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martedì 21 giugno 2016

LA LEGGENDA DELLE STREGHE DI BENEVENTO


La storia delle famose Streghe di Benevento si è diffusa dal XIII secolo proprio dalla celebre città campana che, secondo le varie leggende, è il luogo prediletto dalle streghe italiane. La leggenda delle streghe di Benevento risale addirittura all'epoca romana, quando si diffuse in città il culto della dea egiziana della magia Iside particolarmente cara a Domiziano il quale le fece edificare un tempio in suo onore. Il culto di Iside aveva messo le basi per una forte presenza del paganesimo che fu la religione di stato per secoli tanto che le caratteristiche di alcune streghe sono riscontrabili anche nelle divinità pagane. 

Pietro Piperno, nel suo libro "Della superstiziosa noce di Benevento" risalente al 1639 fece risalire la nascita della leggenda addirittura al VII secolo quando Benevento, capitale di un ducato del regno longobardo, era stata invasa da pagani (anche se convertiti per comodità al cattolicesimo) che adoravano una vipera d'oro simbolo che entrava in correlazione col culto di Iside che, ricordiamo, era in grado di calmare e di dominare i serpenti.

I riti attorno al noce

I longobardi iniziarono una serie di rituali singolari che avvenivano nei pressi del fiume Sabato, fiume a loro sacro: si appendeva la pelle di un caprone ad un albero, si correva vorticosamente con il cavallo attorno allo stesso, si lanciavano lance per strappare porzioni di pelle che poi venivano mangiate. La popolazione cristiana di Benevento collegò questi rituali alle già diffusissime credenze riguardanti le streghe tanto che le urla venivano intesi come emanazione di riti orgiastici e il caprone era l'impersonificazione del diavolo. 

Secondo una leggenda, ritenuta incompatibile con i dati storici, il sacerdote Barbato accusò i longobardi di idolatria e Romualdo, duca di Benevento posta sotto assedio da Costante II, promise di cancellare i culti pagani se la città fosse riuscita a resistere a quel pesante attacco. Costante si ritirò e Barbato divenne vescovo di Benevento il quale decise di abbattere immediatamente l'albero per far costruire al suo posto la chiesa di Santa Maria in Voto. 

I primi anni del Cristianesimo videro una durissima lotta contro i culti pagani che si stavano diffondendo a macchia d'olio dalle periferie alla città: basti pensare che le streghe furono viste come antitesi alla Madonna, dedite a riti di natura orgiasti e amiche del diavolo. 

Fu dopo l'anno 1000 che la leggende sulle streghe iniziò a prendere piede in Europa; durante uno dei tanti processi Matteuccia da Todi, processata nel 1248, affermò che le cerimonie si svolgevano sotto un albero di noce, lo stesso albero che Barbato fece abbattere e che il diavolo mise nuovamente al suo posto. Nel XVI la macabra scoperta di alcune ossa, probabilmente umana, ancora fresche alimentarono ancora di più le credenze popolari. 

Secondo l'iconografia classica le streghe usavano ungersi petto e ascelle con un unguento particolare prima di prendere il volo a bordo di una scopa di saggina oppure in groppa a un "castrato negro". I sabba, o giochi di Diana, erano momenti in cui ci si univa carnalmente con spiriti e demoni che avevano forma di gatto o di caproni; dopo queste "feste" le streghe erano pronte a seminare il terrore, terrore che era causa di sofferenza, di aborti o di nascite di bambini con gravi deformità. 

Le streghe poi assunsero anche una forma incorporea più simile a spiriti tanto che usavano entrare in casa da sotto la porta, proprio per questo si soleva mettere una scopa o del sale sull'uscio della porta. La scopa, simbolo fallico, contrastava la sterilità causata dalla presenza della strega, il sale era ritenuto, a torto in quanto etimologicamente non corretto, portatore di salute. 

Le persecuzioni delle Streghe 

Le persecuzioni contro le streghe furono portate avanti per la prima volta da Bernardino da Siena che gettò i suoi anatemi contro le streghe di Benevento proprio negli anni in cui fu pubblicato il Malleus Maleficarum, edito nel 1486, una vera e propria guida su come riconoscere e interrogare una strega e su quale tortura era più idonea per estorcere una confessione. Furono migliaia le confessioni estorte in ogni modo tra il XV e il XVII secolo fino a quando durante l'Illuminismo, ritenendo non valida la confessione estorta con la tortura, Ludovico Muratori arrivò ad affermare che le streghe erano solamente donne malate e l'unguento usato altro non era che un composto creato con sostanze allucinogene. 

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giovedì 16 aprile 2015

LA MANDRAGORA


La Mandragora o Mandragola, appartiene alla famiglia delle Solanaceae e hanno le radici che ricordano la figura di un essere umana: questo, unitamente alle proprietà anestetiche, ne hanno fatto della pianta particolarmente importante per riti magici  affibbiandole poteri sovrannaturali, di cura contro l'infertilità ed innati doti afrodisiache. Il nome deriva dal persiano e fu Ippocrate il primo a donarle il nome Mandragora. Fu la sua raffigurazione in importantissimi testi alchemici che conferirono alla Mandragora la classica forma antropomorfa: la leggenda, ricordata nell'opera omonima di Nicolò Machiavelli, racconta come la pianta fosse il mezzo più efficace per uccidere un uomo a causa del suo pianto. L'unico modo sicuro per coglierla era legare la radice al guinzaglio di un cane in modo che lo stesso la sradicasse senza danneggiarla consentendo al padrone di coglierla in totale sicurezza. Il "principio attivo" della Mandragora è la mandragorina, un alcaloide estratto dalla radice e dai semi della piante stessa che ha importanti funzioni antispasmodiche.

martedì 8 luglio 2014

STREGHE E STREGONERIA - ARTICOLO DI SAMANTHA LOMBARDI

Fra il Duecento e il Quattrocento, e poi nei secoli che seguirono, le testimonianze storiche e letterarie della cultura greca e latina accrescono la credenza nelle streghe. Giovan Francesco Pico della Mirandola, con la sua più celebre opera Strix Sive de Ludificatione Daemonium (1523) testimoniò, come, a quella data, già si parlava di fatti collegati a oscuri rituali di natura demoniaca della stregoneria che portarono a una durissima azione inquisitoria di repressione di cui fu oggetto Mirandola in quel periodo storico. Canidie, Sagane, Erito, Circi erano i nomi delle streghe, ma anche delle maghe, descritte da Ovidio, Orazio e Lucano, che popolavano un universo in cui si rinnegava Cristo per seguire la fede Satanica. Fra i tanti testi dove troviamo ampiamente citati i nomi delle streghe che vissero nell’immaginativa di poeti e letterati troviamo il Malleus Maleficarum (pubblicato nel 1487 dai frati domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor), il De Lamiis et Pythonicis Mulieribus (testo di Ulrich Molitor del 1489) e il Disquisitiones Magicarum (del gesuita Antonio Martin del Rio, pubblicato nel 1599/1600).
Ma quali erano le sembianze della strega nell’antichità classica? La sua figura, senza ombra di dubbio, deve aver esercitato il suo fascino nell’immaginario collettivo. Le più allettanti e continue testimonianze sono quelle offerte dai poeti greci e latini ed è proprio a questi ultimi che i tribunali dell’Inquisizione medievale faranno frequente riferimento, anche se le antiche Leggi Romane non rimangono insensibili alla credenza dei rituali magici. Infatti, le Leggi delle Dodici Tavole (Duodecim Tabularum Leges), compilate nel 451/450 a. C., rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del Diritto Romano, dove una delle regole della Tavola VIII (illeciti) condannava tutti coloro che avevano cantato un maleficio (qui malum carmen incantassit). Cicerone e Plinio il Vecchio sottolineano come nella stessa Tavola veniva indicata inequivocabilmente, fra i reati capitali, l’appropriazione, per mezzo della magia, del raccolto o del grano di un altro. In età imperiale anche lo storico Ammiano Marcellino, fornisce testimonianze riguardanti alcuni rituali puniti da leggi o editti. Dimostrato, tra l’altro, è l’uso della “defixio”, la stessa definisce la pratica magica collegata al rito della penetrazione con un chiodo della piccola lastra di piombo arrotolata su se stessa, su cui era scritto il nome del destinatario della maledizione o su cui era inciso semplicemente il testo dell’anatema. La lastrina inchiodata era posta in una buca che si credeva potesse comunicare con gli Inferi. Streghe e maghi utilizzavano invece piccole figure realizzate in cera, metallo o altro materiale dalle grossolane sembianze delle loro vittime. Contemporanea era la produzione di amuleti che dovevano proteggere, dalle forze del male, coloro che li indossavano; su questi oggetti venivano incise anche formule magiche e immagini con valore scaramantico. Se scarse sono le testimonianze iconografiche, vasta è la documentazione scritta delle pratiche magiche. Precise al riguardo sono le fonti letterarie di vari autori, tra cui: Virgilio, Orazio, Apuleio e Lucano che in alcune delle loro opere raccolgono ciò che andrà a costituire un repertorio in grado di alimentare l’immaginario di altri letterati, ma soprattutto degli stessi inquisitori. Non si può negare però che l’iconografia della strega medievale e rinascimentale insieme ad immagini letterarie e figurative, affonda le proprie radici nell’antichità classica. La figura della strega vestita di nero, a piedi nudi, ululante, con i capelli arruffati, che ci restituisce l’immagine medievale, in realtà, non è altro che la descrizione di Canidia proposta da Orazio nelle Satire. Non passa inosservato che le streghe, in generale, presentano spesso tratti in comune con le Erinni (Furie nella mitologia romana): quali, le tre sorelle, Tisifone, Aletto e Megera più vecchie di tutti gli dei dell’Olimpo che costituiscono le figure a cui si fa più riferimento in epoche successive. Sono rappresentate con il corpo nerissimo e con i capelli intrecciati di serpenti, hanno ali di pipistrello e gli occhi iniettati di sangue. Un aspetto simile presenta anche Ecate. Sembra evidente che si tratta di divinità tutte collegate al regno dei morti e alla notte, anche se, in realtà, Ecate, nel culto più antico, era considerata signora delle ombre e dei fantasmi notturni e anche dea della magia e degli incantesimi. Teocrito, Apollonio Rodio e Ovidio la designano come “dea delle streghe”; gli stessi dei la onorano e Zeus le concede il potere di dare o negare ai mortali ciò che anelano.
Verbale di un processo alle streghe
A lei si fa risalire l’invenzione della stregoneria e la leggenda l’ha introdotta nella famiglia dei maghi per eccellenza, Eete e Medea di Colchide. Ecate appare alle streghe, con una torcia in mano, spesso in forma ferina con le sembianze di cagna, serpente, giumenta o leone a seconda delle tradizioni. Nel rilievo della Gigantomachia dell’Altare di Pergamo essa è rappresentata con un solo corpo ma con tre teste vale a dire con tre corpi uniti per la schiena. La formazione triadica è tipica del mondo ideale dell’antichità e spesso si applica alle divinità femminili potenti. Le Empuse, spettri della cerchia della dea Ecate, appartengono al mondo infernale e riempiono la notte di terrore apparendo soprattutto alle donne e ai bambini. Hanno la particolarità di assumere ogni sorta di aspetto, anche quella di provocanti fanciulle, e proprio sotto quest’ultima forma possiedono gli uomini mentre sono assopiti succhiandogli la linfa vitale. Secondo quando descritto, anche nelle Empuse, si identificano quei “particolari” comportamenti che vengono attribuiti alle streghe. Tra Medioevo e Rinascimento, anche le Arpie, rappresentate come donne provviste d’ali oppure come uccelli dalla testa femminile, con artigli aguzzi, concorrono ad alimentare la credenza nelle streghe. Per lo più sono in due: Aello e Ocipite, ma se ne conosce anche una terza, Celeno. La credenza che la strega possa trasformarsi in uccello torna nei secoli successivi. Nel già citato Strix, l’inquisitore Fronimo, ricorda lo “scongiuro del biancospino”, riportato nei Fasti Ovidio dove le Arpie si potevano tenere lontane dalle case proprio con un ramo di biancospino. E’ inevitabile che, nel tempo, anche le Arpie si verranno a confondere con le Striges, cui fa riferimento una vasta letteratura, che verranno considerate le antenate delle streghe medievali. Sempre secondo i testi di Ovidio le Striges vengono descritte come demoni femminili alati, dotati di artigli simili a quelli uccelli da preda, e che si nutrivano del sangue e delle viscere dei bambini. Anche Orazio e Petronio narrano di questi esseri, Plinio il Vecchio, invece, rammenta antiche formule di maledizione nelle quali compariva il nome “strix”. Stazio, nella Tebaide, riprende la leggenda di questi mostri che volando di notte entrano nelle case per succhiare il sangue dei neonati lasciati soli nella culla dalle loro nutrici. Le Striges tuttavia hanno spesso caratteristiche di altri esseri chiamati Lamiae; nome che comparirà spesso in luogo di Striges nei testi inquisitoriali. Nella tradizione classica, Lamia fu amata da Zeus dal quale ebbe dei figli che furono uccisi (tranne Scilla il mostro situato sulla stretto di Messina di cui narra l’Odissea) da Era, moglie di Zeus. Per la disperazione, divenne un mostro geloso delle madri più felici di lei e per vendicarsi, Lamia, iniziò a far strage di figli altrui divorandoli; il suo volto stravolto dalla crudeltà aveva un’espressione terribile.
Targa commemorativa dell'ultima esecuzione per stregoenria
Le sacerdotesse della Gorgone durante i loro riti, che contemplavano anche l’infanticidio, usavano maschere mostruose ispirate al volto disumano di Lamia. I cadaveri dei piccoli dilaniati e divorati venivano poi impiegati per la pratica dei rituali magici. Di questa atroce usanza, sia nei manuali che nei processi dell’Inquisizione, saranno poi accusate le streghe. Le descrizioni latine nel campo della magia sono ricche di particolari e riferimenti riguardanti le streghe e i loro rituali. Virgilio nell’ottava Egloca delle Bucoliche ne offre un saggio senza però fornire sull’aspetto della maga accomunata a Circe. Più ricco di particolari è invece Orazio che nelle Epodi descrive una scena di stregoneria svoltasi nella notte in un cimitero (luogo d’eccellenza per i riti più sinistri) sull’Esquilino, il racconto è fatto da Priapo che narra le atrocità cui è costretto ad assistere: le streghe Canidia e Sagana, si presentano al dio scarmigliate, pallide, a piedi nudi e vestite di nero; mentre ululanti invocano Ecate e Tisifone appaiono i serpenti e le cagne infernali, a questo punto viene gettata nel fuoco la piccola figura di cera che rappresenta la persona fatta oggetto del maleficio. Anche Lucano offre una terrificante descrizione della maga tessala Erichto, prototipo della magia empia e sanguinaria propria delle donne tessale. Dal volto pallido e scavato dalla magrezza, essa indossa una veste multicolore ed è provvista di un irta chioma circondata di serti di vipera. La maga Erichto ha la particolarità di sottrarre le anime dagli inferi e di scendervi lei stessa. Il raccapricciante cerimoniale restituisce nei particolari i rituali di evocazione dei morti del I secolo d. C. Se le descrizioni letterarie offrono particolari allettanti sull’aspetto delle streghe, predominanti sono le immagini collegate alle pratiche di magia: Ecate ad esempio era raffigurata in numerosi amuleti; così le Erinni, le lamiae e le striges che appaiono in alcune rappresentazioni mitologiche; anche qualche scena salvatasi dalla calamità di Pompei è di un certo interesse per la storia della magia, nel Museo Archeologico Napoli, in un dipinto parietale è rappresentato un viandante con una fattucchiera (I secolo d. C.).

