco: i signori delle campagne ebbero facilmente la meglio su quella banda di disperati, che morirono, pare, in 20000. E analoghe considerazioni potrebbero farsi con riguardo alla rivolta inglese del 1381 e a molte altre, tutte accomunate, oltre che da un esito poco felice, dal primo germe di una coscienza “di classe” che condusse il semplice lavoratore o contadino a richiedere condizioni lavorative migliori, salari più alti e una pressione fiscale ridotta.
Quel che all'epoca della Peste Nera nessuno poteva sapere era che il bacillo del morbo avrebbe continuato a serpeggiare indisturbato e silenzioso, colpendo periodicamente questa o quella città. Basti pensare a Firenze, piegata da altre epidemie nel 1363, 1371, 1374, 1390 e 1400. Se nei centri urbani, dove un gran numero persone si era insediato per sfuggire al morbo e alle guerre, ogni diffusione della pestilenza aveva conseguenze esiziali, nelle campagne, a poco a poco, il calo demografico lasciò vaste terre abbandonate. Ecco perché spesso accadeva che le autorità politiche cercassero di attirare contadini da altre regioni affinché questi si curassero delle zone rurali lasciate al loro destino per via della peste  e, al contempo, di impedire che i coltivatori loro sudditi andassero a cercar fortuna altrove, abbandonando i rispettivi fondi. Tuttavia, la legge non influì minimamente sulle migrazioni e gli spostamenti del contado, ben lungi dal lasciarsi scappare ghiotte occasioni di arricchimento. La disubbidienza alle autorità non si spiega solo con la materiale difficoltà per le istituzioni politiche di mantenere intatti gli apparati giudiziari e militari: la Peste Nera, in un certo senso, mutò anche la mentalità. Il morbo alla lunga aveva decimato la popolazione europea, ma non solo i peccatori né tanto meno solo i poveri. Morivano tutti, indipendentemente da quanto importanti fossero. Questa morte beffarda si prendeva gioco dell'umanità intera e, in definitiva, ne svalutava l'importanza. Non è un caso che dopo la Peste Nera il tema delle arti figurative (che già esisteva) noto come “Trionfo della morte” divenne tra i più richiesti. Un celeberrimo esempio, sebbene di poco anteriore alla Peste del 1348, è l'affresco di Buonamico Buffalmacco, che si trova al Camposanto di Pisa: sotto la Morte, di aspetto terrificante, giacciono i corpi esanimi di villani, servi, imperatori, principi, pontefici: tante glorie e miserie terrene, un solo destino.

UN PASSO VERSO IL RINASCIMENTO?
La popolazione europea, dopo la Peste Nera (e i successivi strascichi), diminuì di quasi un terzo. Degli 80 milioni di individui che abitavano il continente agli inizi del XIV secolo ne morirono circa 25 milioni, con tassi di mortalità arrivati in alcune zone addirittura al 50%. L'Italia, che era una delle regioni più popolose d'Europa, passò dai 9,3 milioni di abitanti del 1340 ai 5,5 milioni di abitanti del 1400 (una diminuzione del 40,9%!). Una crisi “malthusiana” in piena regola, si potrebbe dire. Solo in poche aree, come nel Regno di Polonia o a Milano, gli effetti in termini demografici furono nulli o esigui. Di fronte alle cifre, diventa una certezza: fu una catastrofe. Ma può essere sufficiente limitarsi a questa  semplice constatazione, tenuto conto dei cambiamenti socio-economici che la Peste Nera provocò? A causa della pandemia, mutarono i rapporti nelle città e nelle campagne e, soprattutto, il modo di pensare comune. L'intero sistema sociale del Basso Medioevo fu messo in discussione per la prima volta, in tutte le sue componenti, e quel che stupisce è che a farlo furono principalmente gli umili lavoratori, i servi, i contadini, i braccianti. Gli ultimi, insomma. E sulla crisi delle millenarie certezze del mondo medievale si sarebbe poi costruita la rinascita. Meglio: il Rinascimento.

BIBLIOGRAFIA
Adriano Prosperi, “Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent'anni” in “Storia moderna e contemporanea”, Einaudi, Torino, 2000
Giovanni Villani, “Nuova Cronica”
Giovanni Boccaccio, “Decameron” a cura di Vittore Branca, Mondadori, Milano, 1985
Jean-Claude Schmitt, “Medioevo <>”, Editori Laterza, Bari, 1992
William H. McNeill, “La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea”, Einaudi, Torino, 1981
Camillo Di Cicco, “Storia della Peste da morte nera ad arma biologica”, Createspace, 2014
Catia Di Girolamo, “La peste nera e la crisi del Trecento” in “Il Medioevo” a cura di Umberto Eco, Vol. 7, pp. 147-156, Federico Motta Editore, Milano, 2009
“The Black Death. The History and Legacy Of The Middle Ages' Deadliest Plague”, Charles River Editors, 2014

