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La Grande Storia dei Cavalieri Templari
Creati per difendere la Terrasanta a seguito della Prima Crociata i Cavalieri Templari destano ancora molto interesse: scopriamo insieme chi erano e come vivevano i Cavalieri del Tempio
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martedì 21 giugno 2016
LA LEGGENDA DELLE STREGHE DI BENEVENTO
giovedì 16 aprile 2015
LA MANDRAGORA
martedì 8 luglio 2014
STREGHE E STREGONERIA - ARTICOLO DI SAMANTHA LOMBARDI
Ma quali erano le sembianze della strega nell’antichità classica? La sua figura, senza ombra di dubbio, deve aver esercitato il suo fascino nell’immaginario collettivo. Le più allettanti e continue testimonianze sono quelle offerte dai poeti greci e latini ed è proprio a questi ultimi che i tribunali dell’Inquisizione medievale faranno frequente riferimento, anche se le antiche Leggi Romane non rimangono insensibili alla credenza dei rituali magici. Infatti, le Leggi delle Dodici Tavole (Duodecim Tabularum Leges), compilate nel 451/450 a. C., rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del Diritto Romano, dove una delle regole della Tavola VIII (illeciti) condannava tutti coloro che avevano cantato un maleficio (qui malum carmen incantassit). Cicerone e Plinio il Vecchio sottolineano come nella stessa Tavola veniva indicata inequivocabilmente, fra i reati capitali, l’appropriazione, per mezzo della magia, del raccolto o del grano di un altro. In età imperiale anche lo storico Ammiano Marcellino, fornisce testimonianze riguardanti alcuni rituali puniti da leggi o editti. Dimostrato, tra l’altro, è l’uso della “defixio”, la stessa definisce la pratica magica collegata al rito della penetrazione con un chiodo della piccola lastra di piombo arrotolata su se stessa, su cui era scritto il nome del destinatario della maledizione o su cui era inciso semplicemente il testo dell’anatema. La lastrina inchiodata era posta in una buca che si credeva potesse comunicare con gli Inferi. Streghe e maghi utilizzavano invece piccole figure realizzate in cera, metallo o altro materiale dalle grossolane sembianze delle loro vittime. Contemporanea era la produzione di amuleti che dovevano proteggere, dalle forze del male, coloro che li indossavano; su questi oggetti venivano incise anche formule magiche e immagini con valore scaramantico. Se scarse sono le testimonianze iconografiche, vasta è la documentazione scritta delle pratiche magiche. Precise al riguardo sono le fonti letterarie di vari autori, tra cui: Virgilio, Orazio, Apuleio e Lucano che in alcune delle loro opere raccolgono ciò che andrà a costituire un repertorio in grado di alimentare l’immaginario di altri letterati, ma soprattutto degli stessi inquisitori. Non si può negare però che l’iconografia della strega medievale e rinascimentale insieme ad immagini letterarie e figurative, affonda le proprie radici nell’antichità classica. La figura della strega vestita di nero, a piedi nudi, ululante, con i capelli arruffati, che ci restituisce l’immagine medievale, in realtà, non è altro che la descrizione di Canidia proposta da Orazio nelle Satire. Non passa inosservato che le streghe, in generale, presentano spesso tratti in comune con le Erinni (Furie nella mitologia romana): quali, le tre sorelle, Tisifone, Aletto e Megera più vecchie di tutti gli dei dell’Olimpo che costituiscono le figure a cui si fa più riferimento in epoche successive. Sono rappresentate con il corpo nerissimo e con i capelli intrecciati di serpenti, hanno ali di pipistrello e gli occhi iniettati di sangue. Un aspetto simile presenta anche Ecate. Sembra evidente che si tratta di divinità tutte collegate al regno dei morti e alla notte, anche se, in realtà, Ecate, nel culto più antico, era considerata signora delle ombre e dei fantasmi notturni e anche dea della magia e degli incantesimi. Teocrito, Apollonio Rodio e Ovidio la designano come “dea delle streghe”; gli stessi dei la onorano e Zeus le concede il potere di dare o negare ai mortali ciò che anelano.