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Nell’universo figurativo medievale inizia ad affiorare quel bestiario di cui fanno parte varie configurazioni (lamiae, arpie, sirene, satiri, centauri, chimere ecc.), che ritroviamo nelle balaustre, nei capitelli ma anche nelle facciate delle chiese, figure, dai molteplici significati, che hanno connivenza con un mondo demoniaco che è, solo in parte, collegato alla sfera della stregoneria e della magia e che diventeranno parte fondamentale della grande enciclopedia che confluisce nella cultura cristiana. Nelle chiese iniziano a comparire demoni ed esseri spaventosi destinati però ad essere sconfitti da Dio ed esorcizzati dagli uomini. Se nel XII secolo l’uso di immagini mostruose è frequente quelle che riproducevano le streghe sono sporadiche, le stesse, saranno chiaramente raffigurate solo quando verranno riconosciute ufficialmente. Solo nel Cinquecento, quando la strega si costituì agli occhi dei più, come una pericolosa avversaria della fede, la sua immagine si sviluppò, parallelamente all’avanzare della Chiesa e del potere politico, contagiandosi con quelle di alcune divinità classiche. Ma se in questa iconografia sopravvivono alcuni aspetti classici, vengono però ad inserirsi gli attributi fondamentali della strega quali: il bastone, la scopa, il capro, il cane o il gatto. La stessa viene raffigurata come una donna attempata accanto ad oscuri esseri demoniaci e mai esplicitamente vicino a Satana. Alla seconda metà del Duecento appartengono le prime due rappresentazioni conosciute di ”voli di streghe”, ambedue si trovano nel nord della Germania: una fa parte della decorazione esterna della Chiesa di Gelnhausen ( cittadina situata nel land dell’Assia), l’altra è un affresco (datato al 1280) del coro del Duomo di Schleswig (la cittadina si trova nella parte nord/orientale dello Schleswig-Holstein). Nella scultura di Gelnhausen è raffigurata una donna attempata, nuda e coperta da un cappuccio mentre cavalca una scopa la cui parte finale è arrotondata, la “strega” potrebbe essere sorretta o addirittura spinta da un essere mostruoso. Le due streghe di Schleswig scoperte alla fine dell’Ottocento e restaurate nella prima metà del Novecento presentano particolari significativi che permettono di comprendere al meglio la storia della stregoneria: una è raffigurata su un gatto, coperta da una veste e da un lungo manto, nell’atto di suonare un corno. L’altra, invece, è nuda e coperta solo da un manto svolazzante, con i capelli mossi dal vento, anch’essa è a cavallo di una scopa. L’autenticità di queste due ultime immagini è stata messa in dubbio, dal momento che i restauri furono eseguiti da personaggi implicati nella contraffazione di opere d’arte. Gli antecedenti classici del volo muliebre su animali si possono ricondurre ad Afrodite (un esempio significativo di questa immagine è dato in un kylix del Pittore di Pentesilea (conservato a Londra nel British Museum), alla dea Turan e alla stessa Venere Panareia. Una tipologia questa attestata anche nel Medioevo: a questo proposito si può menzionare una fanciulla nuda, coronata da una ghirlanda di rose che cavalca un capro che tiene per le corna e per la coda, scultura che orna un modiglione nel transetto sud della cattedrale di Saint-Etienne a Auxerre. Significativa è la traslitterazione figurativa dell’animale cavalcato dalle streghe in una scopa. Gli antecedenti classici del volo muliebre su animali sono da ricollegarsi ad Afrodite. La dea è spesso rappresentata seduta su un cigno o un’oca che si libra nell’aria. Tipologia attestata, anche nel Medioevo, all’interno della chiesa di Saint-Etienne a Auxerre in Francia, dove in un modiglione del transetto sud, si trova la scultura di una fanciulla nuda che cavalca all’amazzone un capro che tiene per le corna e per la coda (XIV secolo). Significativa è la traslitterazione figurativa dell’animale cavalcato dalle streghe in una scopa. Al “baculum”, bastone (attributo del pellegrino), si devono accomunare la virga e la scopa. Nel codice illustrato Le Champion des Dames di Martin Le Franc, segretario dell’antipapa Felice V, ricorda che le “masques” (termine francese indicante le streghe) vanno a piedi o credono di poter volare su un bastone. In questo manoscritto sono rappresentati due voli di diversa tipologia: uno a cavallo di una scopa e l’altro su un semplice bastone. La tradizione si estende anche su un altro oggetto: il fuso, che diventa, a volte, un mezzo di trasporto e assume un chiaro significato fallico. In un’illustrazione della metà del XV secolo, attribuita a Wilhelm Urelant, compare una strega a cavallo di un fuso. Altre rappresentazioni di streghe palesemente individuabili come tali, anteriori al XV secolo, sono incluse in una serie di codici miniati tutti risalenti al Trecento e posteriori alle bolle emesse da Alessandro IV (1258-1260) e da Giovanni XXII (1326 o 1327) nelle quali veniva si ribadiva che la stregoneria e l’eresia erano fra loro collegate. Tra le immagini contenute nei codici miniati, singolare è la miniatura di Piérart dou Tielt che orna il manoscritto de La Quéste du Saint Graal attribuito a Gautiers Map (1351): si tratta della caricatura di un torneo tra donne nude a cavallo di un caprone che si affrontano con un fuso.