mercoledì 17 settembre 2014

MIRACOLO DI AGINCOURT - CRONACA DEL TRIONFO CHE IMPRESSE UNA SVOLTA ALLA GUERRA DEI CENT'ANNI

“Per l'amor di Gesù Cristo, amico, rendi quel che devi”. Qualcuno ne resterà sorpreso, ma si tratta di una conversazione tra re, e per giunta epistolare. Per essere più precisi, questo fu il modo piuttosto brusco con cui il re d'Inghilterra Enrico V, nel 1413, reclamò da Carlo VI di Francia la consegna non solo delle proprietà cedute alla corona inglese con il trattato di Brétigny (1360), ma anche di quelle che, a suo dire, Filippo II Augusto aveva ingiustamente sottratto a Giovanni Senza Terra (quindi si parla di circa due secoli addietro). Si trattava di richieste gravose, anzi gravosissime. Quali che fossero i pretesti, quella guerra estenuante, interminabile, nota oggi come la Guerra dei Cent'Anni, stava per entrare in una delle sue fasi decisive. Considerando la tempistica e le modalità con cui operò, Enrico V dimostrò un intuito politico senza eguali nell'Europa del suo tempo. Non per niente, già i cronisti dell'epoca riportavano che, nonostante avesse solo 25 anni quando ascese al trono, vantava le doti tipiche del sovrano consumato. “Aetate juvenis, maturitate senex” dicevano di lui. Le sue pretese temerarie infatti non costituivano solo il frutto di quella sorta di prassi dei re inglesi nel corso della Guerra dei Cent'Anni di rivendicare il trono francese, ma nascondevano un disegno ben ponderato. Il regno di Francia, infatti, stava vivendo una fase molto travagliata della sua storia tanto che lo stesso re era stato costretto ad assistere indifeso come un agnello alla lotta tra Armagnacchi e Borgognoni, che da sciacalli quali erano si contendevano ogni brandello di una monarchia sull'orlo del collasso. Inoltre la jacquerie continuava ad essere lo spettro che si aggirava in tutta una Francia profondamente turbata da disagi economici e sociali. Poteva esserci forse momento migliore di quello per reclamare diritti e, eventualmente, venire alle armi? Se la tempistica era stata ottima, il modus operandi non fu da meno. Non bisogna dimenticare infatti che nel 1396 era stata siglata una tregua di ventotto anni tra Inghilterra e Francia, e quindi riprendere il conflitto significava violare in pieno gli accordi presi. Fu indubbiamente per tale ragione che Enrico V decise di procedere, almeno in prima battuta, per vie diplomatiche, sfoderando molte delle doti che il buon Machiavelli avrebbe poi decantato nelle sue opere. Percorse dapprima quella che lui definiva “la via del diritto”, ma che fosse una formalità lo si capiva dalla portata delle richieste fatte a Carlo VI, che sopra accennavamo: nel dettaglio, pretendeva la cessione di Aquitania, Angiò, Maine, Turenna, Normandia, l'omaggio della Bretagna e la sovranità della Fiandra, dell'Artois e della Provenza. In aggiunta, esigeva il saldo del riscatto che era stato richiesto per liberare il re francese Giovanni il Buono, catturato nel 1356 a Poitiers, e chiedeva di avere la mano della figlia di Carlo VI, Caterina di Valois. Certo, sapeva condire il tutto con le dovute formalità, le ampollose formule, perfino con le adulazioni, ma non bisognava farsi ingannare: chiedeva mezza Francia e una posizione più favorevole per avanzare pretese alla corona del regno nemico. I Francesi lo intuirono e declinarono ogni offerta. Fu solo allora che Enrico V passò alle “vie di fatto”: nel maggio 1415 si alleò col duca di Borgogna, Giovanni Senza Paura, onde far leva sulle rivalità delle fazioni francesi, e iniziò i preparativi per la spedizione imminente. Di fronte al rapido precipitare degli eventi, il re inglese ebbe a scrivere: “Ci sia testimone il Supremo Giudice […] del fatto che, nella nostra sincera propensione alla concordia, abbiamo tentato ogni via possibile per ottenere la pace”. Verrebbe da dire che fosse un vero ipocrita, ma lasceremo ad altre trattazioni simili giudizi. Quel che è certo è che trovò il modo di riprendere la guerra, e su questa dobbiamo soffermarci. Uomini, armi, navi, cavalli: adesso non occorreva altro.

LA VOLUBILE DEA FORTUNA


Stupore. Questa doveva essere la sensazione di chiunque avesse la fortuna di vedere o anche solo di scorgere in lontananza il porto di Southampton nella mattina dell'11 agosto 1415. Nel mare antistante la piccola cittadina stavano ormeggiate ben 1500 imbarcazioni di varia dimensione e tipologia, una massa informe di legname, uomini e animali pronta a far rotta verso la Francia. 12000 guerrieri stavano su quella flotta in attesa del segnale per la partenza (ormai era solo questione di ore), e ad essi si aggiunga un gran numero di medici, ingegneri, chierici, giullari, personale di servizio e cavalli. In effetti Enrico V aveva dovuto faticare non poco per allestire la campagna militare. Ai nostri occhi, abituati ad una certa concezione “tradizionale” del potere monarchico (“l'Etat ce moi”), sembrerà strano, ma non era affatto semplice per un re medievale radunare un esercito consistente. Oltre alla ricerca di fondi sufficienti, bisognava assicurarsi che tutti i cavalieri e i notabili del regno adempissero con buona volontà ai doveri feudali che li legavano al re e mettessero a sua disposizione le proprie guardie e soldati. Si trattava di un punto particolarmente delicato, questo, considerato che ogni volta toccava convincere una quantità più o meno considerevole di signori feudali poco propensi a cedere prezioso materiale umano per conflitti lontani e quasi sempre estranei alle loro realtà. In un momento tanto impegnativo, Enrico V seppe destreggiarsi con rara determinazione e caparbietà. L'Inghilterra intera si mobilitò per il suo giovane re e non se ne sarebbe pentita. Partiti intorno alle tre del pomeriggio, Enrico V e i suoi sbarcarono non lontano dalla foce della Senna, nei pressi di Harfleur, uno dei capisaldi francesi in Normandia. Ci vollero ben sei settimane di assedio perché la città capitolasse. Gli Inglesi, infatti, avevano trovato ad attenderli un nemico che non si aspettavano: la dissenteria, che si portò via almeno 2000 uomini e ne lasciò moribondi altrettanti. Dio sembrava aver già abbandonato l'armata inglese e, cosa ancor peggiore, bisognava già fare i conti con l'idea di tornarsene in patria. Di certo una marcia su Parigi in alta stagione e con un esercito enormemente assottigliato era fuori discussione. Dovremmo ormai aver capito, tuttavia, che Enrico V aveva una volontà ferrea e la parola “ritirata” tendeva a non far parte del suo vocabolario. “Il coraggio vale più dei numeri” scriveva Vegezio, profetico su questa vicenda. Il re inglese dunque decise di marciare verso Calais, che Edoardo III aveva conquistato nel 1347 (dopo Crécy), e attendere là rinforzi. Come annota Frediani, si trattava di 250 km, un lungo percorso dove l'incontro con i Francesi era praticamente scontato. Per farla breve, da sogno di gloria la spedizione inglese stava per tramutarsi in un incubo. Dal punto di vista francese, considerata la situazione, sarebbe stato sufficiente temporeggiare ancora, magari bloccando o ritardando la traversata del fiume Somme, e affondare al momento giusto gli artigli nella carne di una preda inerme. Persuaso dalla fortuna iniziale, Carlo VI autorizzò l'adunata con un bando rivolto a tutti i nobili di Parigi e di Amiens, che risposero in gran quantità, certi di procurarsi in tempi brevi gloria, fama e bottino. A Rouen, agli ordini del conestabile di Francia, Carlo D'Albret, si radunarono 25000 uomini, tra cui 7000 cavalieri e 15000 uomini d'armi (ovvero soldati interamente ricoperti di armatura addestrati a combattere sia a piedi che a cavallo). Equipaggiamenti pesanti, scintillanti corazze e cavalli da guerra riccamente ornati conferivano un aspetto di invincibilità all'armata del re di Francia. La sconfitta, nella mente degli uomini di Carlo VI, non faceva parte dei possibili esiti dell'imminente scontro. Ma la superbia, come insegna il Libro del Siracide, è “odiosa a Dio e agli uomini”.