Verbale di un processo alle streghe |
Targa commemorativa dell'ultima esecuzione per stregoenria |
Nelle raffigurazioni di streghe emergono, nel loro genere, tre tipi distinti: le streghe singole, l’iniziazione diabolica e la partenza per il sabba o meglio per il volo. Le stesse assumono in certi casi un significato didattico e scientifico idoneo ad illustrare le caratteristiche delle streghe, come avviene per quelle che ornano le edizioni del De Lamiis et Pythonicis Mulieribus di U. Molitor. A questo punto all’inizio del Cinquecento la “realtà” delle streghe, dopo grandi controversie, è pienamente accettata negli ambienti più diversi e, al contrario di come accadeva nel Medioevo, l’iconografia delle streghe e della stregoneria non viene più rappresentata in luoghi pubblici ma, è invece diffusa da carte sciolte o da immagini che illustrano dialoghi o addirittura manuali di stregoneria. Le streghe in questo periodo escono dall’anonimato in cui erano state relegate, non vivono più nei boschi che circondano i borghi, ma nelle città, frequentano le piazze e addirittura le corti, ne è esempio la moglie di Sigismondo signore del Tirolo. La figura della strega diventa così familiare che attribuiti e caratteristiche sono immediatamente riconosciuti dai diversi strati della popolazione. In area nordica, tra Quattrocento e Cinquecento, tra i maggiori vignettisti di streghe sicuramente spiccano: il tedesco Hans Baldung Grien (1484-1545): egli è sicuramente l’artista più straordinario, realizza delle immagini in xilografia considerate tra le più inquietanti del primo Cinquecento. La sua prima opera collegata alla stregoneria l’Hexensabbat (1510), raffigura il “volo delle streghe”; gli attributi quali: i bacula, il bucranio, le teste staccate, il capro e un gatto, sono ben riconoscibili; entrano, nel contesto narrativo, anche nuovi simboli come il fuso e un cappello. Due streghe sostengono rispettivamente un vaso e un piatto in cui è visibile un uccello senza piume. In alto, la strega che sostiene una forca cavalca al contrario un capro sono in procinto di entrare in un vortice di fumo lascia intravedere una figura demoniaca. Al centro si nota un vaso con una scritta in ebraico (forse è da accomunare al vaso di Pandora?). Successive raffigurazioni del Grien: l’Unzione delle streghe al Louvre (1514), Tre streghe (Partenza per il sabba,1514), La strega e Satana come dragone e L’olio delle streghe, focalizzano i temi più tipici relativi alle loro immagini: l’erotismo e il dominio degli elementi. Le streghe del Louvre presentano gli usuali attributi e hanno i capelli mossi dal vento; sia in quest’opera che nella Partenza per il sabba emerge la nudità dei corpi animati da gesti con ovvio significato erotico; ma soprattutto in quest’ultima è evidente l’utilizzazione dell’unguento magico indispensabile per il volo e i grandi vortici di fumo e di vento che alludono appunto al volo stesso.
