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lunedì 27 agosto 2012

VIRGILIO, L'IMMORTALE

1.    Il poeta Virgilio tra le muse Clio e Melpomene (fonte: centrostudilaruna.it).
L’immaginario leggendario italiano, sovente, si nutre di memorie care ai tempi illustri che furono, ricamando attorno ad esse - ed all’alone di gloria vetusta che da loro ancora promana - le trame di alcune delle più strabilianti favole destinate a passare di mano in mano e di bocca in bocca nel corso dei secoli. Il Medioevo non fa certo eccezione, attingendo a piene mani dai fasti d’epoca classica ed ancor più dagli eroi di quell’età gloriosa. Ora, Virgilio non è certo un eroe in senso stretto.



Più che alla spada, infatti, la sua solida nomea si deve alla penna. Eppure, in quel terreno incerto e fecondo che la leggenda rappresenta, al poeta tocca in sorte di vedere rimodellata questa fama salvifica, sottraendosi per una volta sola alla sua stessa identità di cantore della travagliata vicenda del principe d’Ilio e fondatore della gens Julia, Enea, per divenire mago e taumaturgo, astrologo e santo profano di una città, Napoli, sul suolo della quale soggiornò a lungo in vita, e dove ancora riposano le sue ossa. Così, memore del suo prolifico passaggio, dal 1100 Napoli ricorda Virgilio celebrandone per sempre il supposto, prezioso contributo alla sistemazione del territorio urbano ed extra-urbano.

2.    Il porto di Napoli nel Medioevo (fonte: xoom.it).
Virgilio, il mago capace d’ogni astuzia per il popolo. Virgilio, il negromante aduso a patteggiare con le forze oscure pur di avvantaggiare la sua gente. Virgilio, l’immortale deceduto in un’epoca, quella classica, e tornato miracolosamente in vita nell’evo successivo, quello medievale, per sistemare gli – infiniti - guai della città. Leggenda vuole che, in gioventù, al poeta fosse inaspettatamente riuscita l’impresa delle imprese. Quella di penetrare l’imprendibile Monte Barbaro, in compagnia del fedele servo/discepolo Filomeno, per far luce sull’esistenza della misteriosa città che il monte celava, terra di stupore e di prodigi a motivo di un’altra, salvifica presenza, quella del filosofo Chironte. Raggiunto il sepolcro di quest’ultimo, Virgilio vi ritrova un magico tomo, forse il sospirato Libro del Comando che tanta fama riscuoteva in epoca medievale per le doti terribili e decisamente trascendenti che era in grado di trasmettere al suo possessore. Prelevando il volume adagiato sotto la nuca del cadavere di Chironte, Virgilio non ruba soltanto il segreto della negromanzia e delle arti magicamente oscure che tanto contribuiranno a farne un sommo mago nella leggenda partenopea. Piuttosto, si impadronisce di un lascito autentico, di un’eredità che da allora in poi lo accomunerà al miracoloso filosofo nella comune difesa di un popolo contro le avversità della natura e del fato. Sottraendo il libro di Chironte, insomma, Virgilio diventa un po’ Chironte. Solo che, invece di supportare il popolo fatato del Monte Barbaro, a lui toccherà risollevare le sorti di Napoli. Il poeta raggiungerà il suolo partenopeo da fuggiasco, dopo essere rocambolescamente evaso dalle carceri di Roma, dove era stato gettato a seguito del prometeico furto con il quale aveva privato l’Urbe del fuoco per vendicarsi d’una beffa subita. Virgilio riuscirà a disfarsi della prigionia tracciando nel cortile delle carceri la sagoma di una nave ed intimando ad alcuni suoi compagni di pena di simulare una vogata intensa, che avrà l’effetto di far sollevare l’imbarcazione fatata dal suolo e farla fluttuare in aria proprio alla volta di Napoli. Approdati in questo luogo, tutti i fuggiaschi si erano dileguati, lasciando il poeta intento a godersi la ritrovata libertà e l’amenità del luogo. Un bel posto in cui restare per qualche tempo a godersi la vita e, perché no, trarre ispirazione per la propria fervida penna. Ma la bellezza del luogo è minata dagli acquitrini che martoriano le porte dell’abitato, e che fanno affluire nelle case e nelle piazze sciami di mosche infestanti. Così, il mago costruisce una mosca d’oro puro grande quanto una rana, alla vista della quale tutti gli insetti di palude si danno alla fuga liberando l’aria della città. L’artificio è accolto con tanto entusiasmo che, una volta liberata la città dal flagello, la popolazione trasla la mosca d’oro presso il castello di Cicale, dove tuttavia il simulacro d’insetto smette di funzionare. Disfattosi delle mosche, al poeta mago tocca occuparsi delle sanguisughe, che liquida ricorrendo al medesimo stratagemma: fabbricando cioè un grosso verme dorato che poi getta nel primo pozzo disponibile, sanando così le acque. Non contento, Virgilio dà sfogo alla sua vena d’artigiano cesellando nel metallo una grossa statua equestre al cospetto della quale tutti i cavalli infermi della città riacquistano prodigiosamente la salute perduta. Eppure, la misura riesce comunque a scontentare qualcuno, visto che i maniscalchi si ritrovano senza lavoro e decidono di adottare la draconiana misura del sabotaggio. A notte fonda, si radunano al cospetto della statua e le procurano un vistoso foro nel ventre, che finisce per privarla delle sue doti taumaturgiche tanto che, nel 1322, il cavallo metallico viene fuso, utilizzandone la materia per farne le campane della Chiesa Maggiore. Non a caso, Piazza Capuana reca proprio l’emblema di un equino dorato privo di briglie.