APPUNTAMENTO AD AGINCOURT


Volenti o nolenti, sani o infermi, gli Inglesi dovevano andare avanti. Oltre al morale basso e alla malattia inarrestabile, gli animi dei soldati erano attanagliati dalla paura, il male più contagioso. Ad ogni modo, Enrico V fece marciare i suoi non lontano dalla costa, passando per Fécamp, Arques, Eu e St. Valéry. Di Francesi neanche l'ombra fino a quel momento. Quando bisognava attraversare il fiume Somme, tuttavia, non si vedevano altro che ponti distrutti, robusti presidi e guadi bloccati con pali e catene: il nemico si era messo in movimento. Il cammino si allungava e, dunque, gli Inglesi dovevano seguire verso est il corso del fiume in attesa di trovare un punto lasciato libero per la traversata, sempre più stremati. “L'esercito del re d'Inghilterra era abbattuto dalla malattia; lo spirito dei soldati fiaccato dalla fatica e scoraggiato dalla ritirata” scrive Goldsmith. Dopo cinque giorni di vani tentativi, infine, gli esploratori di Enrico V rintracciarono un guado dimenticato dai Francesi e finalmente i soldati inglesi oltrepassarono il fiume, nei pressi di Nesle. Era il 19 ottobre. Proprio quando si intravedeva un tenue bagliore di speranza, venne la notizia che tutti temevano: a pochi chilometri dagli Inglesi era stato avvistato un imponente esercito francese, ben rifornito ed equipaggiato. Non possiamo esserne certi, ma a questo punto è logico ipotizzare che finanche l'indole irriducibile di Enrico V, che come un marinaio intrepido aveva sfidato la tempesta, fosse provata da una situazione strategicamente drammatica. Il re inglese sapeva che in ogni momento di quei tragici giorni i suoi potevano essere spazzati via da un colpo di mano di Carlo D'Albret. Era semplice, dopotutto, sterminare un'armata già falcidiata dalla fatica, dalla malattia e dalla carenza di viveri. Ciononostante, i Francesi non attaccarono subito: volevano essere certi di avere la vittoria e il tempo giocava a loro favore. Nella notte tra 24 e 25 ottobre Enrico V fece riposare gli uomini nel villaggio di Maisoncelles, avendo visto che oramai i suoi erano a “tre tiri d'arco dal nemico”. Carlo D'Albret, persuaso dagli animi bollenti delle truppe, aveva infatti sbarrato la strada per Calais agli Inglesi. A tal fine aveva posto il suo accampamento all'estremità nord di una stretta pianura delimitata dalle zone boschive della cittadina di Agincourt, a ovest, e da quelle di Tramecourt, a est. Lo scontro doveva quindi avvenire in questa sorta di corridoio inzuppato dalla pioggia caduta nei giorni precedenti. Quale fosse l'atmosfera che si respirava nelle ore immediatamente antecedenti la battaglia lo si capisce da come i due schieramenti avversari trascorsero quella notte di attesa: gli Inglesi, naturalmente, si confessavano in massa; i Francesi, viceversa, banchettavano, avvantaggiandosi almeno un poco in vista di quanto ritenevano avrebbero fatto dopo lo scontro. Un testimone inglese riporta che “quella notte si giocavano a dadi il nostro re e i nobili”. Ma la Storia aveva in serbo per loro un'altra mano.

IL MIRACOLO


Con postura fiera, Enrico V, in sella al suo cavallo grigio, arringava i suoi come se non ricordasse né gli eventi appena trascorsi né la condizione presente. Erano le otto del mattino del 25 ottobre, “il dì di San Crispino”, e solo un chilometro separava i due eserciti, pronti ad affrontare il loro destino in quell'anonima piana fangosa. “Perché oggi chi verserà il suo sangue per me, sarà per sempre mio fratello; perché per quanto possa essere umile di nascita, questo giorno lo nobiliterà” fa dire Shakespeare, nell'atto IV dell'Enrico V, al re inglese. Lottare uniti per una giusta causa: Enrico V non chiedeva che questo. L'armata francese poteva contare su circa 25000 uomini, disposti secondo gli schemi militari tradizionali: avanguardia, corpo centrale, retroguardia. La prima era organizzata in due battaglioni, che, messi insieme, erano composti da uomini d'armi smontati: quello di destra era condotto dallo stesso Carlo D'Albret e dal maresciallo di Francia, Giovanni La Maingre, noto come Boucicault; quello di sinistra dai duchi d'Orléans e di Borbone. Per completare la linea, furono formate due ali di fanti, rinforzate da balestrieri genovesi ed arcieri. Su entrambi i fianchi, infine, vennero posizionate robuste unità di cavalleria, per proteggere lo schieramento ed eventualmente condurre la carica. La seconda linea era composta da uomini d'armi, scudieri e serventi armati e nella terza fu disposta una riserva di cavalleria, oltre ai non combattenti al seguito dell'esercito. L'armata inglese, al confronto, doveva sembrare quanto di più misero si potesse vedere su un campo di battaglia. Gli effettivi al momento dello scontro, infatti, non erano più di 6000, tutti appiedati. Enrico V, tuttavia, tentò di fare il possibile con il poco che aveva e, costretto dalla necessità, si discostò dagli schemi militari tradizionali: organizzò un fronte lineare, diviso in tre schiere di uomini d'armi, protette ai fianchi da due grandi corpi di arcieri. Questi ultimi, che di lì a poco avrebbero avuto un ruolo decisivo, costituivano l'unità più efficace dell'armata d'Inghilterra. Non erano particolarmente temibili a vedersi, anzi forse potevano apparire piuttosto buffi mentre si affaccendavano con i loro archi di legno di tasso lunghi 1,80 metri. Tuttavia, nel momento della guerra, potevano scoccare 8 frecce al minuto e colpire fino a 350 metri di distanza. C'era ben poco, dunque, di cui beffarsi. Così disposti, i due eserciti si fissarono a lungo. Nessuno osava compiere il primo passo. Carlo D'Albret, naturalmente, non aveva interesse ad attaccare battaglia, giacché era il re d'Inghilterra che voleva raggiungere Calais; Enrico V, sebbene sapesse di dover dare inizio allo scontro, si era preso tutto il tempo necessario per pronunciare rincuoranti discorsi ai suoi soldati, comprensibilmente sconvolti. Intorno alle undici, le linee inglesi ricevettero l'ordine di avanzata generale: la battaglia era cominciata. Dobbiamo immaginarci soldati spossati, sopravvissuti ad una marcia infernale. La dissenteria, peraltro, non era certo sparita: si pensi che lo stesso Enrico V aveva imposto ai suoi di tagliarsi i calzoni, in modo da non doverseli slacciare in caso di coliche nel corso del combattimento. L'avanzata si arrestò giusto quando i Francesi erano a distanza ottimale per essere bersagliati dai dardi. Dopo aver piazzato dei pali affilati alle estremità contro una prevedibile carica di cavalleria, gli arcieri del re d'Inghilterra scoccarono la prima salva: una breve, ma letale pioggia di morte si scatenò sul nemico, inerme. Quel primo assaggio del longbow fu quanto di più eloquente si potesse trovare per convincere i soldati del D'Albret a scuotersi dal loro immobilismo. Su entrambi i fianchi la cavalleria francese prese a galoppare verso i reparti dei tiratori, con furia terrificante. Ma l'impulsività, in guerra, è madre solo del disastro: la carica perse spinta fin da subito per via del terreno fangoso e, inoltre, non era stato possibile aggirare i reparti nemici, perché avevano su entrambe le ali i fianchi coperti dalle aree boschive che delimitavano la piana. Come era prevedibile, quei pochi che raggiunsero le linee di arcieri si scontrarono violentemente con i pali da loro piazzati, mentre per i più i cavalli divennero ingovernabili nel mezzo del tragitto e furono costretti a ripiegare. Un disastro, appunto. E il martellamento di dardi, implacabile, riprese. Carlo D'Albret, che iniziava comprensibilmente ad innervosirsi, mandò avanti l'intera avanguardia, ma la sorte di questo secondo attacco non fu diversa da quella del primo: il terreno inzuppato d'acqua bloccava i movimenti delle truppe francesi, che come se non bastasse erano ulteriormente rallentate dalle loro armature pesanti, divenute delle prigioni. La battaglia, ormai, si stava trasformando in un tiro al bersaglio. Quel che peggiorò la situazione fu poi la totale mancanza di disciplina dei soldati francesi, che, atterriti da un senso generale di impotenza, operarono una conversione verso il centro, per subire con meno intensità le salve scoccate dai reparti di tiratori inglesi sulle ali. Così facendo, quegli uomini disperati si strinsero in una minuscola porzione di terreno e finirono per ostacolarsi a vicenda. Enrico V, da giocatore fortunato, alzò la posta e ordinò di caricare il nemico, lanciandosi lui stesso nella mischia. Perfino alcuni arcieri, impugnando asce, mazze e falcetti, fecero strage di quella calca disorganizzata.
Poi subentrò la seconda linea francese, il corpo centrale. Lo spettacolo che si presentava agli occhi delle truppe era un campo pieno di sangue, urla, dardi e, ovunque, fanghiglia. Come potevano i soldati del conestabile di Francia non temere di subire lo stesso destino di coloro che li avevano preceduti? Ciononostante, si mossero, ma senza alcun risultato. Le cronache dell'epoca tengono a sottolineare la ripetitività di uno scontro segnato fin dal principio e riportano che gli Inglesi “distrussero il secondo battaglione come avevano fatto col primo”. Vuoi per le frecce, vuoi per il corpo a corpo, i Francesi morivano in quantità, incapaci di reagire a quel turbinio di eventi. Addirittura in certi punti del campo si vedevano pile di cadaveri alte quanto un uomo in posizione eretta. La prospettiva migliore era quella di essere presi come prigionieri dai lesti arcieri inglesi, che grazie alla leggerezza dell'equipaggiamento erano pressoché invincibili contro un nemico appesantito, bloccato e, spesso, già gravemente ferito. La terza linea francese, l'ultima, non aveva nessuna intenzione di andare incontro a una morte praticamente certa, dunque titubava. Il sussulto finale di un nemico devastato venne da un paio di nobili locali che, alla testa di un gruppo di contadini, fece strage di malati e feriti nell'accampamento inglese. Per prudenza, Enrico V ordinò di uccidere a sangue freddo tutti i prigionieri francesi, onde evitare che questi, incoraggiati dall'iniziativa, si ribellassero. Così, a parte tale massacro, l'attacco nelle retrovie non sortì alcun effetto. Quanto a quel che rimaneva dell'esercito francese, superate le iniziali esitazioni, finì per ritirarsi in tutta fretta, in preda allo sconforto. La battaglia era finita. In mezz'ora soltanto la Francia sembrava aver perso una guerra iniziata quasi ottant'anni prima. “Non siamo noi che abbiamo compiuto questa carneficina, ma Iddio onnipotente come punizione per i peccati francesi” disse il re d'Inghilterra quando vide che il campo era suo. Le vittime tra i ranghi francesi furono pesantissime. Si stima che siano caduti tra i 7000 e i 15000 uomini, tra cui lo stesso conestabile Carlo D'Albret, tre duchi e 90 signori: il fior fiore di Francia, insomma. Gli Inglesi al contrario lasciarono sul campo non più di 400 uomini. Un vero e proprio miracolo.