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Nelle raffigurazioni di streghe emergono, nel loro genere, tre tipi distinti: le streghe singole, l’iniziazione diabolica e la partenza per il sabba o meglio per il volo. Le stesse assumono in certi casi un significato didattico e scientifico idoneo ad illustrare le caratteristiche delle streghe, come avviene per quelle che ornano le edizioni del De Lamiis et Pythonicis Mulieribus di U. Molitor. A questo punto all’inizio del Cinquecento la “realtà” delle streghe, dopo grandi controversie, è pienamente accettata negli ambienti più diversi e, al contrario di come accadeva nel Medioevo, l’iconografia delle streghe e della stregoneria non viene più rappresentata in luoghi pubblici ma, è invece diffusa da carte sciolte o da immagini che illustrano dialoghi o addirittura manuali di stregoneria. Le streghe in questo periodo escono dall’anonimato in cui erano state relegate, non vivono più nei boschi che circondano i borghi, ma nelle città, frequentano le piazze e addirittura le corti, ne è esempio la moglie di Sigismondo signore del Tirolo. La figura della strega diventa così familiare che attribuiti e caratteristiche sono immediatamente riconosciuti dai diversi strati della popolazione. In area nordica, tra Quattrocento e Cinquecento, tra i maggiori vignettisti di streghe sicuramente spiccano: il tedesco Hans Baldung Grien (1484-1545): egli è sicuramente l’artista più straordinario, realizza delle immagini in xilografia considerate tra le più inquietanti del primo Cinquecento. La sua prima opera collegata alla stregoneria l’Hexensabbat (1510), raffigura il “volo delle streghe”; gli attributi quali: i bacula, il bucranio, le teste staccate, il capro e un gatto, sono ben riconoscibili; entrano, nel contesto narrativo, anche nuovi simboli come il fuso e un cappello. Due streghe sostengono rispettivamente un vaso e un piatto in cui è visibile un uccello senza piume. In alto, la strega che sostiene una forca cavalca al contrario un capro sono in procinto di entrare in un vortice di fumo lascia intravedere una figura demoniaca. Al centro si nota un vaso con una scritta in ebraico (forse è da accomunare al vaso di Pandora?). Successive raffigurazioni del Grien: l’Unzione delle streghe al Louvre (1514), Tre streghe (Partenza per il sabba,1514), La strega e Satana come dragone e L’olio delle streghe, focalizzano i temi più tipici relativi alle loro immagini: l’erotismo e il dominio degli elementi. Le streghe del Louvre presentano gli usuali attributi e hanno i capelli mossi dal vento; sia in quest’opera che nella Partenza per il sabba emerge la nudità dei corpi animati da gesti con ovvio significato erotico; ma soprattutto in quest’ultima è evidente l’utilizzazione dell’unguento magico indispensabile per il volo e i grandi vortici di fumo e di vento che alludono appunto al volo stesso.
File:Threewitches.jpgAnche a Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553): si devono delle interessanti incisioni rappresentanti scene di stregoneria. L’opera di Halbrecht Dürer (1471-1528) intitolata Le streghe (1494), ha un ambiguo inizio: nell’incisione l’unico accenno a una realtà demoniaca è offerto da un diavolo che da una porta aperta osserva quattro donne seminude identificate poi come streghe. Dai primi anni del Cinquecento prende consistenza, in maniera quasi ossessiva, l’iconografia legata alla stregoneria. Dürer, ne La strega: partenza per il sabba (1504-1505) rappresenta una vecchia, nuda, che abbandona il luogo d’incontro a cavallo di un caprone, con i capelli agitati dal vento, mentre impugna un fuso, con una serie di putti ai suoi piedi. In quest’opera, che richiama immagini iconografiche e stilistiche della tradizione classica, l’autore trasforma l’immagine di Venere e la collega al nuovo mito delle streghe. Anche Albrecht Altdorfer (1480-1538), disegna alcune streghe in un paesaggio appena distinguibile. Le streghe son ben contraddistinte dagli attributi a loro peculiari: il capro, il bucranio, il baculum e il fuso. Nel 1508 Johann Geiler von Kaysersberg a Friburgo in Brisgovia, città della Germania Sud-occidentale,  teneva prediche quaresimali pubblicate con il titolo Die Emeis (Le formiche) illustrate proprio da Grien. L’opera di Geiler metteva in primo piano gli aspetti basilari della stregoneria secondo quanto stabilito dagli inquisitori: il viaggio, il ballo, la trasformazione in animali ecc… Circa dieci anni dopo il papa umanista Leone X emanò una bolla dal titolo De divino amore con cui appoggiava le riforme negli ordini religiosi condannando la magia e la stregoneria. La figura della strega era dunque diventata tanto comune al punto da poter rientrare nei cliché della stampa e della grafica. Nello stesso modo, però, si condannavano e si bruciavano presunte streghe. Ciò accadde nel 1514 a Maria Laach in Germania, furono giustiziate sei streghe accusate di aver ucciso l’abate Simon von der Leven. Mentre in Germania si creavano le nuove immagini ispirate alla stregoneria, in Italia più o meno nello stesso periodo venivano rappresentate scene raccapriccianti dal significato ambiguo in quanto non espressamente collegabili alla stregoneria. Le prime rare e inequivocabili immagini collegate alla stregoneria sono opera di Andrea Briosco detto il Riccio (1470-1532), che guarda a modelli ellenistici, come, ad esempio, della raffigurazione del corpo delle vecchie. Il tentativo di una conciliazione tra forme classiche e nuovi contenuti simbolici li troviamo nell’incisione de Lo Stregozzo (1516) dalla paternità controversa, l’opera è attribuita sia all’incisore Agostino de Musis (1490-1536), in arte Agostino Veneziano che a Marcantonio Raimondi (1470-1532). Nell’incisione del Veneziano la “magia della tempesta” si riconosce dal movimento degli arbusti piegati dal vento e dal disordinato volo delle anatre che è collegato ai culti demoniaci. Gli scheletri degli animali che compongono la cavalcatura fantastica di Ecate, dai capelli mossi dal vento, sono rappresentati senza dubbi interpretativi tesi a rappresentare un mondo demoniaco connesso al paganesimo. La figura centrale è una vecchia megera che tiene in mano un canestro. Da questo momento in poi, le immagini di streghe aumenteranno a dismisura, connesse soprattutto al tema del sabba.

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Tra i temi figurativi relativi alla stregoneria, il sabba è uno dei più noti e diffusi in Europa, soprattutto a partire dal Seicento: incisori e pittori, da Salvator Rosa a Callot fino a Goya, hanno spesso trattato il soggetto della riunione di streghe definendo e illustrando piani più complessi della realtà demoniaca. Tra le prime raffigurazioni del sabba sono due opere di Jacques II de Gheyn (1565-1629): un disegno e un’incisione con La danza o forse La Cucina delle streghe. Nell’incisione, al centro, è rappresentato un calderone intorno al quale sono sedute le streghe, ai lati sono raffigurate dame vestite con eleganza mentre portano oggetti per il rituale; a sinistra una donna con un fuso seduta su una panca assiste a una scena di magia; dal camino fuoriesce uno stregone con un gesto volgare, mentre nel cielo si libra un capro cavalcato da una strega. All’inizio del Cinquecento numerosi teorici, giuristi e medici avevano trattato della realtà del volo delle streghe. Antonio de Ferraris nel De situ Yapygiae, ricorda come la favola della stregoneria avesse invaso il mondo intero, propagandosi tra gli strati più poveri della popolazione. Un gruppo di medici aveva conferito maggior vigore a queste argomentazioni collegandole all’influenza della melanconia e all’uso di droghe. Anche Johannes Wier, riconduceva il volo delle streghe a un effetto dell’immaginazione e all’ottenebramento dei sensi attraverso l’uso di droghe. A queste posizioni si opponevano il gesuita belga Martin Del Rio nei suoi sei Disquisitionum magicarum libri sex (1599) e il francese Jean Bodin nella Dénonomanie des sorciers (1580), dove accusavano il Wier di incompetenza e ignoranza. Il testo di Martin Del Rio in cui affronta la stregoneria, gode di grande fortuna fin quasi a metà del Settecento. Il secondo dei sei libri che lo compongono è dedicato al dibattito sulla magia demoniaca: dopo aver elencato maghi famosi come: Zoroastro, Apuleio, Dositeo, Pitagora ecc., ricorda anche alcune maghe popolari dell’antichità, tra queste Circe e Medea che, l’autore, accosta ad altre streghe quali: Canidia, Folia ed Ericto. La Quaestio IX è dedicata ai poteri di Circe e delle altre maghe, esaminati attraverso la testimonianza dei classici. In verità, tutto il secondo libro tende a contestare la possibilità, per i maghi, di modificare le leggi dell’universo; in particolare, viene messa in discussione la metamorfosi intesa come il potere di tramutare un essere in un altro di diversa specie, in altre parole, se questo accada “realmente” o non sia invece effetto della potenza immaginativa. La metamorfosi è uno dei punti più discussi della trattatistica sulla stregoneria: tra gli esempi più classici, non bisogna dimenticare la magia operata da Circe sui compagni di Ulisse, da lei trasformati in animali. Il nome di Medea, sorella di Circe, compare invece a proposito dei processi di ringiovanimento, dei malefici e delle stragi. I nomi dei due personaggi venivano anche collegati alla conoscenza e alla manipolazione delle erbe, tanto che, Circe divenne sinonimo di avvelenatrice. Tuttavia, l’interesse per la sua figura, nel Medioevo, non ha una particolare fortuna iconografica. La maga, depositaria della manipolazione delle erbe e delle metamorfosi, nel Rinascimento, trova invece una nuova vitalità che le consente di passare dal testo all’immagine. Nel 1612 Pierre de Lancre scrisse il suo Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons ; le edizioni del libro contengono un’incisione del polacco Jan Ziarnko con l’immagine del sabba. L’illustrazione risulta il riepilogo più completo e significativo delle azioni che avvengono durante un cerimoniale satanico. La tavola riunisce le più aberranti scene, (appresso descritte) che caratterizzano il cerimoniale della corte di Satana. I gruppi raffigurati sono intenti a compiere varie azioni, tra cui: Satana in forma di capro seduto su un trono tra due dame, quella incoronata è definita la regina del sabba; di fronte a Satana, una strega e un demonio inginocchiato presentano un bambino; intorno a un albero danzano demoni e fanciulli nudi; streghe e demoni alati o in forma di capri banchettano intorno a un tavolo; un gruppo di streghe fa bollire nel calderone delle serpi, streghe a cavallo della scopa volano tra piccoli animali alati, uomini e donne danzano insieme ad alcuni demoni. Anche in Italia cominciarono a comparire testi contro la stregoneria. Il Compendium maleficarum di Francesco Maria Guazzo, composto da tre libri, ognuno suddiviso in due parti, fu pubblicato nel 1608 e poi nel 1627. Argomenta il potere degli unguenti usati dalle streghe, per poi giungere alla conclusione che solo un intervento demoniaco possa concedere al preparato poteri tali da trasformare le donne in gatte o altri animali. Il testo risulta particolarmente interessante in quanto accompagnato da una serie di xilografie che descrivono senza sottintesi il contenuto dei paragrafi. L’opera del Guazzo non contiene però particolari novità sulla questione demonologica, in quanto risulta un riassunto del Malleus maleficarum e delle Disquisitiones maleficarum di Martin del Rio. L’opera è ricca di particolari descrittivi che permettono immediati riconoscimenti come ad esempio il segno che Satana impone sulla fronte dei suoi accoliti con l’unghia, chiaro simbolo della cancellazione del battesimo e della cresima. Una sequenza dello stesso tipo, ma solo accennata, si trova nel testo del Molitor: De pythonicis mulieribus (1489) in cui, nelle poco descrittive illustrazioni, si coglie un tentativo di rappresentare realtà e perversità della stregoneria che anticipano l’opera del Guazzo e del De Lancre.
File:Scheiterhaufen 2.jpgTra le più sorprendenti raffigurazioni, in ambito stregonesco, si deve collocare Streghe e incantesimi (1640) di Salvator Rosa. L’immagine sottintende: la preparazione del velenoso unguento, l’esumazione dei cadaveri, il taglio delle unghie degli impiccati, la defictio, la manipolazione di rospi, il volo, il rapimento di neonati; sullo sfondo, lo scheletro di un animale fantastico. Nell’opera del Rosa emerge la particolare conoscenza della stregoneria e della magia, le numerose scene dipinte dichiarano un gusto particolare che, al di là del semplice interesse per la stregoneria, va verso l’insolito e lo stravagante. Così queste macabre raffigurazioni stregonesche sono apprezzate sia da un pubblico borghese che da intellettuali. Anche il pittore e scrittore, Lorenzo Lippi, noto per Il Malmantile racquistato (1676) descrive nel poema paesaggi macabri, scene di magia e la strega “Martinazza”, immagine che trova diffusione in opere di autori, come Teniers il Giovane, che attingono a repertori ormai divenuti classici dell’iconografia stregonesca.  La caccia alle streghe operata, con crudele intensità, soprattutto tra i secoli XVI e XVII è stata interpretata dalla storiografia come uno scontro culturale tra il mondo erudito rappresentato dalla Chiesa e il mondo popolare assimilato alle pratiche magico-tradizionali. Spinta da un rinnovato spirito di evangelizzazione, la chiesa mosse sistematicamente guerra, dal Cinquecento in avanti, a superstizioni, vecchie credenze, riti post-pagani che facevano parte, in ogni caso, del folclore popolari e delle pratiche magiche. Gli storici che hanno tentato di fare un bilancio numerico delle vittime accusate di stregoneria si sono sempre fermati difronte la mancanza di fonti, in altre parole, mancavano i verbali dei processi. Nei casi sporadici in cui si può disporre di tale documentazione si rimane, addirittura, sconvolti dalla loro durezza e drammaticità e, soprattutto, dalla capacità in essi insita di trasmettere un nitido spaccato del mondo delle streghe e della loro persecuzione. E’ stato comunque calcolato che il tasso delle condanne a morte, secondo vari luoghi ed epoche, si sia aggirato sul 25-47% dei processi, con punte massime eccezionali del 92% (Svizzera). Il “rogo” era la punizione generalmente inflitta alle streghe, in quanto, come seguaci di Satana, erano sicuramente apostate. Bruciarle era anche un rituale di purificazione e rassicurava i giudici paurosi che esse non sarebbero più tornate dal regno dei morti. Ogni processo era una battaglia tra le forze di Dio e le forze del diavolo ed era combattuta per l’anima della strega, che, seppur bruciata, avrebbe sì perso la sua vita terrena ma avrebbe guadagnato quella eterna.