Anche a Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553): si devono delle interessanti incisioni rappresentanti scene di stregoneria. L’opera di Halbrecht Dürer (1471-1528) intitolata Le streghe (1494), ha un ambiguo inizio: nell’incisione l’unico accenno a una realtà demoniaca è offerto da un diavolo che da una porta aperta osserva quattro donne seminude identificate poi come streghe. Dai primi anni del Cinquecento prende consistenza, in maniera quasi ossessiva, l’iconografia legata alla stregoneria. Dürer, ne La strega: partenza per il sabba (1504-1505) rappresenta una vecchia, nuda, che abbandona il luogo d’incontro a cavallo di un caprone, con i capelli agitati dal vento, mentre impugna un fuso, con una serie di putti ai suoi piedi. In quest’opera, che richiama immagini iconografiche e stilistiche della tradizione classica, l’autore trasforma l’immagine di Venere e la collega al nuovo mito delle streghe. Anche Albrecht Altdorfer (1480-1538), disegna alcune streghe in un paesaggio appena distinguibile. Le streghe son ben contraddistinte dagli attributi a loro peculiari: il capro, il bucranio, il baculum e il fuso. Nel 1508 Johann Geiler von Kaysersberg a Friburgo in Brisgovia, città della Germania Sud-occidentale, teneva prediche quaresimali pubblicate con il titolo Die Emeis (Le formiche) illustrate proprio da Grien. L’opera di Geiler metteva in primo piano gli aspetti basilari della stregoneria secondo quanto stabilito dagli inquisitori: il viaggio, il ballo, la trasformazione in animali ecc… Circa dieci anni dopo il papa umanista Leone X emanò una bolla dal titolo De divino amore con cui appoggiava le riforme negli ordini religiosi condannando la magia e la stregoneria. La figura della strega era dunque diventata tanto comune al punto da poter rientrare nei cliché della stampa e della grafica. Nello stesso modo, però, si condannavano e si bruciavano presunte streghe. Ciò accadde nel 1514 a Maria Laach in Germania, furono giustiziate sei streghe accusate di aver ucciso l’abate Simon von der Leven. Mentre in Germania si creavano le nuove immagini ispirate alla stregoneria, in Italia più o meno nello stesso periodo venivano rappresentate scene raccapriccianti dal significato ambiguo in quanto non espressamente collegabili alla stregoneria. Le prime rare e inequivocabili immagini collegate alla stregoneria sono opera di Andrea Briosco detto il Riccio (1470-1532), che guarda a modelli ellenistici, come, ad esempio, della raffigurazione del corpo delle vecchie. Il tentativo di una conciliazione tra forme classiche e nuovi contenuti simbolici li troviamo nell’incisione de Lo Stregozzo (1516) dalla paternità controversa, l’opera è attribuita sia all’incisore Agostino de Musis (1490-1536), in arte Agostino Veneziano che a Marcantonio Raimondi (1470-1532). Nell’incisione del Veneziano la “magia della tempesta” si riconosce dal movimento degli arbusti piegati dal vento e dal disordinato volo delle anatre che è collegato ai culti demoniaci. Gli scheletri degli animali che compongono la cavalcatura fantastica di Ecate, dai capelli mossi dal vento, sono rappresentati senza dubbi interpretativi tesi a rappresentare un mondo demoniaco connesso al paganesimo. La figura centrale è una vecchia megera che tiene in mano un canestro. Da questo momento in poi, le immagini di streghe aumenteranno a dismisura, connesse soprattutto al tema del sabba.
Tra i temi figurativi relativi alla stregoneria, il sabba è uno dei più noti e diffusi in Europa, soprattutto a partire dal Seicento: incisori e pittori, da Salvator Rosa a Callot fino a Goya, hanno spesso trattato il soggetto della riunione di streghe definendo e illustrando piani più complessi della realtà demoniaca. Tra le prime raffigurazioni del sabba sono due opere di Jacques II de Gheyn (1565-1629): un disegno e un’incisione con La danza o forse La Cucina delle streghe. Nell’incisione, al centro, è rappresentato un calderone intorno al quale sono sedute le streghe, ai lati sono raffigurate dame vestite con eleganza mentre portano oggetti per il rituale; a sinistra una donna con un fuso seduta su una panca assiste a una scena di magia; dal camino fuoriesce uno stregone con un gesto volgare, mentre nel cielo si libra un capro cavalcato da una strega. All’inizio del Cinquecento numerosi teorici, giuristi e medici avevano trattato della realtà del volo delle streghe. Antonio de Ferraris nel De situ Yapygiae, ricorda come la favola della stregoneria avesse invaso il mondo intero, propagandosi tra gli strati più