LA PACE DEL VINCITORE

I frutti del trionfo erano dolci e succosi per Enrico V, il quale, ovviamente, non esitò a coglierli. Entro un quadriennio dopo la battaglia, l'intera Normandia cadeva in mano inglese. Perfino l'imprendibile Rouen capitolò. Con la Francia in ginocchio, il re inglese impose condizioni umilianti al nemico: il trattato di Troyes, siglato nel maggio 1420, stabiliva che Carlo VI avrebbe continuato a regnare fino alla morte, ma suo erede e “figlio” diveniva proprio il re d'Inghilterra, cui veniva data in moglie la figlia del sovrano di Francia, Caterina di Valois. Nel frattempo Enrico V, col titolo di reggente, avrebbe esercitato il governo sullo Stato sconfitto in nome di Carlo VI e conservato a titolo personale il ducato di Normandia. “E' una vittoria del debole sul forte, del soldato semplice, appiedato, sul cavaliere, della risolutezza sulla vanagloria” scrive John Keegan su Agincourt; poi prosegue: “[...] un episodio capace di scuotere qualsiasi scolaretto annoiato dall'ora di Storia”. Con il grande storico nativo di Clapham non si può che concordare, ma bisogna tener conto che parlava da inglese, orgoglioso di uno dei trionfi più celebrati dalla storiografia britannica. Noi, tuttavia, al di fuori di qualunque logica nazionalistica, dobbiamo dare il giusto peso alla battaglia di Agincourt e tener presente che proprio quando tutto sembrava perduto, la Francia seppe avere la sua riscossa. Non molti anni dopo gli eventi di cui abbiamo trattato, quello stesso Dio, spacciato instancabilmente da Enrico V come alleato d'Inghilterra, avrebbe “cambiato” parte del conflitto. Di lì a poco, infatti, avrebbe regalato alla Francia il miracolo dei miracoli: Giovanna d'Arco.

BIBLIOGRAFIA

  • Philippe Contamine, “La Guerra dei Cent'Anni”, il Mulino, Bologna, 2009
  • Juliet Barker, “Agincourt”, Hachette Digital, 2010
  • Alessandro Barbero, “Donne, Madonne, Mercanti e Cavalieri. Sei Storie Medievali”, Editori Laterza, Bari, 2013
  • Andrea Frediani, “Le Grandi Battaglie del Medioevo”, Newton Compton Editori, Roma, 2009
  • Dr. Goldsmith, “An Abridgement of the History of England”, R. and W. Dean, Manchester, 1818
  • John Keegan, “Il volto della battaglia, Azincourt, Waterloo, La Somme”, il Saggiatore, Milano, 2010
  • Henri Pirenne, “Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo”, Newton Compton Editori, Roma, 2010
Articolo di Giulio Talini. Tutti i diritti riservati