3.    Lo stemma del Sedile di Capuana a Napoli (fonte: nobili-napoletani.it).
Nottetempo, Virgilio viene tuttavia svegliato dal canto insistente delle troppe cicale che infestano la campagna. Decide così di salvare il proprio sonno – e quello dei napoletani – progettando una cicala di rame che appende ad un tronco d’albero a mezzo di una sottile catena. Il buio torna ad essere pacifico. Ma sulla città incombe un altro influsso negativo, quello dell’Austro che, soffiando aria rovente, accelerava la decomposizione delle merci esposte nei mercati, carne in primis. Così, il mago fa appendere ai bastioni dell’arco di ingresso della piazza del Mercato Vecchio alcuni quarti di manzo. Improvvisamente, la carne fresca inizia a resistere fino a sette settimane, mentre quella salata raggiunge addirittura i tre anni. Ma neutralizzato l’Austro si fa avanti il Favonio, che fa a pezzi la vegetazione in aprile spirando dal Vesuvio folate di fumo nerissimo misto a cenere ardente che divorano alberi e coltivazioni nella Terra di Lavoro. Per battere il Favonio ed il respiro ardente della bocca dell’Inferno, il mago deve adoperarsi con tutta la sua arte. Studia gli allineamenti celesti e le congiunzioni del pianeti, ed in un preciso momento forgia una statua di rame che reca alle labbra una tromba. Investita dal Favonio, la statua filtra l’aria attraverso il suo metallico strumento dando origine ad un vento opposto che lo rende innocuo. Salvate le colture, Virgilio volge la sua attenzione alle piante medicinali. Il suolo della Terra di Lavoro è fertile, questo è vero, ma non sempre si trovano con facilità erbe e radici per farne decotti e medicamenti. Così il mago fa edificare un grande giardino ai piedi di Montevergine, nella zona compresa tra Mercogliano ed Avellino. Un giardino botanico in piena regola, magicamente accessibile soltanto a coloro che ne abbisognassero realmente, e perfettamente invisibile a tutti gli altri. A Napoli il mare è cosa seria. Ma i fondali sono troppo bassi per essere pescosi, dunque i pescatori sono in guai seri. Virgilio fa lavorare una pietra sulla quale installa un pesciolino, Pietra di Pesce la chiama, ed i banchi accorrono senza sosta. Sulla Porta Nolana fa scolpire due busti, il primo d’uomo ridente, l’altro di donna in lacrime. Chiunque varchi la porta dal primo accesso vedrà realizzarsi tutti i suoi sogni, al contrario di chi farà il suo ingresso dal secondo varco. Per esercitare gli uomini nell’uso delle armi, indice i giochi di Carbonara, simulazione lancio delle pietre e tiro con la fionda cui si abbina la lotta con mazze lignee. Si fa portare anche quattro teste di morti da lunga data, che interroga a piacimento per apprendere cosa accada nei quattro angoli del globo a beneficio del duca di Napoli. Ancora, sulla Porta Nolana appone un sigillo che libera all’istante la città da serpenti e vermi di ogni sorta. A Baia, nei pressi di Cuma, nota le acque sulfuree con virtù terapeutiche e decide subito di far costruire in questo luogo alcuni bagni pubblici – Tritula in primo luogo – decorati con iscrizioni riguardanti le virtù delle acque per migliorare la salute del popolo. Così accade, finché un gruppo di medici di Salerno non decide di sabotare la struttura e ne fa scempio. Ma la sventurata combriccola viene annientata da una tempesta marina che li coglie sulla via del ritorno. Eppure, una volta ripristinati i bagni il loro accesso da parte dei napoletani resta comunque arduo a motivo della presenza di un ripidissimo rilievo che sbarra il passo ai viandanti costringendoli ad una più che faticosa ascesa. Il mago lo fa traforare contribuendo alla nascita di Fuorigrotta. Resta ancora un’impresa, forse la più ardua e simbolica. Da anni si tenta di edificare un maniero su di uno scoglio. Castello Marino, dovrebbe chiamarsi, ma l’opera viene costantemente vanificata da crolli e mancanze di equilibrio che annullano gli sforzi dei manovali. Interviene proprio Virgilio, che con gioia si diletta a misurare il suo ingegno con quel miracolo di equilibrio che la sua arte ricollega al semplice esempio di un uovo. Il mago prende infatti un uovo, il primo deposto, lo pone in una caraffa ancora più stretta dell’uovo stesso per poi racchiudere quest’ultimo ed il suo angusto contenitore all’interno di una gabbia ferrea finemente lavorata. Poi la gabbia viene appesa con lamine anch’esse ferree ad una trave saldata per traverso alle mura di una cameretta costruita appositamente allo scopo, che riceve luce unicamente da due feritoie e da una pesante porta di metallo ermeticamente chiusa. Quella camera ed ancor più il suo contenuto vanno preservate ad ogni costo, ordina lo stregone. Perché da esse dipende la sorte del castello. Il Castello dell’Ovo. E’ l’ultima sfida di Virgilio, che in occasione di una visita a Brindisi trova la morte, la seconda ed ultima. Le sue spoglie vengono riportate in fretta a Napoli, che resiste alle infinite richieste di chi ha assistito ai prodigi del mago e vorrebbe giovarsi dei suoi poteri. Piuttosto, le ossa del poeta stregone vengono raccolte e deposte in un sacco di cuoio, presto murato proprio nel maschio partenopeo. L’unica cosa di Virgilio che lascia Napoli è, guarda caso, un grosso tomo che, all’interno del primo sepolcro del mago, gli faceva da cuscino, e che un medico inglese appartenente alla corte di Ruggiero, il normanno che regge la Sicilia, insiste per portare seco a Palermo. Il lascito continua, forse.