poveri della popolazione. Un gruppo di medici aveva conferito maggior vigore a queste argomentazioni collegandole all’influenza della melanconia e all’uso di droghe. Anche Johannes Wier, riconduceva il volo delle streghe a un effetto dell’immaginazione e all’ottenebramento dei sensi attraverso l’uso di droghe. A queste posizioni si opponevano il gesuita belga Martin Del Rio nei suoi sei Disquisitionum magicarum libri sex (1599) e il francese Jean Bodin nella Dénonomanie des sorciers (1580), dove accusavano il Wier di incompetenza e ignoranza. Il testo di Martin Del Rio in cui affronta la stregoneria, gode di grande fortuna fin quasi a metà del Settecento. Il secondo dei sei libri che lo compongono è dedicato al dibattito sulla magia demoniaca: dopo aver elencato maghi famosi come: Zoroastro, Apuleio, Dositeo, Pitagora ecc., ricorda anche alcune maghe popolari dell’antichità, tra queste Circe e Medea che, l’autore, accosta ad altre streghe quali: Canidia, Folia ed Ericto. La Quaestio IX è dedicata ai poteri di Circe e delle altre maghe, esaminati attraverso la testimonianza dei classici. In verità, tutto il secondo libro tende a contestare la possibilità, per i maghi, di modificare le leggi dell’universo; in particolare, viene messa in discussione la metamorfosi intesa come il potere di tramutare un essere in un altro di diversa specie, in altre parole, se questo accada “realmente” o non sia invece effetto della potenza immaginativa. La metamorfosi è uno dei punti più discussi della trattatistica sulla stregoneria: tra gli esempi più classici, non bisogna dimenticare la magia operata da Circe sui compagni di Ulisse, da lei trasformati in animali. Il nome di Medea, sorella di Circe, compare invece a proposito dei processi di ringiovanimento, dei malefici e delle stragi. I nomi dei due personaggi venivano anche collegati alla conoscenza e alla manipolazione delle erbe, tanto che, Circe divenne sinonimo di avvelenatrice. Tuttavia, l’interesse per la sua figura, nel Medioevo, non ha una particolare fortuna iconografica. La maga, depositaria della manipolazione delle erbe e delle metamorfosi, nel Rinascimento, trova invece una nuova vitalità che le consente di passare dal testo all’immagine. Nel 1612 Pierre de Lancre scrisse il suo Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons ; le edizioni del libro contengono un’incisione del polacco Jan Ziarnko con l’immagine del sabba. L’illustrazione risulta il riepilogo più completo e significativo delle azioni che avvengono durante un cerimoniale satanico. La tavola riunisce le più aberranti scene, (appresso descritte) che caratterizzano il cerimoniale della corte di Satana. I gruppi raffigurati sono intenti a compiere varie azioni, tra cui: Satana in forma di capro seduto su un trono tra due dame, quella incoronata è definita la regina del sabba; di fronte a Satana, una strega e un demonio inginocchiato presentano un bambino; intorno a un albero danzano demoni e fanciulli nudi; streghe e demoni alati o in forma di capri banchettano intorno a un tavolo; un gruppo di streghe fa bollire nel calderone delle serpi, streghe a cavallo della scopa volano tra piccoli animali alati, uomini e donne danzano insieme ad alcuni demoni. Anche in Italia cominciarono a comparire testi contro la stregoneria. Il Compendium maleficarum di Francesco Maria Guazzo, composto da tre libri, ognuno suddiviso in due parti, fu pubblicato nel 1608 e poi nel 1627. Argomenta il potere degli unguenti usati dalle streghe, per poi giungere alla conclusione che solo un intervento demoniaco possa concedere al preparato poteri tali da trasformare le donne in gatte o altri animali. Il testo risulta particolarmente interessante in quanto accompagnato da una serie di xilografie che descrivono senza sottintesi il contenuto dei paragrafi. L’opera del Guazzo non contiene però particolari novità sulla questione demonologica, in quanto risulta un riassunto del Malleus maleficarum e delle Disquisitiones maleficarum di Martin del Rio. L’opera è ricca di particolari descrittivi che permettono immediati riconoscimenti come ad esempio il segno che Satana impone sulla fronte dei suoi accoliti con l’unghia, chiaro simbolo della cancellazione del battesimo e della cresima. Una sequenza dello stesso tipo, ma solo accennata, si trova nel testo del Molitor: De pythonicis mulieribus (1489) in cui, nelle poco descrittive illustrazioni, si coglie un tentativo di rappresentare realtà e perversità della stregoneria che anticipano l’opera del Guazzo e del De Lancre.