martedì 29 luglio 2014

MORTE AL TIRANNO: LA CONGIURA DEI PAZZI

Disteso sul letto, Piero, figlio di Cosimo de' Medici, cui era succeduto nella guida di Firenze nel 1464, oramai stava per passare all'altro mondo. In realtà fin da giovane la sua salute era stata pessima (non per nulla lo soprannominarono “il Gottoso”), ma stavolta ogni speranza era vana. Chiunque, nell'ora della fine, avrebbe pensato alla propria anima e passato in rassegna i peccati e le buone azioni della propria vita. Chiunque, ma non Piero. Fino all'ultimo, tentò infatti di placare tanto le ambizioni dei nemici quanto il fanatismo dei suoi seguaci, ma, per farlo, non aveva altro strumento che la lingua, spossato com'era nel fisico dalla lunga malattia. A questi suoi “onestissimi pensieri” si frappose, infine, la morte, avvenuta il 2 dicembre 1469. Fu sepolto nella vecchia sacrestia di San Lorenzo, “e furno le sue esequie fatte con quella pompa che tanto cittadino meritava”, narra il Machiavelli, pieno di ammirazione. Firenze intera pianse la perdita di Piero. Il dolore e la mestizia, tuttavia, furono accantonati in fretta perché incombeva l'annoso problema della successione nella guida della città. A chi affidare lo Stato dunque? Nonostante i subdoli tentativi veneziani di favorire la restaurazione di un'oligarchia allargata, i principali esponenti delle famiglie fiorentine implorarono il figlio di Piero, Lorenzo, affinché si assumesse la cura della politica cittadina. Quest'ultimo accettò, associandosi però nell'oneroso incarico il fratello minore Giuliano, di quattro anni più giovane. Appena maritato alla principessa romana Clarice Orsini, Lorenzo era all'epoca solo ventenne, eppure già aveva in sé le doti del principe perfetto: era colto grazie all'educazione impartitagli dalla madre, Lucrezia Tornabuoni, acutissimo, fascinoso, amante della poesia. Non bisognava farsi ingannare dalle maniere gentili e dall'apparente semplicità: aveva spiccate doti diplomatiche, intuito politico e la spregiudicatezza necessaria per perseguire qualunque risultato. All'occorrenza poteva perfino divenire spietato, come dimostrò quando inviò bande mercenarie contro la ribelle Volterra per metterla a sacco. Era, senza ombra di dubbio, un uomo straordinario, eccezionale, “Magnifico”, come lo definirono. Se è vero che per dominare sulla città fiorentina tre erano i requisiti, ossia “buoni rapporti di parentela con le altre famiglie che contavano, ricchezza e accesso alle cariche pubbliche” (Franco Cardini), Lorenzo riuscì a soddisfarli perfettamente per tutta la lunga durata del suo governo, come del resto avevano fatto Cosimo e Piero. Unica pecca: tra poesie d'amore, piene di fiori e di api, e incontri diplomatici, non era infrequente che il Magnifico trascurasse i suoi doveri e responsabilità nella gestione dell'attività bancaria. Non a caso, Giovanni Tornabuoni, direttore della banca Medici a Roma, dovette fronteggiare più di un bilancio negativo, mentre Lorenzo, forse con ingratitudine, si disinteressava dell'impresa di famiglia e delle sue alterne vicende. Quali che fossero le sue colpe e le sue virtù, le fonti dell'epoca, anche le più autorevoli, parlano, riferendosi agli anni in cui Lorenzo reggeva lo Stato fiorentino, di “somma pace per la città”, di cittadini “uniti”, di una potenza detenuta dal Magnifico tale “che nessuno si ardiva a contradirlo”. In politica estera non fu da meno: tutt'oggi infatti gli storici restano sorpresi della serenità, dell'armonia che Lorenzo seppe dare all'Italia intera, asservendo ogni sua dote politica al rafforzamento degli accordi presi con la pace di Lodi (1454) e dei rapporti fra gli Stati all'interno della Lega Italica. Di questi due capolavori della diplomazia, infatti, l'artefice fu Cosimo, ma chi loro diede piena applicazione fu il Magnifico, non per nulla chiamato sovente “l'ago della bilancia” della politica italiana. Fin qui sembrerebbe ci fossero, per Lorenzo e i Medici, ben poche nubi all'orizzonte. Tuttavia, sebbene silenziosamente, si profilavano dei gravi mutamenti rispetto all'assetto costituitosi sotto Cosimo e Piero. D'altra parte a Firenze, nel 1470, racconta Luzzatto, si contavano circa 32 case bancarie, agguerrite le une con le altre e con i Medici stessi in un regime di spietata competitività, e
moltissime erano le famiglie dell'aristocrazia che, come era prevedibile, avevano iniziato a divenire sempre più insofferenti al potere mediceo, per quanto si celasse dietro le formalità delle istituzioni repubblicane (secondo la prassi avviata da Cosimo). Le cronache dell'epoca raccontano che spesso Lorenzo fu addirittura costretto, con suo grande rammarico, a partecipare ad ogni sorta di assemblea politica, al fine di assicurarsi che i suoi stessi sostenitori votassero in suo favore. Facile intuire perciò che i nemici, in tempi relativamente brevi, aumentarono, fino a raggiungere proporzioni inquietanti. Anzitutto c'era il papa, Sisto IV, un francescano genovese di nome Francesco della Rovere. A dirla tutta, i rapporti tra questo e il Magnifico erano iniziati piuttosto bene, in quanto Lorenzo, come lui stesso narra nei suoi brevi “Ricordi”, viaggiò personalmente a Roma per assistere all'incoronazione del nuovo pontefice (1471), dal quale ricevette in dono degli splendidi busti antichi raffiguranti Augusto e Agrippa. Ma il nuovo papa, in realtà, dimostrò molto presto, attraverso una politica “nepotista”, tesa a piazzare parenti e amici in posizioni politiche e religiose strategiche, di avere ambizioni difficilmente conciliabili con l'esistenza di un potentato peninsulare come quello mediceo. Poi c'erano i Pazzi. Erano una famiglia antichissima, tanto che, per dirne una, Pazzo de' Pazzi aveva partecipato alla prima Crociata. Fecero enorme fortuna nell'attività bancaria e divennero, proprio come i Medici, una potenza economica mondiale. D'altro canto non ogni famiglia benestante poteva permettersi di far costruire una cappella come quella che commissionarono al Brunelleschi e che ancora oggi si trova nei pressi di Santa Croce. Va detto che i primi rapporti con i Medici furono buoni, vista l'amicizia dei Pazzi con Cosimo. Dopo di lui, tuttavia, le due famiglie entrarono sempre più in competizione, e, con essa, vennero i reciproci rancori, sfociati, come si vedrà, in uno degli eventi più drammatici dell'intera Storia fiorentina.
Non deve sorprendere, in quest'ottica, la sintonia che trovarono Sisto IV e i Pazzi, legati com'erano dal comune disprezzo per la casata medicea. I conflitti con quest'ultima non tardarono ad arrivare: il primo caso eclatante fu quello relativo a Imola, nel 1473. Sisto IV la voleva ottenere da Gian Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, per consegnarla al suo nipote prediletto, il conte Girolamo Riario, “grasso, rozzo e violento”, come lo ha definito Hibbert. Il prezzo per riscattarla era di 40.000 ducati (una somma non da poco). Dove reperì tanto denaro il pontefice? Dai Pazzi, neanche a dirlo. In realtà, Sisto IV si era rivolto prima di tutto alla banca Medici, ma Lorenzo, vista la posizione strategica di Imola per la difesa di Firenze, preferì non mettere in mano al papa la città, inventandosi delle scuse per cui non poteva concedere il prestito. Solo allora il pontefice ritenne di doversi rivolgere ai Pazzi, i quali, nonostante le pressioni ricevute dal Magnifico, non esitarono ad accordare il denaro al papa, che così non ebbe problemi a mettere le mani su Imola. La vicenda segnò una svolta nei rapporti tra Lorenzo e i Pazzi, poiché la rivalità non riguardava più esclusivamente l'ambito commerciale, ma si stava tramutando rapidamente in una lotta per il predominio politico su Firenze. Nel luglio 1474, quasi a voler sancire l'alleanza, Sisto IV tolse ai Medici l'incarico, da loro detenuto storicamente, di banchieri di fiducia del Papato, preferendo al loro posto proprio i Pazzi.
Come se non bastasse, una ulteriore circostanza acuì le tensioni. La questione ebbe origine allorquando bisognava assegnare la carica di arcivescovo di Firenze, rimasta vacante nel 1474. Chi scegliere? Il papa appoggiava Francesco Salviati, nobile fiorentino, non esattamente amico dei Medici, ma il Magnifico gli si oppose strenuamente, e riuscì a far nominare Rinaldo Orsini, fratello di Clarice, sua moglie. Il Salviati divenne poco dopo arcivescovo di Pisa, sempre con l'appoggio del papa, sebbene anche in questo caso Lorenzo si fosse opposto strenuamente. Se dunque, dopo gli attriti per Imola, i suoi rapporti con Sisto IV e i Pazzi si erano incupiti, ora erano divenuti di aperta ostilità. Ormai si veniva delineando una realtà in cui lo scontro era inevitabile. Possiamo comunque ipotizzare che Lorenzo non fosse eccessivamente impensierito dai turbamenti di quelle fasi delicate: del resto chi meglio di lui sapeva che “di doman non v'è certezza”?