Articolo della dott.ssa Samantha Lombardi del sito http://www.ilpatrimonioartistico.it/

giovedì 21 novembre 2013

LA CONFESSIONE GIUSTIFICA I MEZZI

(Articolo di Claudio Corvino). La prassi giudiziaria esigeva che, per dichiarare la colpevolezza degli imputati, vi fossero almeno due testimoni oculari. In alternativa, era sufficiente l’ammissione dei reati contestati, che però, se non giungeva spontanea...Nel Malleus Maleficarum, le domande di Institor e Sprenger ruotavano soprattutto intorno ai maleficia e alle credenze da mulierculae. Perché le accuse diventassero di satanismo o adorazione del diavolo era necessario l’intervento del giudice, ma non solo: anche della tortura. Come ha scritto lo storico Brian P. Levac: «l’accusa di adorare il diavolo, nei processi di stregoneria, non viene mai formulata prima di giungere alla fase del procedimento in cui si applica la tortura». Ne deriva che la tortura ebbe una notevole importanza, sia per comprendere meglio cosa realmente confessavano gli imputati, sia per un problema di carattere strettamente giuridico che si presentava ai giudici, soprattutto agli inquisitori.
È dunque lecito immaginare un quadro piuttosto cupo, ma non si deve credere che, alla fine del Quattrocento, cioè all’epoca in cui il Malleus fu pubblicato, iniziasse in Europa uno sterminio di streghe generalizzato. Piuttosto, con un andamento non sempre del tutto ben chiaro, la «caccia» procedeva con esplosioni improvvise, seguendo focolai diversi e legandosi a particolari situazioni locali o, talvolta, alla personalità di un singolo giudice. E, nei primi anni del Cinquecento, sembrerebbe verificarsi un rallentamento del fenomeno stregonico. Scrivendo nel 1516, Lutero poteva dire che, nonostante nella sua giovinezza avesse sentito parlare di molte streghe, ora «non se ne sentiva parlare» piú di tanto. Ma sappiamo come questo pur straordinario religioso non sia mai stato uno storico oggettivo. A contraddirlo, basterebbe il canonista spagnolo Francisco Peña: «Nulla è piú frequentemente disputato oggi, che di sortilegi e divinazioni». Ma Peña scriveva nel Cinquecento ormai inoltrato, ed è effettivamente vero che molti storici hanno notato una diminuzione dei processi, accompagnata, e questo è un dato piú immediatamente verificabile, da una corrispondente interruzione della pubblicazione di trattati e manuali di stregoneria. Lo stesso Malleus, che pure fu vendutissimo tra il 1486 e il 1520, non fu piú ristampato da quest’ultima data e fino al 1576. Il 31 ottobre del 1517 Lutero affisse le sue Tesi alle porte della cattedrale di Wittenberg, in Sassonia: inaspettatamente, per lo meno al suo inizio, anche la Riforma contribuí alla diminuzione dei processi di stregoneria. 





Tutte insieme a far baldoria

Verso il 1516, questo grande riformatore predicava alla sua congregazione che «molti credono che le streghe si rechino a cavallo di una scopa, o di un ariete o di una testa d’asino, in un posto o nell’altro in cui tutte le streghe fanno baldoria insieme, a loro piacere; ma è proibito non solo far ciò ma anche credere che si faccia». Questo, però, fu solo all’inizio, visto che pochi anni dopo cambiò totalmente i toni, coniando quella definizione che è rimasta famosa: «le streghe sono le puttane del diavolo». Ma se la Riforma, in qualche modo e per qualche tempo, sembra avere interrotto la caccia alle streghe in alcuni Paesi, ciò non fu legato direttamente alla volontà dei suoi fondatori. È piú probabile trovarne le cause in altri fattori, come il rifiuto, per lo meno iniziale, di ogni costruzione teorica cattolica riguardo alle streghe e, parimenti, dei trattati demonologici a cui questa diede vita. Inoltre la Riforma allontanò dai suoi territori l’inquisizione papale, e il riordino delle giurisdizioni ecclesiastiche, insieme con il trasferimento di gran parte delle loro competenze alle corti secolari, si risolse in una radicale trasformazione, e in un conseguente rallentamento, di tutto l’apparato giudiziario destinato a occuparsi di stregoneria. Questa sorta di «distrazione» dal fenomeno, tuttavia, fu solo temporanea e già alla metà del Cinquecento la caccia riprendeva con maggior vigore di prima. La spiegazione di un tale atteggiamento può avere molte cause, una delle quali può essere ravvisata nel fatto che, dopo alcuni decenni di transizione, in realtà la Riforma non seppe e non volle elaborare una teoria autonoma e indipendente riguardo alle streghe, accettando e facendo proprie le vecchie concezioni demonologiche espresse dai teologi cattolici, arrivando a citare le stesse autorictates, come rimproverò aspramente, ma siamo già nella prima metà del XVII secolo, Christian Thomasius Benedict Carpzov, autore della Practica Rerum Criminalium (1635). La caccia alle streghe infuriò nei territori protestanti come in quelli cattolici, con modalità piú o meno simili: dalle crudeli persecuzioni scozzesi e quella dei Paesi di Vaud, alle piú «tolleranti» dei Paesi Bassi. Come nel resto d’Europa, spesso le accuse provenivano «dal basso», senza necessariamente l’intervento di alcuna inquisitio d’ufficio, che tutt’al piú si limitava in questo caso ad assecondare le sollecitazioni della popolazione, propensa a ricorrere al linciaggio come strumento di giustizia sommaria. Questa era una prassi abbastanza normale, come già per il 1127 ci ricorda Galbert di Bruges, riportato da Jean-Claude Schmitt in Medioevo «superstizioso» (Editore Laterza, Roma-Bari 2010): «Quando il conte Thierry andò per la prima volta a Lilla, gli venne incontro una strega, scendendo nel fiume che il conte stava per attraversare passando per il ponte proprio accanto alla iettatrice che lo asperse d’acqua. Allora, si dice, il conte si ammalò di cuore e di stomaco fino al punto da essere nauseato da bevande e cibi. I cavalieri, preoccupati della sua sorte, s’impadronirono della strega e, legandole mani e piedi, la collocarono su un mucchio di paglia e di fieno accesi e la bruciarono».

Le compagnie di giustizia

Anche nel Cinquecento e nel Seicento il meccanismo non cambia di molto: le esecuzioni sommarie vengono solitamente organizzate dai parenti delle vittime del presunto maleficio, talvolta da giovani riuniti in vere e proprie «compagnie di giustizia». La strega viene scovata, frustata e finita a colpi di pietre, o finisce sul fuoco. L’assassino si nasconde per un po’ di tempo, fino a che, aiutato dai notabili del luogo, riesce a ottenere una lettera di remissione. Tutto ciò accadeva anche nei Paesi protestanti, forse con qualche motivazione maggiore, o quantomeno diversa. Lutero, come anche Calvino o gli altri riformatori religiosi, non elaborarono alcunché di diverso riguardo alla presenza del diavolo nel mondo, anzi, quasi ingigantirono la sua figura, rendendola onnipresente e potentissima e trovandogli un fondamento biblico piú solido. Lo stesso Lutero ha piú volte sostenuto di avere ingaggiato veri combattimenti con questo rappresentante del Male in terra. Al tempo stesso, il protestantesimo iniziò una guerra senza quartiere alle superstizioni, di qualunque tipo fossero, da quelle non ecclesiastiche – come l’uso di incantesimi, di amuleti o di ogni altra forma di magia, terapeutica e non –, a quelle ecclesiastiche, come venivano considerate le devozioni popolari, quali l’adorazione dei santi, l’utilizzo pseudomagico del rosario, delle immagini sante e delle reliquie. Persino il sacramento cattolico dell’Eucarestia e la Messa di cui era parte venivano bollati come superstiziosi e magici. Questa ricerca della purezza, però, ebbe come corollario l’impoverimento delle difese popolari contro la magia: la vittima di un presunto maleficio, o magari colui che voleva soltanto scongiurare possibili mali futuri, non poteva piú disporre di alcuni mezzi considerati efficacissimi contro il male: il segno della croce, l’aspergere la casa con acqua benedetta, appendervi immagini di santi, o tutti quei rituali protettivi che si utilizzavano in genere contro il potere del diavolo. Tutto ciò, in qualche modo, oltre a contribuire a un atteggiamento meno indulgente verso alcune «stranezze» della devozione popolare, poté da un lato rafforzare la paura delle streghe e, dall’altro, fare sí che l’unico modo per contrastare i malefici e coloro che li perpetravano fosse la via giudiziaria, con un conseguente aumento dei processi.

Per vincere il «senso di colpa»

Nel contesto protestante, alcuni storici hanno voluto dare un ruolo rilevante alla vecchia teoria del «capro espiatorio» della comunità di villaggio. La convinzione nasce dal fatto che la ricerca sistematica del concetto di salvezza, soprattutto in ambiente calvinista, in qualche modo contribuí alla nascita di un tipo di personalità molto motivata, le cui energie, fisiche e morali, potevano essere incanalate verso attività genericamente sociali. Ancora Brian P. Levack sostiene che ogniqualvolta una persona coscienziosa cadeva nel peccato, si trovava di fronte a un senso di colpa e di indegnità morale che rasentava la spaventosa prospettiva di non essere tra gli «eletti». Di questo «senso di colpa», la vittima faceva di tutto per liberarsi: in genere trasferendolo su un’altra persona, meglio la strega, oggetto ideale in quanto incarnazione del Male. Le streghe, secondo questa visione psico-sociologica, diventavano i capri espiatori di una comunità che stava lottando per affermare un nuovo ordine morale. Il senso di colpa ritorna anche nelle analisi dello storico Alan Macfarlane per quanto riguarda la stregoneria in Inghilterra tra il Cinquecento e il Seicento. Analizzando le accuse di malefici e stregonerie nei villaggi, Macfarlane individua alcune costanti che inducono a vedere nella strega una donna, perlopiú anziana, o vedova, e in genere appartenente allo stesso villaggio, quando non alla stessa contrada, della vittima. Già Reginald Scot, d’altronde, alla fine del XVI secolo, aveva sostenuto che il potere delle streghe era confinato nell’ambito dei loro rapporti sociali (come scoprirà piú tardi l’antropologia), «perché la distanza massima che possono raggiungere è andare a prendere un secchio di latte ecc., a mezzo miglio circa dalle loro case». In una società basata su forme di solidarietà economiche che cominciavano a declinare, ecco allora che le accuse comparivano quando c’erano mancanze nei rispettivi, reciproci doveri di aiuto. Il saggio dello storico inglese abbonda di casi di donne stregate per essersi rifiutate di portare alla vicina pesci dal mercato di città, per avere scacciato in malo modo una vecchietta che si limitava a raccogliere legna nella proprietà della vittima, oppure cosí: «Tenendo un uomo, a quel tempo, una festa per la tosatura, e non avendola invitata [la strega], pur essendo lei sua vicina, ella gli stregò ben due pecore». Cosí l’oggetto del contendere (un prestito non concesso, un attrezzo non prestato), diventano lo stadio finale di un processo economico e sociale piú complesso, che nasconde un cambiamento fondamentale dell’intero complesso di rapporti tra vicini. La stregoneria – secondo Macfarlane – poteva diventare cosí la «causa» vera, nel senso che spiegava il fine, il motivo o la volontà celate dietro una disgrazia. In un senso piú strettamente psicologico, il senso di colpa diventava cosí la molla di tutta una serie di accuse ai danni delle vicine (perché in genere si trattava di donne), presunte streghe.