Tra le più sorprendenti raffigurazioni, in ambito stregonesco, si deve collocare Streghe e incantesimi (1640) di Salvator Rosa. L’immagine sottintende: la preparazione del velenoso unguento, l’esumazione dei cadaveri, il taglio delle unghie degli impiccati, la defictio, la manipolazione di rospi, il volo, il rapimento di neonati; sullo sfondo, lo scheletro di un animale fantastico. Nell’opera del Rosa emerge la particolare conoscenza della stregoneria e della magia, le numerose scene dipinte dichiarano un gusto particolare che, al di là del semplice interesse per la stregoneria, va verso l’insolito e lo stravagante. Così queste macabre raffigurazioni stregonesche sono apprezzate sia da un pubblico borghese che da intellettuali. Anche il pittore e scrittore, Lorenzo Lippi, noto per Il Malmantile racquistato (1676) descrive nel poema paesaggi macabri, scene di magia e la strega “Martinazza”, immagine che trova diffusione in opere di autori, come Teniers il Giovane, che attingono a repertori ormai divenuti classici dell’iconografia stregonesca. La caccia alle streghe operata, con crudele intensità, soprattutto tra i secoli XVI e XVII è stata interpretata dalla storiografia come uno scontro culturale tra il mondo erudito rappresentato dalla Chiesa e il mondo popolare assimilato alle pratiche magico-tradizionali. Spinta da un rinnovato spirito di evangelizzazione, la chiesa mosse sistematicamente guerra, dal Cinquecento in avanti, a superstizioni, vecchie credenze, riti post-pagani che facevano parte, in ogni caso, del folclore popolari e delle pratiche magiche. Gli storici che hanno tentato di fare un bilancio numerico delle vittime accusate di stregoneria si sono sempre fermati difronte la mancanza di fonti, in altre parole, mancavano i verbali dei processi. Nei casi sporadici in cui si può disporre di tale documentazione si rimane, addirittura, sconvolti dalla loro durezza e drammaticità e, soprattutto, dalla capacità in essi insita di trasmettere un nitido spaccato del mondo delle streghe e della loro persecuzione. E’ stato comunque calcolato che il tasso delle condanne a morte, secondo vari luoghi ed epoche, si sia aggirato sul 25-47% dei processi, con punte massime eccezionali del 92% (Svizzera). Il “rogo” era la punizione generalmente inflitta alle streghe, in quanto, come seguaci di Satana, erano sicuramente apostate. Bruciarle era anche un rituale di purificazione e rassicurava i giudici paurosi che esse non sarebbero più tornate dal regno dei morti. Ogni processo era una battaglia tra le forze di Dio e le forze del diavolo ed era combattuta per l’anima della strega, che, seppur bruciata, avrebbe sì perso la sua vita terrena ma avrebbe guadagnato quella eterna.
giovedì 21 novembre 2013
LA CONFESSIONE GIUSTIFICA I MEZZI
LA TORTURA
Tutte le forme di tortura giudiziaria del Medioevo venivano inflitte solo a individui accusati di gravi crimini, quando su di loro pesavano sospetti precisi, al fine di ottenere una confessione che si erano rifiutati di fare durante l’interrogatorio ordinario. Il tormento della fune, o corda, o ancora della «colla», come questo supplizio veniva chiamato nel linguaggio piú corrente, era concepito per non far soffrire oltre un certo limite chi lo subiva. All’accusato venivano legate le mani dietro le spalle, poi lo si attaccava a una fune che passava per una carrucola fissata al soffitto della stanza e lo si tirava su, lasciandolo penzolare per aria per una durata che andava da un minuto a un’ora. La discesa poteva essere piú o meno brutale, a seconda della paura che si voleva mettere al delinquente. Lo si poteva anche lasciar ricadere d’un colpo fino a terra, dove si schiantava.
Se necessario, il «tratto» veniva ripetuto una, due o tre volte, prima che la vittima fosse riportata davanti al giudice. Allora e solo allora, dopo avergli lasciato il tempo di meditare sui pericoli corsi, il giudice riprendeva l’interrogatorio dell’imputato. Dal giudice e dagli esecutori dipendeva, dunque, in gran parte il grado di crudeltà del tormento inflitto all’imputato. Nel Medioevo non esistevano trattati su come praticare la tortura, e i codici di leggi – come per esempio gli Statuti comunali –, quando ne parlano, lo fanno con estrema sobrietà: si raccomanda tutt’al piú di limitare l’uso dei tormenti ai crimini piú gravi e di adeguare comunque la loro crudeltà alla condizione sociale dell’imputato e al valore degli indizi raccolti.