LIBERTA'! LIBERTA'!

Le fonti sono concordi nel sostenere che chi mostrò per primo l'intenzione concreta di ordire un colpo di Stato contro i Medici fu, nell'estate del 1477, Francesco de' Pazzi, il quale si occupava
della direzione della banca di famiglia a Roma. Questi non era esattamente quel che si dice un vir bonus. I fiorentini, con la loro schietta ironia, lo denominarono “Franceschino”, per via della bassa statura, sia fisica che morale. Tutti erano al corrente della sua amicizia con Sisto IV, non certo benvoluto a Firenze, e si era anche sparsa la voce che nutrisse una disistima profonda per i suoi concittadini, che, come si sarà immaginato, finirono per detestarlo. Eppure l'idea di spodestare i Medici riscosse un immediato successo, agevolato dagli interessi politici ed economici in ballo, a proposito dei quali discorrevamo fino a poco fa. Girolamo Riario e Francesco Salviati (tutti personaggi che abbiamo già nominato) si mostrarono subito disponibili al complotto contro Lorenzo, l'uno perché non si era affatto accontentato di dominare solo su Imola, l'altro per la pervicacia mostrata dal Magnifico nell'ostacolare la sua carriera. Tramare, dopotutto, era la cosa che sapevano fare meglio. Una delle prime proposte fu quella di un attacco militare a Firenze, ma l'ipotesi venne scartata senza troppi problemi, poiché si sapeva che sarebbe stata una guerra “lunga pericolosa ed incerta” e che, sicuramente, per via del sistema politico prodottosi con la Lega Italica, qualche altra potenza sarebbe accorsa in difesa degli assediati. Rimaneva perciò un'unica via percorribile: la congiura. Per quanto ardito fosse l'azzardo, le probabilità di riuscire nell'impresa, almeno secondo i cospiratori, non erano poi tanto incerte, considerato che Lorenzo girava per le strade della sua città solo, disarmato e ben lungi dal sospettare simili piani. Enormemente più problematica, almeno all'apparenza, era la questione relativa a Giuliano: anche togliendo di mezzo il Magnifico, non sarebbe forse rimasto suo fratello a rivendicare pretese nella guida di Firenze? Bisognava uccidere tutti e due dunque. Dopo di che, pensavano, il popolo intero li avrebbe seguiti, memore dell' “antica libertà” repubblicana. Su tale previsione, come vedremo, si sbagliavano di grosso.
Le prime difficoltà non tardarono a presentarsi. Jacopo de' Pazzi, l'anziano capofamiglia, raggiunto a Firenze da Franceschino e da quest'ultimo messo al corrente della macchinazione, si era mostrato piuttosto restio di fronte ad un colpo di mano di siffatta portata. Intendiamoci bene: neanche lui gradiva il governo dei Medici, né tanto meno la loro banca. Tuttavia, sosteneva, l'insurrezione programmata era gravida di rischi, soprattutto perché si fondava sul fatto che i fiorentini, con il Magnifico e Giuliano in una pozza di sangue, avrebbero seguito i cospiratori senza esitazioni. Se ciò non fosse avvenuto, la casata dei Pazzi rischiava di essere risucchiata negli abissi della Storia. Giocare a fare i Bruto e Cassio poteva condurre a indicibili tragedie. Nella sete di sangue di quei giorni frenetici, il parere di Jacopo fu senza dubbio il più ponderato, per non dire l'unico che si possa definire tale. Ad ogni modo, la saggezza aveva abbandonato le menti dei cospiratori annebbiate dall'ambizione: costoro non ritennero necessario rivedere le loro posizioni, ma preferirono far cambiare a Jacopo le sue. Per tal ragione, onde acquisire maggior credibilità, cercarono l'appoggio di Giovanni Battista conte di Montesecco, condottiero dei Riario e del Papato, che della nostra congiura ha lasciato un dettagliato resoconto prima di essere giustiziato. A dir la verità, la prima reazione non fu neanche in questo caso entusiastica: il Montesecco ragionava da soldato e un soldato non esegue nessun ordine che non provenga direttamente da chi lo comanda. 
I cospiratori, conoscendo il suo modo di ragionare, riuscirono a convincerlo solo quando gli spiegarono quanto pessimi fossero i rapporti tra i Medici e Sisto IV e che Girolamo Riario già da tempo faceva parte dei congiurati, visto che il suo controllo su Imola, finché Lorenzo viveva, era in condizioni precarie. Vuoi per la serietà con cui sembrava si organizzasse il colpo di Stato, vuoi per sfinimento, anche Jacopo de' Pazzi, infine, si convinse delle possibilità della congiura, supplicato da Franceschino e dal Montesecco in persona. L'avvenimento risulta di particolare rilevanza nella nostra vicenda, poiché, immediatamente dopo, gli aderenti crebbero esponenzialmente in numero e potenza: si aggiunsero uomini influenti, come Bernardo Bandini Baroncelli, membro d'una casata di banchieri amica dei Pazzi o Napoleone Franzesi, sodale della famiglia; intellettuali spinti da una sincera nostalgia repubblicana, quale Jacopo Bracciolini, figlio, tra l'altro, del celeberrimo Poggio, umanista; prelati legati ai Pazzi o quantomeno ostili ai Medici, come Stefano da Bagnone, parroco di Montemurlo, o Antonio Maffei, prete volterrano. Tanti uomini diversi insomma, uguali però su un fatto: l'odio viscerale per i Medici e per ciò che essi rappresentavano. Passiamo ora al piano. Come prima cosa, naturalmente, bisognava assassinare Lorenzo e Giuliano. Il problema fu stabilire quando. In principio si era convenuto di eliminare il Magnifico nella Pasqua del 1478, il 22 marzo, dal momento che aveva in programma una visita a Roma, per poi uccidere Giuliano a Firenze. La visita a Roma del Magnifico, tuttavia, non si verificò e i piani saltarono. Dopo questo primo fallimento, per risparmiare tempo, si decise di commettere gli omicidi in un'occasione in cui i bersagli fossero stati insieme, motivo per cui il bagno di sangue fu rimandato alla quarta domenica dopo Pasqua, ossia il 19 aprile. In tale data si avevano addirittura due possibilità per abbattere il tiranno e suo fratello: erano infatti previsti per quel giorno due ricevimenti, uno alla villa Loggia di Montughi, la residenza di Jacopo de' Pazzi, e uno a quella laurenziana di Careggi, in onore di Raffaele Sansoni Riario, che aveva ricevuto il cappello cardinalizio “di San Giorgio” (vale a dire quello deputato alla città di Genova). Tuttavia Giuliano fece sapere di essere indisposto e di non potersi presentare per l'intera giornata. Anche questa volta nulla di fatto. Di nuovo i cospiratori furono costretti a ritardare la congiura, posticipandola di una settimana, ovvero a domenica 26 aprile, la prima del “tempo ordinario”. Pareva un'altra buona opportunità, poiché il summenzionato cardinale Raffaele Sansoni Riario era stato invitato a visitare le splendide collezioni artistiche del palazzo mediceo di Via Larga. Per l'evento, si sarebbe tenuto un banchetto e, pensavano i cospiratori, sarebbe stato semplice assassinare brutalmente Lorenzo e il fratello, magari appesantiti dal cibo e le bevande. Ma Giuliano, non senza destare sbalordimento, si diede ancora una volta malato (forse aveva capito che qualcosa non andava). I cospiratori si trovavano a fare i conti con un nuovo, possibile posticipo. Non si stava andando troppo oltre? Già molti ormai erano a conoscenza della congiura, e più si procrastinava, maggiori erano le probabilità di essere scoperti. Si faceva presto, dopotutto, a finire come Catilina e i suoi seguaci. Questa volta, dopo interminabili discussioni, tra i cospiratori prevalse l'opinione di coloro i quali suggerivano di rimanere d'accordo sul 26 aprile, visto che almeno alla messa solenne della mattina in Santa Maria del Fiore (che i fiorentini all'epoca chiamavano “Santa Reparata”, o “Liperata”) sarebbero sicuramente stati presenti sia Lorenzo che Giuliano, indipendentemente da qualunque impedimento. D'altro canto, anche loro, seppur nemici del papa, erano cristiani. Basta poco per capire che il luogo e il momento fissati per il delitto non fossero esattamente i migliori: versare del sangue di fronte all'altare, e perciò di fronte a Dio, sapeva molto di sacrilegio, che rischiava di condurre ad una reazione di sdegno tra la gente, non certo di entusiasmo o di ispirazione.