LA TORTURA



Tutte le forme di tortura giudiziaria del Medioevo venivano inflitte solo a individui accusati di gravi crimini, quando su di loro pesavano sospetti precisi, al fine di ottenere una confessione che si erano rifiutati di fare durante l’interrogatorio ordinario. Il tormento della fune, o corda, o ancora della «colla», come questo supplizio veniva chiamato nel linguaggio piú corrente, era concepito per non far soffrire oltre un certo limite chi lo subiva. All’accusato venivano legate le mani dietro le spalle, poi lo si attaccava a una fune che passava per una carrucola fissata al soffitto della stanza e lo si tirava su, lasciandolo penzolare per aria per una durata che andava da un minuto a un’ora. La discesa poteva essere piú o meno brutale, a seconda della paura che si voleva mettere al delinquente. Lo si poteva anche lasciar ricadere d’un colpo fino a terra, dove si schiantava.

Se necessario, il «tratto» veniva ripetuto una, due o tre volte, prima che la vittima fosse riportata davanti al giudice. Allora e solo allora, dopo avergli lasciato il tempo di meditare sui pericoli corsi, il giudice riprendeva l’interrogatorio dell’imputato. Dal giudice e dagli esecutori dipendeva, dunque, in gran parte il grado di crudeltà del tormento inflitto all’imputato. Nel Medioevo non esistevano trattati su come praticare la tortura, e i codici di leggi – come per esempio gli Statuti comunali –, quando ne parlano, lo fanno con estrema sobrietà: si raccomanda tutt’al piú di limitare l’uso dei tormenti ai crimini piú gravi e di adeguare comunque la loro crudeltà alla condizione sociale dell’imputato e al valore degli indizi raccolti.

La «colla» presentava, appunto, il grosso vantaggio di consentire infinite gradazioni nelle sofferenze da infliggere al malcapitato e questa è senz’altro la ragione per la quale i giuristi del Medioevo la preferivano a ogni altro tipo di tortura. Può anche darsi, del resto, che la colla, o fune, fosse stata, all’inizio, l’unica forma di tortura ammessa dai tribunali dell’Italia comunale. Il che vuol dire che la tortura ha una sua storia che possiede, come tutte le storie, un inizio e una fine. La fine la conosciamo tutti, perché coincide con le grandi vittorie della civiltà moderna sui modi e costumi degli antichi regimi. Mentre pochi sanno, all’infuori degli storici del diritto, che la tortura nasce, o piuttosto rinasce, all’inizio del XIII secolo, in un contesto culturale ben preciso, quello appunto della «rinascita» del diritto romano, e che la sua diffusione segna una tappa decisiva nello sviluppo della civiltà giuridica.

Per comprenderlo, occorre accantonare per un momento il problema dei mezzi di tortura e focalizzare l’attenzione sulla funzione della tortura all’interno del sistema giudiziario. Fino al XII secolo, i tribunali seguivano un solo tipo di procedura, quella accusatoria: chi aveva subito un danno chiedeva giustizia al giudice, accusando l’autore del danno; in caso di omicidio, toccava alla famiglia della vittima – e a nessun altro – chiedere riparazione del crimine. L’accusatore, naturalmente, doveva produrre prove, orali o scritte, e il giudice, pur non essendo un conoscitore del diritto ma un «potente», cioè un conte o un signore, le esaminava con la dovuta attenzione. Ma al giudice non interessava la verità oggettiva dei fatti e nessuno gli chiedeva di indagare per sapere che cosa fosse realmente accaduto. Doveva solo ricercare o favorire la soluzione di un litigio che, se non fosse stato composto, avrebbe scatenato una guerra tra le parti e minacciato l’ordine pubblico.

Nei casi piú delicati, si poteva anche ricorrere all’ordalia, per esempio alla prova del ferro rovente o a quella dell’acqua bollente, oppure al duello, lasciando cosí alle forze sovrannaturali il compito di indicare l’esito del conflitto. Ma non alla tortura, che risponde, come vedremo fra un istante, a esigenze del tutto diverse. Il sistema giudiziario in vigore presso i popoli germanici non conosceva altri procedimenti e, quindi, negli Stati occidentali, la giustizia ha funzionato, salvo poche modifiche dovute a Carlo Magno, secondo le regole del processo accusatorio per tutto il periodo che va dall’arrivo dei barbari alla fine del XII secolo. Poi, nel giro di pochi decenni, le cose sono molto cambiate e si è assistito all’apparizione, accanto al procedimento accusatorio, di un nuovo tipo di processo: quello inquisitorio. Cos’era successo? Poco prima i giuristi italiani avevano scoperto le mille risorse del diritto romano, studiandolo direttamente sulle fonti originali, e non piú attraverso compilazioni tardive e corrotte. Ed è nei codici di Giustiniano, appunto, che i dottori di Bologna hanno scoperto l’esistenza di una procedura che consente allo Stato di perseguire gli autori di delitti pur in assenza di una parte querelante e che obbliga il giudice ad accertare la verità, se necessario anche con l’ausilio di mezzi coercitivi come il carcere e la tortura.


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Il successo della nuova procedura fu immediato. Alla metà del XIII secolo era già di uso corrente presso i tribunali laici dell’Italia comunale. Ma la Chiesa, da parte sua, non fu meno solerte nell’intuire i vantaggi della procedura inquisitoria, che fu subito adottata dai tribunali creati alla stessa epoca – siamo nella prima metà del XIII secolo – dalla Santa Sede per reprimere l’eresia. Nascevano in tal modo i tribunali dell’Inquisizione, cosí chiamati proprio perché giudicavano secondo le regole del processo inquisitorio e agli inquisitori la Chiesa riconosceva, non meno che ai giudici laici, la facoltà di utilizzare la tortura. Inutile dire che il giudice, nell’impiegare questi metodi, deve agire con grande discernimento: la tortura serve ad accertare la verità, deve fornirgli la prova che manca, vale a dire la confessione di colui che tutti gli indizi indicano come il principale sospetto. Va quindi applicata in circostanze ben precise, che la legge, per esempio nei Comuni italiani, dove il suo uso si diffonde abbastanza presto, delimita con estrema severità: ci vogliono un presunto colpevole di cattiva fama, un crimine particolarmente grave, indizi seri e numerosi.

D’altra parte la tortura non deve far soffrire oltre il necessario, né mettere in pericolo la vita dell’imputato, o anche solo minacciarne l’integrità fisica. Tutte queste cautele per limitare l’uso e la crudeltà della tortura impediscono allo storico di oggi di formulare su di essa giudizi cosí severi come quelli emessi, in tempi ben diversi dai nostri, da personaggi come Voltaire e Cesare Beccaria.  Ma c’è di piú: gli storici del diritto non dubitano un istante che la tortura, utilizzata e disciplinata come lo era nel quadro del processo inquisitorio, abbia segnato un grande progresso nel funzionamento della giustizia, perché fondava la sentenza sulla verità dei fatti, e non piú sulla capacità delle parti di far prevalere i propri diritti. E dal loro punto di vista, che è quello della dottrina giuridica, non hanno torto. Solo che, nella realtà di ogni giorno, molti giudici non esitavano a fare della tortura un uso distorto, applicandola fuori misura, con strumenti molto piú crudeli della semplice fune e al servizio di interessi che avevano ben poco da spartire con la manifestazione della verità.

Abbiamo per esempio la cronaca di Dino Compagni, un fiorentino dell’inizio del Trecento molto critico nei confronti dei giudici, ai quali rimprovera di essere corrotti e servi della nobiltà. Vi leggiamo che nella sua città, dove infuriava la lotta tra le due fazioni dei Neri e dei Bianchi, la colla veniva sistematicamente utilizzata per terrorizzare i prigionieri politici, anche quando non avevano piú niente da confessare. Uno di loro non sopravvisse al tormento. Per un altro, il giudice volle aggiungere i tormenti psicologici oltre a quelli fisici: ordinò di «mettere alla colla» l’imputato, che era un famoso uomo di legge di Firenze e poi, mentre lo si teneva sollevato, fece aprire finestre e porte del palazzo e invitò la folla ad assistere allo spettacolo e a deridere il suppliziato.

Ma, perlomeno, ci pare di capire che la Firenze dell’epoca di Dante non aveva ancora sostituito la colla con altri e piú terribili strumenti di tortura. Non fu dappertutto cosí e, senza parlare dei tormenti piú raccapriccianti che la barbarie umana non ha cessato mai di inventare, nel Medioevo come oggi, la giustizia medievale utilizzò, con la benedizione dei giuristi, forme di tortura che non ebbero tutte la relativa innocuità della colla. Una delle piú diffuse consisteva nello stringere al di là del sopportabile le membra del soggetto; i carnefici disponevano per questo di una gamma infinita di strumenti, dai piú semplici ai piú sofisticati.

Usavano per esempio lo stivaletto, o «stivale spagnolo», una specie di gambale di ferro dentro il quale, con un meccanismo a vite, si stringeva la gamba del malcapitato fino a spezzargli le ossa. Non serviva tanta crudeltà con donne e ragazzi: bastava mettere loro tra le dita delle mani congiunte zufoli o cannette e stringere con una cordicella. Il fuoco offriva naturalmente mille possibilità di tormento: una della piú semplici consisteva nell’ungere i piedi del malcapitato di turno con olio o lardo, accendendovi sotto un buon fuoco; il supplizio poteva durare «il tempo di un credo e di due miserere», ci dicono le fonti, e ripetersi a discrezione del giudice. E come non citare, per finire, il tormento della «lingua caprina», noto tanto in Occidente come in Oriente?

La tecnica non cambiava da una civiltà – si fa per dire – all’altra: si cospargevano di sale o di acqua salata i piedi del reo, assicurato a una seggiola, e si invitava una capra, possibilmente affamata, a leccarglieli; in teoria, la capra con la sua lingua ruvida poteva consumare pelle e muscoli del suppliziato e arrivare fino all’osso. In teoria: perché nella realtà sembra che questo tormento sia esistito solo nell’immaginazione fertile e perversa di certi giuristi. Che sollievo!

IL MANUALE DEL PERFETTO INQUISITORE

Nel 1486 due domenicani tedeschi, jakob Sprenger e Heinrich Institor, danno alle stampe il Malleus Maleficarum. L’opera diviene il coronamento ideale dell’attività di repressione nei confronti della stregoneria: offre giustificazioni di natura religiosa e morale a quello che, nei fatti, è un accanimento che va ben oltre i limiti del diritto. Il Malleus maleficarum, il «martello delle malefiche», fu, piú che un libro, un vero e proprio vademecum del perfetto inquisitore, scritto da Jakob Sprenger (1436 circa-1495) ed Heinrich Institor (1430 circa-1505 circa) e stampato verso il 1486. Malleus significa martello o maglio. Maleficarum è al femminile perché, nel pensiero dei due autori, e della loro epoca, chi fa malefici (da male e facere) non può che essere donna, quindi «malefica». E infatti il Malleus, oltre a essere il trattato demonologico piú completo e famoso sull’argomento, è forse il volume piú misogino e antifemminista che sia mai stato scritto, perlomeno nel Quattrocento. Anche se non si può dire che il Malleus sia la causa scatenante della persecuzione alle streghe, è tragicamente vero però che il trattato fu la piú consistente giustificazione morale e teorica a quel particolare crimine contro l’umanità che fu conosciuto come «caccia alle streghe». Questo, per vari motivi.





Il dissenso trasformato in eresia

Innanzitutto il trattato, a differenza degli altri volumi scritti sull’argomento, ha una solidissima e stringente dialettica, derivante sia dall’esperienza «sul campo» degli autori, sia dalla loro preparazione filosofica. Anche le cose piú assurde, le falsità piú evidenti, nei loro stringenti ragionamenti, sembrano diventare argomenti plausibili, verosimili o perlomeno accettabili. Quasi tutte le argomentazioni sembrano avere una matrice, o comunque un fine comune: chiunque dissenta dalle loro posizioni, è corrotto dal demonio, oppure ne è alleato, e quindi eretico perseguibile. L’altro motivo, legato al primo, è che l’opera è preceduta da un’introduzione prestigiosissima, che le conferisce una sorta di autorità «sacrale»: la bolla di papa Innocenzo VIII Summis desiderantes affectibus, del 5 dicembre 1484. Degna introduzione a tale libro, anche la bolla è ricca di deliranti riferimenti a presunte attività diaboliche: «In verità, è da poco pervenuto alle nostre orecchie – non senza nostra grande afflizione – che in alcune regioni della Germania Superiore come pure nelle province, città, terre, borgate e vescovadi di Magonza, Colonia, Treviri, Salisburgo e Brema, parecchie persone di ambo i sessi, immemori della propria salvezza e allontanandosi dalla fede cattolica, non temono di darsi carnalmente ai diavoli incubi e succubi; di far deperire e morire la progenie delle donne e degli animali, le messi della terra, le uve delle vigne e i frutti degli alberi, inoltre uomini, donne, bestiame grande e piccolo e d’ogni sorta; e ancora vigneti, giardini, prati, pascoli, biade, cereali, legumi per mezzo d’incantesimi, fatture, scongiuri e altre esecrabili pratiche magiche».