La «colla» presentava, appunto, il grosso vantaggio di consentire infinite gradazioni nelle sofferenze da infliggere al malcapitato e questa è senz’altro la ragione per la quale i giuristi del Medioevo la preferivano a ogni altro tipo di tortura. Può anche darsi, del resto, che la colla, o fune, fosse stata, all’inizio, l’unica forma di tortura ammessa dai tribunali dell’Italia comunale. Il che vuol dire che la tortura ha una sua storia che possiede, come tutte le storie, un inizio e una fine. La fine la conosciamo tutti, perché coincide con le grandi vittorie della civiltà moderna sui modi e costumi degli antichi regimi. Mentre pochi sanno, all’infuori degli storici del diritto, che la tortura nasce, o piuttosto rinasce, all’inizio del XIII secolo, in un contesto culturale ben preciso, quello appunto della «rinascita» del diritto romano, e che la sua diffusione segna una tappa decisiva nello sviluppo della civiltà giuridica.
Per comprenderlo, occorre accantonare per un momento il problema dei mezzi di tortura e focalizzare l’attenzione sulla funzione della tortura all’interno del sistema giudiziario. Fino al XII secolo, i tribunali seguivano un solo tipo di procedura, quella accusatoria: chi aveva subito un danno chiedeva giustizia al giudice, accusando l’autore del danno; in caso di omicidio, toccava alla famiglia della vittima – e a nessun altro – chiedere riparazione del crimine. L’accusatore, naturalmente, doveva produrre prove, orali o scritte, e il giudice, pur non essendo un conoscitore del diritto ma un «potente», cioè un conte o un signore, le esaminava con la dovuta attenzione. Ma al giudice non interessava la verità oggettiva dei fatti e nessuno gli chiedeva di indagare per sapere che cosa fosse realmente accaduto. Doveva solo ricercare o favorire la soluzione di un litigio che, se non fosse stato composto, avrebbe scatenato una guerra tra le parti e minacciato l’ordine pubblico.
Nei casi piú delicati, si poteva anche ricorrere all’ordalia, per esempio alla prova del ferro rovente o a quella dell’acqua bollente, oppure al duello, lasciando cosí alle forze sovrannaturali il compito di indicare l’esito del conflitto. Ma non alla tortura, che risponde, come vedremo fra un istante, a esigenze del tutto diverse. Il sistema giudiziario in vigore presso i popoli germanici non conosceva altri procedimenti e, quindi, negli Stati occidentali, la giustizia ha funzionato, salvo poche modifiche dovute a Carlo Magno, secondo le regole del processo accusatorio per tutto il periodo che va dall’arrivo dei barbari alla fine del XII secolo. Poi, nel giro di pochi decenni, le cose sono molto cambiate e si è assistito all’apparizione, accanto al procedimento accusatorio, di un nuovo tipo di processo: quello inquisitorio. Cos’era successo? Poco prima i giuristi italiani avevano scoperto le mille risorse del diritto romano, studiandolo direttamente sulle fonti originali, e non piú attraverso compilazioni tardive e corrotte. Ed è nei codici di Giustiniano, appunto, che i dottori di Bologna hanno scoperto l’esistenza di una procedura che consente allo Stato di perseguire gli autori di delitti pur in assenza di una parte querelante e che obbliga il giudice ad accertare la verità, se necessario anche con l’ausilio di mezzi coercitivi come il carcere e la tortura.