In ogni caso, una volta morti Lorenzo e Giuliano, ai confini della repubblica di Firenze erano pronti ad intervenire in città con le loro truppe i condottieri Gian Francesco da Tolentino e Lorenzo Giustini da Città di Castello, non appena avessero ricevuto il segnale. Gli eserciti assoldati, tuttavia, fornivano solo un appoggio ulteriore ad una sollevazione che prima di tutto, secondo i piani, doveva nascere dai fiorentini stessi. Non era intenzione dei cospiratori rovesciare i Medici con un colpo di Stato basato solo sulle spade e i mercenari; era essenziale che fossero anzitutto i cittadini della Repubblica a compiere la rivoluzione. Perché ciò avvenisse, infatti, a Jacopo de' Pazzi era affidato l'oneroso incarico di compiere una eroica, lunga cavalcata dopo il delitto fino a Palazzo della Signoria, occupato nel frattempo dal Salviati, per incitare i cittadini ad appoggiare la caduta della tirannide al grido “Libertà! Libertà!”. Analizzati i piani, dunque, si comprende che, nelle menti dei congiurati, le uccisioni di Lorenzo e Giuliano non dovevano essere che le scintille in grado di far esplodere il popolo fiorentino contro anni di oppressione insostenibile.
Dopo le attese snervanti, i diverbi segreti, gli sforzi silenziosi, l'ora del sangue arrivò, finalmente. La mattina di domenica 26 aprile, “la chiesa era piena di popolo”. Nessuno dei congiurati mancava all'appello, sennonché non si vedeva una delle vittime: ancora una volta, Giuliano non era presente, e la messa era già iniziata. Senza perdere tempo, due cospiratori, Francesco de' Pazzi e Bernardo Bandini Baroncelli, cui era stato affidato il compito di uccidere proprio il fratello di Lorenzo, uscirono dalla splendida cattedrale con l'intento di condurlo alla celebrazione, possibilmente con le buone maniere. Per convincerlo, visto che non era in buone condizioni di salute, come prima si accennava, dovettero ricorrere a tutta la falsità e la spregiudicatezza che avevano. Pare addirittura che, nel tragitto per arrivare alla chiesa, i due abbiano intrattenuto Giuliano con “motteggi e giovinili ragionamenti” e che Franceschino lo abbracciasse ogni tanto fingendo affetto, così da poter verificare se avesse armi o una cotta di maglia sotto i panni da festa. Giunti i tre nella cattedrale, non restava che procedere. Al segnale convenuto, che con ogni probabilità fu l' “Ite missa est” della fine della cerimonia sacra, il Bandini si scagliò sopra Giuliano come una bestia inferocita e gli trafisse il petto con tutta la sua forza. Il giovane, irrigidito, cadde ed ecco che Francesco de' Pazzi gli saltò sopra assestandogli altre furiose pugnalate, inebriato dal sangue che scorreva a fiotti. Per l'accanimento arrivò perfino a ferire se stesso alla gamba. La chiesa si riempì di grida di terrore. A questo punto toccava a Lorenzo. Stefano da Bagnone e Antonio Maffei, i preti cui era affidato il compito di ucciderlo, lo assalirono alle spalle, ma il Magnifico trovò il modo di reagire, per loro mancanza di destrezza o grazie alla prontezza dei suoi riflessi. Ferito di striscio al collo, ebbe infatti il tempo di voltarsi verso gli assalitori e avvoltolare il mantello attorno al braccio sinistro, quasi fosse uno scudo. Dunque estrasse la lama che aveva con sé e con essa si difese dagli attacchi ripetuti dei preti, che non si rivelarono esattamente dei maestri spadaccini. Avendo la meglio nel duello, riuscì a fuggire dentro la sacrestia nuova, aiutato da alcuni amici che erano giunti a soccorrerlo (tra cui c'era anche Agnolo Poliziano), e là furono sbarrate le porte. Lorenzo non faceva che chiedere: “Giuliano? Sta bene?”, senza tuttavia ricevere alcuna risposta. Poco dopo, Santa Maria del Fiore era vuota: erano fuggiti tanto i fedeli quanto i cospiratori. Così Lorenzo, ancora tremante per l'accaduto, poteva fare ritorno a Palazzo Medici. Nel frattempo il piano della congiura proseguiva, nonostante il principale bersaglio fosse ancora in vita. L'arcivescovo Salviati, insieme a trenta uomini, si diresse, come stabilito, a Palazzo della Signoria. Qui fece chiamare colui che deteneva formalmente il controllo su Firenze, il gonfaloniere di giustizia Cesare Petrucci, filomediceo, probabilmente per informarlo della rivoluzione in atto. In questo frangente, la vicenda si fece comica, anzi tragicomica: il Salviati, divenuto improvvisamente goffo e impacciato di fronte al gonfaloniere, iniziò a balbettare, insospettendo a tal punto il Petrucci che quest'ultimo chiamò a gran voce le guardie. In pochi minuti, coloro che dovevano prendere il controllo del palazzo furono facilmente catturati, tra gaffes e pietose figuracce. Per difendere l'edificio da chiunque tentasse di entrare, le porte furono chiuse.
Altro punto del piano, quello probabilmente più suggestivo, era la cavalcata di Jacopo de' Pazzi per incitare il popolo alla sollevazione. Ebbene questi raggiunse effettivamente il Palazzo della Signoria , ma nessuno lo seguì. Anzi Jacopo e la sua scorta furono bersagliati da una pioggia di pietre scagliate dalle finestre, mentre da ogni direzione si levava il grido “Palle! Palle! Palle!” (ci si riferiva al simbolo dei Medici). Scoraggiato e sconfitto, il capofamiglia dei Pazzi fu costretto ad una rovinosa fuga fuori da Firenze. Se si poteva chiudere un occhio sulla non brillante performance in Santa Maria del Fiore e sulle scene ridicole nel Palazzo della Signoria, altrettanto non si poteva fare sul mancato sostegno popolare. La previsione su cui si sorreggeva l'intera impalcatura della macchinazione si era rivelata clamorosamente errata. Perché, verrebbe da chiedersi? In primo luogo i congiurati avevano valutato in maniera eccessivamente riduttiva il consenso di cui godevano i Medici in città, che, specialmente sotto Lorenzo, non faceva che crescere. Secondariamente bisogna considerare quanto sostiene il Guicciardini, quando con estrema sintesi afferma che il popolo appoggiò con convinzione Lorenzo anche perché “lo ammazzare Giuliano, che aveva benivolenzia” sembrò “uno atto molto brutto e contra ogni civiltà, massime in chiesa in dì solenne”.
Dopo la congiura, venne la vendetta ed essa fu tanto crudele, tanto smisurata da far pentire ogni singolo cospiratore di aver aderito ad un disegno che solo adesso mostrava tutta la sua intrinseca fragilità.