Le proteste del vescovo

Dietro quel «è da poco pervenuto alle nostre orecchie», pare ci debbano essere gli stessi due autori, quelli che Innocenzo VIII definisce «i nostri diletti figli», che chiesero espressamente al papa licenza di inquisire liberamente, senza alcuno scrupolo e senza alcun impedimento. Vane furono le proteste dello stesso vescovo di Bressanone, Georg Golser, il quale, in barba alla cosiddetta «infallibilità» del romano pontefice, due anni dopo la bolla, allontanò Institor dalla sua diocesi per l’arbitrarietà con la quale procedeva a processi e condanne. Ma a poco gli valse, perché, in proposito, la bolla papale era molto chiara: «Stabiliamo con la presente, in virtú dell’autorità apostolica, che sia consentito ai surriferiti inquisitori di esercitare il loro ufficio in quelle terre, che possano procedere alla correzione, incarcerazione e punizione di quelle persone per gli eccessi e crimini predetti, in tutto e per tutto (…) Coloro che si opponessero a tutto ciò, di qualsiasi rango e condizione, siano scomunicati e colpiti con le piú gravi pene ecclesiastiche, invocando, nei casi piú gravi, ove fosse necessario, l’aiuto del braccio secolare». Che significava, per i non addetti ai lavori, la pena di morte, visto che la Chiesa, ufficialmente, si era posta il divieto di spargere sangue, almeno in modo diretto.
Il terzo motivo consisteva nel fatto che anche l’imperatore Massimiliano I, il 6 novembre 1486, prendeva sotto la propria protezione i due autori, chiedendo ufficialmente che venissero coadiuvati da tutte le autorità preposte. Non contenti di ciò, i «diabolici» inquisitori cercarono consenso anche presso i detentori, di fatto, del potere culturale dell’epoca: un collegio di teologi. Colonia all’epoca ospitava una facoltà di teologia a cui il papa aveva affidato l’incarico di censurare le opere a stampa. Quale luogo migliore per organizzare, dunque, una dotta riunione di teologi per chiedere l’Approbatio al volume? Peccato però che a questa riunione ci fosse solo Heinrich Institor, e nessun altro. Fu cosí che il 19 maggio 1487, come è scritto nell’Approbatio preposta al Malleus, la individualissima «unanimità» dei teologi non solo fu concorde, ma giudicò urgente perseguitare la stregoneria. Ma perché i due autori si preoccupavano cosí tanto? A che pro tanti sotterfugi, tante patenti ufficiali? La cosa non è semplice da spiegare. Occorre fare un passo indietro e tornare ancora una volta al Canon episcopi, formatosi tra il IX e l’XI secolo. Un testo che, a torto, il Medioevo ha creduto provenire dal concilio di Ancira, del 314. Questo scritto, in realtà, fu essenzialmente un’istruzione riservata ai vescovi sull’atteggiamento da tenere nei confronti della credenza nella «società di Diana» ovvero, come definisce il testo, in «alcune donne scellerate, convertite da Satana, sedotte dai demoni e da fantasmi, [che] credono, durante le ore notturne insieme alla dea dei pagani Diana, e con innumerevoli altre donne, di cavalcare bestie e percorrere immense distese nel profondo silenzio della notte, ubbidendo alla dea come loro padrona assoluta, che le chiama a servirla in determinate notti. Volesse il cielo che solo loro perissero nella loro perfidia, e non vi trascinassero molti altri. Infatti moltissimi, illusi da queste false opinioni, credendole vere, si allontanano dalla vera fede cadendo negli errori dei pagani, cioè che esistano altre divinità e numi oltre l’unico Dio». Non siamo ancora in presenza delle streghe adoratrici del diavolo di cui parla il Malleus, bensí di donne che volano, stornano latte e miele dai contadini o dai vicini a beneficio loro o di altri, che affatturano i pulcini delle oche, delle galline o i cuccioli dei maiali.

Barlumi di saggezza

Ad ogni modo il Canon è chiaro: «Se hai creduto a queste cose vane, farai due anni di penitenza nei giorni stabiliti». Ora, questo testo è fondamentale e detta legge, visto che si pensava, l’abbiamo detto, che provenisse da un concilio. A fronte di quella che fu la follia dei secoli «moderni», il mondo medievale mostra grande tolleranza e, in qualche modo, saggezza. Credere che le donne possano volare alle riunioni orgiastiche e cannibaliche delle streghe, o fare le cose appena descritte non è concepibile: è fantasia, è peccato. 
Tali convinzioni furono condivise e rispettate da piú parti fino al Quattrocento, allorquando qualcosa, lentamente, cominciò a cambiare. L’immagine dell’eretico cospiratore contro la cristianità e contro l’intera umanità venne lentamente costruita, e utilizzata, soprattutto nelle invettive retoriche che i monaci scagliavano contro gli eretici nel Due e Trecento. Il cambiamento fu determinato anche da fattori giuridici: dal Duecento, i tribunali non operavano piú con il sistema accusatorio, ma cominciavano a utilizzare quello inquisitorio. Non era piú il soggetto privato a intentare e proseguire l’azione penale, ma il giudice. Anche se, perlomeno all’inizio, sempre sulla scorta di una denuncia da parte di un privato. In seguito, l’azione penale venne avviata d’ufficio o addirittura basandosi sulla «pubblica infamia».

Ogni tempo ha le sue streghe

Ovviamente parteciparono a definire (e condannare) la figura della strega anche intellettuali e inquisitori, come Nicolas Jacquier che nel 1458 scrisse il Flagellum haereticorum fascinariorum, nel quale, per la prima volta, si afferma l’assoluta differenza tra le donne di cui parlava il Canon e le streghe «modernis temporibus».
Intellettuali come il Jacquier avevano studiato in università prestigiose, avevano un sostrato e una cultura diversi da coloro che credevano nei rimedi naturali utilizzati dalle «donnette» o dai guaritori tradizionali, che furono definiti streghe e stregoni. Jacquier – e molti come lui – aveva la percezione di vivere in un mondo diverso, in modernis temporibus. Un mondo che cominciava a non comprendere piú quelle che oggi chiameremmo «tradizioni popolari» e allora, sbrigativamente, superstitiones. A partire dal Quattrocento, l’Europa sembra allontanarsi dalle sue radici che, piú che cristiane, sono composte da collaudati sincretismi magico-religiosi. Comincia ad abbracciare, e diffondere, una visione condivisa, oggi diremmo globale, che tenta di scalzare ogni differenza o devianza, bollandola come eresia. Meglio, quell’insieme di credenze che la Chiesa non era riuscita a incorporare o a trasformare, ora comincia a divenire eresia.
Grazie al processo inquisitorio, alla tortura, ai roghi, alla capillare predicazione cristiana, il variegato mondo di conoscenze, valori, riti e miti non ancora assimilati nella dottrina e cultura cristiane, cominciano a passare al vaglio della demonologia del Malleus e delle sue derive inquisitorie. Una demonologia che ebbe l’effetto di schiacciare una cultura millenaria (anche nel senso di cultura popolare) sotto il «martello» del diabolismo e del diabolico.

SUL BANCO DEGLI ACCUSATI

Con l’istituzione dell’inquisizione, la stregoneria non è piú soltanto un fenomeno esecrato o temuto, ma si trasforma in un crimine. E i tribunali non esitano a far valere tutti i loro poteri – fatti anche di arbitrio e tortura –, pur di ottenere le ammissioni di colpevolezza. Ille humani generis: con questa bolla di papa Gregorio IX, promulgata nel 1233, avvenne il varo del tribunale dell’Inquisizione. Il compito di esercitare duramente la repressione fu affidato all’Ordine domenicano, fondato nel 1215 con l’intento di contrastare le dilaganti eresie nell’Europa cristiana. Con la bolla il pontefice stabilí che ogni grande città del continente dovesse avere il proprio tribunale inquisitorio, la cui competenza comprendeva anche i reati di stregoneria. Eresia e stregoneria spesso si sovrapponevano nelle elaborazioni della cultura cattolica, ma restavano comunque due categorie distinte per i giudici. In un primo periodo i tribunali si occuparono soprattutto di eretici. Nel 1257, però, la stregoneria divenne una delle priorità per gli inquisitori, come testimoniato dalla bolla Quod super nonnullis, redatta da papa Alessandro IV, che invitava a indagare piú a fondo in quella direzione. Nei primi anni di vita il tribunale mostrò un certo rispetto per l’imputato, un atteggiamento che si può evincere dal primo vademecum per gli inquisitori pubblicato nel 1320 con il titolo Practica inquisitionis haereticae pravitatis. Nel volume si stabilivano limiti precisi alla tortura per salvaguardare la dignità di chi era sospettato di intrattenere rapporti con il diavolo. Ben presto, però, i metodi per estorcere confessioni divennero piú violenti: nel 1376 un altro vademecum, il Directorium inquisitorium ammetteva la possibilità di reiterare torture all’interno di un processo, con la raccomandazione, comunque, di non spargere sangue. L’uscita del volume De planctu ecclesiae, commissionato da papa Giovanni XXII, comportò un inasprimento dei giudizi contro le presunte streghe: il testo, fortemente misogino, lanciava accuse in genere alle donne ritenute esseri perversi che attiravano l’uomo negli abissi della sensualità e che lanciavano malefici. Ma è a partire dal Quattrocento che la persecuzione assunse la massima ferocia, almeno limitatamente al periodo del Medioevo. L’inasprimento dei metodi di indagine e di giudizio si manifestò in corrispondenza con l’uscita del trattato demonologico Malleus maleficarum (1487). Gli autori, due domenicani tedeschi, intesero riordinare la normativa sui processi per stregoneria. Le loro tesi non si discostarono di molto dal precedente Directorium inquisitorium, ma furono portate alle estreme conseguenze.





martedì 11 giugno 2013

ATTI DEL CONCILIO DI VIENNE - GLI INQUISITORI

E' giunto alla sede apostolica il lamento di molti, che alcuni inquisitori, incaricati da essa di vigilare contro la malvagità dell'eresia, passando i limiti loro consentiti, estendono talmente i loro poteri, che ciò che è stato salutarmente destinato all'accrescimento della fede attraverso una prudente vigilanza, si risolve, invece, a danno dei fedeli, dato che sotto la scusa della pietà vengono molestati gli innocenti. Perciò, a gloria di Dio e ad aumento della fede, perché l'attività dell'inquisizione giovi quanto più l'indagine è condotta con diligenza e cautela, vogliamo che questo ufficio sia esercitato dai vescovi diocesani e dagli inquisitori incaricati dalla sede apostolica, senza alcun affetto carnale, odio, timore o attaccamento a umana utilità. Ognuno di essi potrà senza l'altro citare, arrestare, prendere e trattenere in sorveglianza e mettere in ceppi, se lo crederà opportuno di ciò rendiamo responsabile la sua coscienza - e potrà anche fare indagini contro chi riterrà necessario. Invece la condanna al carcere duro e rigoroso, adatto piuttosto a far scontare la pena, che a custodire o la decisione di sottoporre a tormenti, o l'emissione della sentenza, il vescovo e l'inquisitore potranno deciderle solo di comune accordo. Il vescovo può delegare un suo officiale, e - durante la vacanza della sede vescovile - fungerà un delegato del capitolo.