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati                  
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venerdì 27 luglio 2012

L'ONDINA SICILIANA

Nulla di meglio di una bella nuotata al chiaro di luna, nulla davvero per rinfrancare i muscoli e darsi un po’ di svago con gli amici. Così, il ragazzo si avvicina deciso alla sponda, calca volutamente le orme nella sabbia fina per avvertire meglio la frescura della riva. Abbandona i vestiti poco lontano dalla spuma, mentre attorno i suoi amici stanno già ruzzolando oltre i flutti, sotto l’acqua placida illuminata dal chiarore lunare che ha appena preso il posto del rosso intenso del crepuscolo. Il nuoto, adesso. Svago, certo, ma al contempo pratica sportiva obbligata ed a buon mercato per chi non può permettersi esercizi ginnici di sorta, per i figli del volgo che coi gran signori hanno davvero poco a che spartire. Allora avanti, nell’abbraccio dell’acqua scura, tra la schiuma alzata dai compagni. A lunghe bracciate, il ragazzo si allontana in fretta dalla riva, fende sicuro le acque finché non si arresta. Qualcosa non torna. Qualcosa di troppo, specialmente in quello schema semplice di mare notturno in cui i rumori si perpetuano sempre uguali a sé stessi. Un gorgoglìo alle sue spalle, forse l’indizio di uno dei suoi compagni accorsi per tirargli qualche scherzo. Il guizzo è repentino, e precede con astuzia la mossa che il ragazzo crede sia destinata a lui. Svelto di mano e di nervi, si china nell’acqua in cerca della testa dell’assalitore, le mani che brancolano nell’oscurità fino ad aggrapparsi a qualcosa di vivo. Una chioma. Ma sono capelli troppo lunghi per appartenere ai compagni. Eppure, ormai la presa è salda. Meglio approfittarne e vederci chiaro, dunque. Sott’acqua nuovamente, e via in tutta fretta verso la riva, verso l’aria e la luce lunare. Una donna. E docile, tutto sommato. Tanto da seguirlo spontaneamente e senza fare una piega fuori dal mare. Bellissima. Muta. Il giovane, vinto dall’avvenenza della sua preda, consuma tante, troppe parole rivolgendosi a lei. Le chiede chi sia, da dove venga e cosa faccia sola a quell’ora di notte in mare. A poco vale il conforto del mantello che il ragazzo dispiega sulle sue spalle tremanti. Consumano in fretta la strada verso la casa del nuotatore, abbracciati nella nebbia debole che sale dal litorale. Sull’uscio il ragazzo ritrova la madre in attesa, le affida la sconosciuta affinché venga accudita, consolata, abbigliata con le vesti più degne della sua insolita bellezza. Grata e cortese, la naufraga occupa una povera sedia, al centro tra il ragazzo e la madre. Grata, cortese e tuttavia muta alle risposte dei due come di tutti coloro che transitavano per la capanna, e che invano le chiedevano lumi. Tutt’al più accennava risposte coi segni ad alcune domande, ma mai disse nulla circa la sua famiglia, la patria che aveva lasciato dietro di sé o la cagione del suo raggiungere quella contrada. Estranea, eppure familiare a tutto ciò che le accadeva intorno in un’abitazione non sua in cui però agiva e viveva da consanguinea, tanto amichevole e devota agli usi del paese da annuire con soddisfazione se interrogata sulla sua fede nel Dio dei Cristiani. Passavano i giorni e cresceva la familiarità, al punto che alcuni si arrischiarono a chiederle se non avesse maturato intenzione di coronare l’amore che il giovane ormai provava senza timore per lei sposandolo. La