TRADITORI ALLA FORCA

Dal 26 aprile al 4 maggio Firenze divenne teatro di massacri inauditi contro coloro che avevano cospirato, o anche solo sembravano averlo fatto. Sia chiaro: si trattò essenzialmente di un moto spontaneo da parte degli abitanti della città. Tuttavia, non pare possibile che la situazione possa esser sfuggita di mano al governo cittadino in maniera tale da rimanere paralizzato. Le ruberie, i saccheggi, le uccisioni, con ogni probabilità, non ebbero limiti soprattutto perché Lorenzo, della cui spregiudicatezza abbiamo trattato, seppe approfittare del momento per fare piazza pulita di qualunque avversario senza sporcarsi le mani. In altre parole, attraverso una appropriata propaganda, il Magnifico instaurò una sorta di temporaneo Terrore, con il quale rimosse ogni residuo dell'opposizione. A morire furono in molti. Francesco de' Pazzi, l'arcivescovo Salviati, suo fratello Jacopo e il Bracciolini furono impiccati alle finestre del Palazzo della Signoria, così che tutto il popolo li vedesse. Dopo di loro, si conta che, tra il 26 e il 27 aprile, fossero sommariamente uccise circa ottanta persone, sia congiurati, sia presunti tali, sia innocenti. Le strade e i vicoli di Firenze si riempirono di sangue, corpi esanimi e brandelli di carne. Svariati membri della famiglia Pazzi furono giustiziati, condannati all'esilio o imprigionati, in certi casi perché effettivamente coinvolti o favorevoli alla congiura, in altri esclusivamente perché erano nati con la maledizione di quel nome. I sopravvissuti della casata dovettero, per legge, mutare cognome e arme araldica. Particolarmente dura fu la fine dei due preti, il Maffei e Stefano da Bagnone, ai quali, una volta catturati, furono recisi nasi e orecchie, prima di essere impiccati. La sorte che toccò a Giovan Battista da Montesecco non fu migliore: dopo aver reso una dettagliata confessione nella speranza di essere risparmiato, fu decapitato senza pietà dinanzi alla porta del Bargello. Quanto a Jacopo de' Pazzi, fu ritrovato il 27 aprile a Castagno: i filomedicei lo picchiarono brutalmente, per poi impiccarlo. Infine, anche Bernardo Bandini Baroncelli finì appeso alla forca, una volta rispedito a Firenze da Istanbul, dove aveva tentato di nascondersi, Lorenzo il Magnifico non poteva lamentarsi della vicenda appena trascorsa. Certo, perse il fratello e rischiò di perire lui stesso, ma non ne era forse valsa la pena? Con le repressioni successive aveva eliminato ogni forma di contrasto interno, ragione per cui il popolo prese ad adorarlo come mai aveva fatto prima di allora. In più, a dirla tutta, la dipartita di Giuliano fu senza dubbio una disgrazia, ma aveva anche i suoi vantaggi: con lui vivo, in futuro, sarebbero potuti nascere contrasti in relazione al patrimonio familiare o, nella peggiore delle ipotesi, al governo della città. Dopo la congiura, invece, simili previsioni cadevano nel vuoto. Le uniche conseguenze spiacevoli del cospirazione fallita furono i tentativi di Sisto IV di rivoltare l'Italia contro i Medici, che tuttavia si conclusero in chiari fallimenti, su cui, per la tirannia dello spazio, dobbiamo sorvolare. Da quel funesto (ma non troppo) 26 aprile 1478, Firenze, come una figlia ammansita da una dura, ma giusta, punizione, si inchinò ai saggi voleri di Lorenzo e per i quattordici anni che seguirono visse il suo momento più splendente, più sicuro, più glorioso. In una parola, Magnifico.



BIBLIOGRAFIA


* Niccolò Machiavelli, “Istorie Fiorentine e altre opere storiche e politiche”, a cura di Alessandro Montevecchi, UTET Libreria, Varese, 2007
* Niccolò Machiavelli, “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, a cura di Giorgio Inglese, BUR, Bergamo, 2011
* Francesco Guicciardini, “Storie Fiorentine”, a cura di Alessandro Montevecchi, BUR, Peschiera Borromeo (MI), 2006
* Gino Luzzatto, “Breve storia economica d'Italia”, Einaudi, Torino, 1958
* Tim Parks, “La fortuna dei Medici”, Arnoldo Mondadori Editore, Cles (TN), 2010
* Christopher Hibbert, “Ascesa e caduta di Casa Medici”, Arnoldo Mondadori Editore, Cles (TN), 1988
* Franco Cardini, “1478. La congiura dei Pazzi”, Editori Laterza, Bari, 2013
* Niccolò Capponi, “Al traditor s'uccida. La congiura dei Pazzi, un dramma italiano”, il Saggiatore, Milano, 2014

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