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Ma se il vescovo o il delegato del capitolo, durante la vacanza, non può o non vuole incontrarsi personalmente con l'inquisitore, viceversa ciò potrà avvenire per interposte persone o per iscritto.
Sappiamo anche che nella custodia delle carceri per gli eretici, si sono perpetrate a lungo molte frodi, stabiliamo che ogni carcere del genere, - che del resto intendiamo che debba esser comune al vescovo e all'inquisitore, - abbia due custodi principali, discreti, attivi, fedeli, tino scelto dal vescovo, e a cui questi dovrà anche provvedere, l'altro dall'inquisitore, a cui provvederà l'inquisitore, l'uno e l'altro potrà, poi, avere sotto di sé un altro buono e fedele aiutante. Per ogni ambiente dello stesso carcere vi saranno due chiavi diverse, di cui ciascuno ne terrà una. Questi custodi, inoltre, prima di prender possesso del loro ufficio giureranno sui sacri Evangeli dinanzi al vescovo o al capitolo - durante la sede vacante - e all'inquisitore o ai loro sostituti, di usare nel custodire i carcerati affidati alla loro sorveglianza, ogni diligenza e sollecitudine. E che l'uno non dirà nulla a nessun carcerato, senza che l'altro custode lo senta anche lui. E che essi passeranno senza sottrarre nulla le razioni che i carcerati ricevono dall'amministrazione e ciò che viene loro offerto da parenti, amici, o altre persone, a meno che l'ordine del vescovo e dell'inquisitore sia diverso, e che in queste cose non commetteranno alcuna frode. Lo stesso giuramento presteranno dinanzi alle stesse persone anche gli aiutanti dei custodi, prima di iniziare il loro Ufficio. E poiché spesso i vescovi hanno carceri proprie, non comuni cioè a loro e agli inquisitori, vogliamo e comandiamo severamente che i custodi destinati dal vescovo o - durante la vacanza della sede - dal capitolo alla custodia dei carcerati per eresia e anche i loro subalterni prestino lo stesso giuramento dinanzi all'inquisitore o ai loro sostituti. Anche i notai dell'inquisizione giureranno dinanzi al vescovo e all'inquisitore o ai loro sostituti di adempiere fedelmente il loro ufficio. La stessa cosa faranno le altre persone necessarie ad eseguire questo ufficio.
E poiché è altrettanto grave non fare, per sterminare tale malvagità, ciò che la sua gravità richiede quanto accollare maliziosamente tale iniquità agli innocenti, comandiamo al vescovo, all'inquisitore e a quegli altri che essi sceglieranno per tale ufficio, in virtù di santa obbedienza e sotto minaccia di eterna maledizione, di procedere contro i sospetti o gli accusati tanto discretamente e con tanta prontezza da non addossare ad alcuno, falsamente, con frode e malizia una macchia cosi grande. Se, mossi dall'odio, dal favore o dal l'amore, dal guadagno o dall'utilità temporale, emettessero, contro la giustizia e la loro coscienza, di procedere contro qualcuno, quando invece si dovrebbe agire; o se, con gli stessi intenti, addossassero a qualcuno questa colpa, oltre ad altre pene proporzionate alla qualità della loro responsabilità, il vescovo o chi è a lui superiore incorra senz'altro nella sospensione dall'ufficio per tre anni, gli altri nella scomunica.
Chi fosse incorso in questa scomunica non potrà essere assolto se non dal romano pontefice, salvo che in pericolo di morte - e anche allora solo dopo previa soddisfazione - senza che in ciò possa essere invocato qualsiasi privilegio.
Quanto alle altre norme stabilite dai nostri predecessori circa l'inquisizione, in quanto non contrastano col presente decreto, con l'approvazione del santo concilio vogliamo che continuino a conservare tutta la loro forza.

sabato 13 ottobre 2012

IL PENTAGRAMMA

Il Pentagramma, chiamato pure Pentalfa, Pentagono, Pentacolo di Agrippa, Stella del microcosmo, Stella di luce, Stella dei Magi, Stella dell’Iniziazione, è quella figura composta da cinque punte: simbolo antichissimo e potente dai molteplici significati. Disegnato con una sola punta rivolta verso l'alto, è un segno benefico che raffigura il corpo umano con le braccia aperte e le gambe divaricate; l'apice di questa stella riproduce, infatti, la testa dell'uomo, le altre quattro punte sono le sue membra. In questa posizione, il Pentagramma è una rappresentazione del bene, dell'ordine, dell'unità, della vittoria, della luce solare, della potenza dell’azione e della sana volontà direttiva. Esprime l'essere umano dotato di ragione illuminata nelle sue vesti di emblema evolutivo che, grazie a questa virtù, occupa una posizio­ne più elevata rispetto ad altre creature e così riesce a dominare la materia, gli istinti e le passioni bestiali. E’ l’uomo la cui volontà conduce e dirige armonicamente i pensieri, le emozioni e tutte le azioni. Colui che è proteso verso la Luce Suprema, ovvero quel tipo di discepolo che ha compreso i cinque principali aspetti del suo essere (corpo fisico, corpo eterico, corpo emozionale, corpo mentale, corpo causale o spirituale) e quindi ha rivelato e “consapevolizzato” la spiritualità che è dentro di lui, cioè la propria Scintilla Divina o Sé Superiore, frammento dell’Assoluto.
Tutto ciò viene espresso magnificamente anche nel famoso disegno di Leonardo da Vinci, dove l’immagine di un uomo è sovrapposta ad un Penta­gramma racchiuso da un cerchio: l'essere umano come microcosmo nel Macrocosmo; ossia quel piccolo universo che è definito uomo (microcosmo) possiede potenzialmente, nella propria natura interiore, tutte le energie ed i poteri del Grande Universo (Macrocosmo). A questo proposito ci viene incontro l'assioma ermetico “ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, a conferma che l'uomo è un riassunto del Macrocosmo, un suo particolare e preciso riflesso.


Pertanto il Pentagramma è il simbolo, per eccellenza, dell’uomo-microcosmo!
Tuttavia, la sua simbologia non si esaurisce con le suddette spiegazioni; essa va ben oltre, poiché questa stella non rappresenta soltanto l'essere singolo, bensì qualcosa di più vasto ed inclusivo.
Secondo la Dottrina Cabalistica è infatti l'Uomo Totale, quell'Adamo Celeste che non è caduto in peccato ed, in quanto Primordiale, è l'unione di tutti gli uomini della terra in un unico Uomo, cioè il Progenitore della Razza Umana fatta ad immagine di Dio. Riferito alle Dieci Sefiroth, sul piano della percezione umana, l’Adamo Celeste o Adam Kadmon è la presenza della Divinità nella sua essenza universale: il Logos manifestato !
Nel Cristianesimo Esoterico, invece, è identificato col “corpo” di Gesù il Cristo, del quale tra l'altro né richiama a livello fisico le cinque piaghe; oppure, spesso viene visto come la Divinità incarnata che è discesa sulla Terra per vivificare la so­stanza materiale: il Verbo Divino, il Cristo Cosmico, il Messia Celeste.
Questo disegno, insomma, è l'archetipo dell'Umanità e la sua forma perfetta costituisce l'Ideazione originaria che scaturì dall'Assoluto e, guidata dall'Intelligenza Divina, ordinò e costruì sui piani più bassi la mate­ria, gli elementi della natura; rappresenta così la più grande realizza­zione di Dio e dell'Essere Umano !
Non a caso, nella Scienza della Gnosi, il Pentagramma è stato descritto spesso “Fiammeggiante”, indicazione d’Onnipotenza, per dare l'accento alle forze della Gran Luce Una che agisco­no per mezzo suo, poiché da ogni suo angolo rientrante si diparte un raggio che mostra un'emanazione luminosa della Divinità.
Presso gli antichi Egizi, era l'immagine di Horus, figlio del Sole e di Iside, ed incarnava la materia prima, il Fuoco sacro, la sorgente inesauribile di vita ed il germe universale di tutti gli esseri.
Il Pentagramma è anche il Pentalfa o Pentagono regolare stellato di Pitagora. Si racconta che come simbolo probabilmente è stato ideato da Pitagora, dopo che ebbe risolto il problema relativo al segmento aureo, che è quella parte del raggio di un cerchio corrispondente al lato del decagono in esso inscritto; questo segmento aureo è chiamato “divina proporzione” poiché rende le forme molto soddisfacenti a vista d’occhio e quindi determina delle proporzioni armoniose. Pentalfa significa "cinque alfa", ossia cinque principi e Pitagora, ai quattro principi esposti da Empedocle, ne aggiunse un quinto unitario: la natura. Gli fu dato questo nome proprio perché riproduce la lettera A (alfa) sulle cinque punte della Stella o nelle cinque diverse posizioni. I pitagorici disegnavano il Pentalfa con una circonlocuzione che intendeva rappresentare un triplice triangolo intrecciato, ossia costruivano questa figura da un’unica linea chiusa che si intreccia, dando luogo a segmenti i cui rapporti si richiamano alla sezione aurea. Il Pentalfa aveva un significato mistico di perfezione ed era adottato come segno di riconoscimento. Soprattutto i discepoli lo tracciavano nelle loro lettere come saluto bene augurante e quindi per significare la parola "sta bene", vale a dire armonia e salute. In questo modo gli veniva attribuito il potere di mantenere l'uomo in buona condizione fisica ed i pitagorici per rendere più efficace il suo valore occulto, scrivevano in corrispondenza dei vertici di questa Stella le lettere della parola “Salus”, cioè salu­te. Si pensava così che il Pentalfa potesse assicurare l'equilibrio delle cinque funzioni principali dell’uomo, l’integrazione armonica dei differenti aspetti umani.
Sempre questo simbolo, inoltre, accompagnava gli iniziati ai misteri pita­gorici durante tutta la giornata, dal momento in cui si alzava­no, alle prime luci dell'alba, fino a sera quando si ritiravano nella propria stanza. Esso si trovava pure nella sala dove gli iniziati consumavano i pasti frugali ed al fine di ogni pasto, il più anziano ricordava ai fratelli le cinque regole fondamentali di “giusta vita” che corrispondevano ai cinque angoli del Pentagramma:

1) esiste una sottile magia che unisce tutti gli esseri viventi e rispetta tutto ciò che vive;
2) impara a nutrire solamente pensieri buoni;
3) vieni in aiuto alle leggi divine e combatti l'illegalità;
4) adora solamente gli altari incruenti e offri agli dei i profumi della natura;
5) studia attentamente i presagi, le profezie e tutti i segni spontanei e ricordati che nulla avviene per caso.

Nella Massoneria il Pentagramma è l'emblema del libero pensiero e del santo Fuoco del genio umano che si innalza verso le cose grandi e sconfinate, ma è anche una promessa della Luce che deve venire ed illuminare le ombre della profanità. Per i Rosacruciani è il simbolo dell’anima quintuplice, dunque dell’Uomo nuovo rinato; cinque sono infatti le potenze animiche: la vegetativa, la sensitiva, la concupiscibile, l’irascibile e la razionale. Per i Teosofi è il Manas, l’Anima Cosciente, l’Ego Superiore, cioè il quinto principio, rappresentazione dell’uomo pensante e consapevole.
In rapporto all’aspetto energetico dell’uomo, invece, corrisponde al quinto chakra "vishuddha" il centro di forza che risiede sul corpo eterico, in corrispondenza del plesso carotideo, della gola; questo chakra è la sede del verbo creatore, del suono in azione, della parola attiva e costruttiva; chi lo armonizza e riesce ad attivarlo segue la strada della Saggezza Antica, ossia quel Sentiero che conduce l'uomo verso la nuova creazione di se stesso, alla vera e propria nascita sul piano dello Spirito.
Nell’esoterismo della Scuola Arcana di Alice Bailey, il Pentagramma è la Stella dell’Iniziazione, poiché richiama le Cinque Iniziazioni o espansioni di coscienza che il discepolo può ottenere progressivamente sul nostro Sistema Planetario e che ci ricordano i cinque episodi salienti della vita di Gesù il Cristo:

1) La Nascita nella Grotta o 1^ Iniziazione, che simboleggia il controllo completo del corpo fisico-eterico;
2) Il Battesimo o 2^ Iniziazione: il controllo totale del corpo emotivo, dei propri sentimenti;
3) La Trasfigurazione sul Monte o 3^ Iniziazione: la completa padronanza del corpo mentale, dei propri pensieri e l’allineamento armonico dei tre corpi inferiori;
4) La Crocifissione o 4^ Iniziazione: il sacrificio, la rinuncia, il servizio spirituale, l’attivazione del veicolo Buddhico o dell’Amore-Saggezza;
5) La Resurrezione o 5^ Iniziazione: l’ascensione, l’illuminazione, il ritorno alla Casa del Padre, l’attivazione del veicolo Atmico o della Volontà Spirituale.