Il successo della nuova procedura fu immediato. Alla metà del XIII secolo era già di uso corrente presso i tribunali laici dell’Italia comunale. Ma la Chiesa, da parte sua, non fu meno solerte nell’intuire i vantaggi della procedura inquisitoria, che fu subito adottata dai tribunali creati alla stessa epoca – siamo nella prima metà del XIII secolo – dalla Santa Sede per reprimere l’eresia. Nascevano in tal modo i tribunali dell’Inquisizione, cosí chiamati proprio perché giudicavano secondo le regole del processo inquisitorio e agli inquisitori la Chiesa riconosceva, non meno che ai giudici laici, la facoltà di utilizzare la tortura. Inutile dire che il giudice, nell’impiegare questi metodi, deve agire con grande discernimento: la tortura serve ad accertare la verità, deve fornirgli la prova che manca, vale a dire la confessione di colui che tutti gli indizi indicano come il principale sospetto. Va quindi applicata in circostanze ben precise, che la legge, per esempio nei Comuni italiani, dove il suo uso si diffonde abbastanza presto, delimita con estrema severità: ci vogliono un presunto colpevole di cattiva fama, un crimine particolarmente grave, indizi seri e numerosi.
D’altra parte la tortura non deve far soffrire oltre il necessario, né mettere in pericolo la vita dell’imputato, o anche solo minacciarne l’integrità fisica. Tutte queste cautele per limitare l’uso e la crudeltà della tortura impediscono allo storico di oggi di formulare su di essa giudizi cosí severi come quelli emessi, in tempi ben diversi dai nostri, da personaggi come Voltaire e Cesare Beccaria. Ma c’è di piú: gli storici del diritto non dubitano un istante che la tortura, utilizzata e disciplinata come lo era nel quadro del processo inquisitorio, abbia segnato un grande progresso nel funzionamento della giustizia, perché fondava la sentenza sulla verità dei fatti, e non piú sulla capacità delle parti di far prevalere i propri diritti. E dal loro punto di vista, che è quello della dottrina giuridica, non hanno torto. Solo che, nella realtà di ogni giorno, molti giudici non esitavano a fare della tortura un uso distorto, applicandola fuori misura, con strumenti molto piú crudeli della semplice fune e al servizio di interessi che avevano ben poco da spartire con la manifestazione della verità.
Abbiamo per esempio la cronaca di Dino Compagni, un fiorentino dell’inizio del Trecento molto critico nei confronti dei giudici, ai quali rimprovera di essere corrotti e servi della nobiltà. Vi leggiamo che nella sua città, dove infuriava la lotta tra le due fazioni dei Neri e dei Bianchi, la colla veniva sistematicamente utilizzata per terrorizzare i prigionieri politici, anche quando non avevano piú niente da confessare. Uno di loro non sopravvisse al tormento. Per un altro, il giudice volle aggiungere i tormenti psicologici oltre a quelli fisici: ordinò di «mettere alla colla» l’imputato, che era un famoso uomo di legge di Firenze e poi, mentre lo si teneva sollevato, fece aprire finestre e porte del palazzo e invitò la folla ad assistere allo spettacolo e a deridere il suppliziato.
Usavano per esempio lo stivaletto, o «stivale spagnolo», una specie di gambale di ferro dentro il quale, con un meccanismo a vite, si stringeva la gamba del malcapitato fino a spezzargli le ossa. Non serviva tanta crudeltà con donne e ragazzi: bastava mettere loro tra le dita delle mani congiunte zufoli o cannette e stringere con una cordicella. Il fuoco offriva naturalmente mille possibilità di tormento: una della piú semplici consisteva nell’ungere i piedi del malcapitato di turno con olio o lardo, accendendovi sotto un buon fuoco; il supplizio poteva durare «il tempo di un credo e di due miserere», ci dicono le fonti, e ripetersi a discrezione del giudice. E come non citare, per finire, il tormento della «lingua caprina», noto tanto in Occidente come in Oriente?
La tecnica non cambiava da una civiltà – si fa per dire – all’altra: si cospargevano di sale o di acqua salata i piedi del reo, assicurato a una seggiola, e si invitava una capra, possibilmente affamata, a leccarglieli; in teoria, la capra con la sua lingua ruvida poteva consumare pelle e muscoli del suppliziato e arrivare fino all’osso. In teoria: perché nella realtà sembra che questo tormento sia esistito solo nell’immaginazione fertile e perversa di certi giuristi. Che sollievo!
IL MANUALE DEL PERFETTO INQUISITORE
SUL BANCO DEGLI ACCUSATI
martedì 11 giugno 2013
ATTI DEL CONCILIO DI VIENNE - GLI INQUISITORI
sabato 13 ottobre 2012
IL PENTAGRAMMA