Il discepolo che giunge alla fine di questo Sentiero (5^ Iniziazione) diviene un autentico Iniziato, ossia si è trasformato in colui che è entrato nel Cuore di Dio e quindi ama i suoi simili; in colui che è entrato nella Mente di Dio, quindi è un servitore del Piano Divino; in colui che comprende il Proposito di Dio e quindi può affermare tranquillamente: “Sia fatta la Tua Volontà, non la mia”.
Il Pentagramma, infine, non solo è legato a queste 5 tappe della crescita interiore del singolo uomo, ma anche agli stadi dell’evoluzione di tutto il genere umano che, guarda caso, sono sempre cinque:

- Stadio del Cancro, che è tipico degli uomini che si identificano con la forma, i cui valori sono superficiali e strettamente connessi alla materialità; sono tutti coloro che sopra ogni cosa pongono i propri desideri egoistici; rappresenta lo stadio del 60% dell’Umanità.

- Stadio del Leone, in cui gli uomini affermano la propria personalità e diventano protagonisti, cioè la loro identità passa da collettiva ad individuale; è lo stadio del 30% dell’Umanità, quella parte di persone che utilizza principalmente la mente razionale.

- Stadio dello Scorpione, che è il sentiero della prova e della purificazione, ove le vecchie forme vengono abbattute ed i desideri trasmutati in aspirazioni; questo stadio appartiene agli aspiranti spirituali che iniziano a prendere man mano coscienza di essere una cellula che fa parte di un Organismo maggiore e quindi avviano il passaggio dall’io personale al noi, al Tutto. Tali aspiranti imparano a stabilire rapporti, a cooperare e ad agire con intelligenza.

- Stadio del Capricorno, che rappresenta il sentiero del discepolo, di colui che opera in perfetto equilibrio tra spirito e materia. Il vero discepolo ha avuto l’incontro permanente con la propria Anima e volge lo sguardo disinteressato verso l’Umanità.

- Stadio dell’Acquario, infine, ove la nota dominante è il Servizio; è lo stadio dei Maestri e degli Iniziati che lavorano per l’evoluzione di tutta la famiglia umana e per quella dei regni inferiori (minerale, vegetale ed animale) . In questo servizio che svolgono c’è piena consapevolezza dei passi da compiere per favorire il miglioramento di tutti.

Per la Magia, il Pentagramma è conquistatore di potenza, felicità ed amore; esso dona sicurezza e direziona verso la meta ideale, modera le istintualità ed esalta la genialità umana: per questo simboleggia quell'e­nergia capace di dominare le potenze demoniache e le attrazioni elementari. E’ la Stella di Luce che splende nelle tenebre ed in quanto tale è il più autorevole emblema delle forze dello Spirito che lottano per emergere dal buio della materia, ossia esprime l'azione iniziati­ca che squarcia l'oscurità della ragione logica e meccanica.
Nel Medio Evo molti autori prestigiosi fregiavano le prime pagine dei loro manoscritti di Stelle a cinque punte perché così credevano di assicurare il pieno successo alla loro opera. I maghi dell’antichità tracciavano il Pentagramma sulla soglia della loro porta per proteggersi dal malocchio e dalle stregonerie; nell'architettura di molte chiese, infatti, questo disegno vuole significare una difesa efficace contro il diavolo qualora egli volesse entrare nel luogo sacro e l'abbazia di Westminster (Inghilterra), il cui finestrone occidentale è a forma stellare, ne è un magnifico esempio. Il suo influsso è stato riconosciuto pure dal Goethe, nel suo capolavoro, dove Faust in un bel monologo, riferendosi al Pentagramma, dice: “Sento la giovane e santa voluttà della vita fremere nei miei nervi e correre nelle mie vene; fu forse un Dio quello che tracciò questo segno che calma la vertigine dell’anima mia, empie di gioia il mio povero cuore e, in uno slancio misterioso, svela intorno a me le forze della natura?”. Sempre in questo capolavoro, lo stesso Faust si lamenta che Mefistofele è entrato nel suo studio, nonostante la presenza del Pentagramma: “eh, dimmi, figlio dell'inferno se il Pentagramma contrasta ogni magia, come sei potuto entrare?”. E, a questo punto, Mefistofele risponde: "osservalo, non è tracciato bene; uno degli angoli che ha la punta in fuori non è, come tu vedi, completamente chiuso” .
Nelle cerimonie di Teurgia il Pentagramma è usato spesso per le evocazioni di entità positive e per purificare astralmente le persone od i luoghi; le forze malvagie, infatti, fuggono alla vista di questo simbolo poiché rappresenta l'Uomo Spirituale che con l'aiuto della Potenza Cosmica Universale scaccia gli esseri involuti e le negatività. Paracelso, grande iniziato del passato, affermava spesso che tutte le figure magiche e tutti i segni cabalistici dei pentacoli a cui obbediscono gli spiriti si riducono a due che sono la sintesi di tutti gli altri: il segno del Macrocosmo che è l’Esagramma (o Sigillo di Salomone) ed il segno del Pentagramma.
Si racconta che Levi, Papus, Paracelso e tanti altri esperti occultisti, mediante l’uso del Pentagramma, evocarono molte entità e compirono prodigi strabilianti. Questi maestri passati, durante i loro rituali, tracciavano nell'aria il Pentagramma principalmente con la spada, oppure con il dito indice della mano destra, od anche con il solo sguardo colmo di concentrazione e facendo vibrare nell'aere un “nome di potere”.
Essi servendosi della spada, ben sapevano, che questo strumento magico è connesso al Pentagramma, in quanto simbolo di quella luce ricollegabile al Verbo divino, alla Parola (si pensi a certe parole che tagliano come spade). Così il Pentagramma è un segnale del Volere Sovrano, forte mezzo d’azione dell’Iniziato alla vera Magia. In Esso vengono catalizzate tutte le forze interiori del Magista, in particolare la volontà, il coraggio e la fermezza. Ed è per queste proprietà che viene utilizzato nella creazione dei talismani-pentacoli più potenti dell'arte occulta; ed è sempre per lo stesso motivo, che alcuni operatori del mondo esoterico ricamano delle Stelle a cinque punte sulle loro vesti rituali . Dal punto di vista della magia cabalistica, il Pentagramma è importante per la costruzione del Pentacolo delle 50 Porte della Scienza Celeste: E. Levi ne descrive accuratamente il metodo di costruzione e fornisce le istruzioni per l'accesso alle varie porte o passaggi verso altre dimensioni, altri stati coscienziali. Sempre, secondo la Scienza magica della Cabala, questo simbolo rappresenta i quattro elementi tradizionali (fuoco, acqua, aria, terra) attivati dall’Etere, ovvero da ciò che viene descritto con svariati e molteplici nomi, quali Quintes­senza, Mercurio dei filosofi, Grande Agente Magico, Fluido Astrale, Luce Astrale, Spirito Santo, Prana e che in altri termini non è altro che il “Gran Respiro” della Divinità, ossia la sottile sorgente di ogni forza del piano materiale. L’Etere compenetra tutte le cose e tutta la materia: da esso tutto si diparte e ad esso tutto ritorna ! La punta più in alto nella Stella del Pentagramma simboleggia l’Etere (o Spirito), la punta in alto a destra dell'osservatore è l'Aria (lo stato gassoso della natura materiale), la punta in alto a sinistra è l'Acqua (lo stato liquido della materia), la punta in basso a destra è il Fuoco (lo stato della materia in combustione, la radianza della natura) ed infine la punta in basso a sinistra è la Terra (lo stato solido della materia). Si sa che ogni medaglia ha un proprio rovescio e a questa regola non sfugge neanche il Pentagramma, che possiede infatti una sua valenza negativa, il suo contrario: a tal proposito, questa figura simbolica viene disegnata nella posizione rovesciata, cioè con due punte rivolte verso l'alto, assumendo così le sembianze del demonio, la testa del caprone infernale. Il bene e l'uomo saggio si sono trasformati improvvisamente nel male, nella grande bestia, (contrassegnata dal numero 666 dell'Apocalisse), in colui che si abbandona alla concupiscenza dei cinque sensi, agli istinti primitivi e malvagi, all'animalità più brutale. Pertanto il disegno del Pentagramma capovolto è sinonimo di disordine, d’ignoranza, d’egoismo, di sconfitta dei valori morali e di vittoria del regno della materia grossolana su quello dello Spirito puro. Con questa posizione altamente deleteria si entra in sintonia con gli spiriti bassi, con le entità maligne, con i membri della fratellanza oscura, le larve astrali e tutti quelli che operano al nero. Grazie a questa ulteriore considerazione, diciamo allora che il Pentagramma è il vero ed autentico simbolo del libero arbi­trio: l'uomo infatti può scegliere la strada che gli piace di più, quella del bene (evoluzione) o quella del male (involuzio­ne), quella che canalizza le Energie Divine e fa diven­tare padroni della natura materiale, oppure quella che allontana sempre di più dagli Spiriti Celesti e così rende succubi delle entità più tenebrose. Il Libero Arbitrio, di chi si serve del giusto aspetto del Pentagramma, è lo strumento di una volontà completamente destata e consapevole; permette cioè di generare un atto volitivo iniziatico che sorge da una visione mentale ampia e radiosa. Questa libertà di scelta illuminata manifesta le potenzialità di una coscienza avanzata e così rappresenta la via del potere fattivo e consapevole, potere che viene posto al servizio del Benessere Generale. E’ il frutto dell’Anima ! Solo l'uomo che si affida alla retta fede e alla Volontà Superiore, l’uomo che ama e serve, può utilizzare al meglio le meraviglie del Pentagramma con l'apice rivolto in sù e scoprire così dentro di sé la Stella fiammeggiante, la Stella dei Magi, ciò che guida al Luogo Santo ove nasce la Divinità incarnata, il Figlio di Dio. In “Storia della Magia”, sempre E. Levi ci fa sapere che: “La Stella che conduceva gli antichi Magi è la medesima che ritroviamo in tutte le iniziazioni: per gli alchimisti è il simbolo della quintessenza; per gli occultisti è il grande arcano, per i kabbalisti è il Pentagramma sacro. La sua conoscenza dà allo spirito dell'uomo uno strumento di certezza assoluta, e alla sua volontà una potenza sovrana”. In conclusione, è possibile asserire che la conoscenza dei tanti misteri celati nel Pentagramma fa pienamente comprendere ad ogni discepolo l’esatto significato del suo ruolo nel contesto dell'intera Creazione, gli indica la missione da svolgere e portare a compimento, lo informa sul Piano Divino che è in lui e sopra di lui. Probabilmente le risposte alle tre classiche domande della Sfinge si possono trovare nella precisa comprensione della grande Verità racchiusa e protetta dal Pentagramma fiammeggiante.

Si ringrazia per questo articolo l'Associazione Studi Paranormale

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