naufraga chinò il capo in segno di assenso, e posò la mano in quella del suo raggiante pescatore. A giorni, anche la madre del giovane prese in considerazione la cosa, ed inaugurò i preparativi solenni informando tutto il villaggio, convocando il prete che in chiesa benedisse l’unione tra il ragazzo e la sua muta – e priva di dote - consorte. I due si amarono teneramente nei giorni, sempre più felici della loro nuova vita insieme. A coronamento dell’unione, la donna concepì e diede alla luce un figlio, che curava con smisurato amore non allontanandolo mai dal suo grembo. Lo allattava, lo lavava, lo fasciava con tenerezza inaudita, mentre il suo cuore di mamma si gonfiava giorno dopo giorno. In occasione di una innocua passeggiata, il padre tenne una singolare conversazione con un amico, che si era fatto preciso dovere di informarlo di come, a suo parere, quella strana sposa apparsa dal nulla, senza passato e senza favella, più che una donna potesse essere una creatura stregata. L’uomo rigettò con convinzione le parole del compagno, ma non riuscì a non ripensare a quando, poco prima delle nozze, il vescovo in persona lo avesse fatto convocare per manifestargli le sue ecclesiastiche perplessità circa quella strana femmina venuta dal mare. Assediato nuovamente dal medesimo ordine di dubbi, il giovane ormai padre iniziò ad assistere al tracollo della sua convinzione un tempo granitica circa quell’unione che tutti attorno a lui giudicavano infausta. Sotto pressione ed attanagliato da un soffocante velo d’ansia, mutò la sua natura divenendo cupo e taciturno, offuscato nella gioia di vivere da quel sospetto che con dovizia di tarlo gli rodeva insistentemente l’anima. Ritrovato l’amico che lo aveva indirizzato lungo la via del dubbio, i due orchestrarono un piano. Rientrato in casa, l’uomo avrebbe sguainato la spada di fronte alla moglie ed al bambino, minacciando apertamente la prima che, se non gli avesse rivelato la verità occultata, egli avrebbe reciso la vita del frutto del loro amore. Così l’uomo fece. La sua sposa indietreggiò, madida di sudore e di paura, ma non aprì bocca finché non vide la lama avvicinarsi alle carni del bambino. Fu allora che ruppe il suo lungo silenzio. “Oh misero!” disse alla sposo livido, “costringendomi a parlare perdi una sposa preziosa.” Ed in lacrime aggiunse amara “sarei rimasta con te ed avrei continuato a farti del bene, se solo mi avessi permesso di osservare il silenzio che mi è stato imposto. Ecco, ora ti parlo perché mi costringi, ma dopo avermi udita non mi vedrai mai più.” Così parlò la naufraga del mistero, per poi scomparire mentre l’uomo cadeva in ginocchio, vinto dal terrore del gesto malvagio che aveva messo in atto. I giorni passarono, ed il fanciullo ebbe una vita ed un’infanzia proprio come tutti i bambini del suo villaggio. Eppure, di quando in quando, lo trovavano a girovagare lungo la riva del mare. Proprio nei pressi del tratto in cui anni prima era stata rivenuta la madre ora sparita. Giochi di bambini, pensavano tutti, usuali in un borgo affacciato sull’acqua. Ma un dannato giorno d’estate, durante una delle sue gite, il bambino entrò in acqua per un bagno. Fece appena qualche passo lontano dalla riva, prima che due braccia di donna gli cingessero la vita e lo trascinassero giù , verso il fondo del Mare di Sicilia, nel regno da cui la sua stregata madre proveniva ed ove ora proprio lei rivendicava il suo ruolo di genitrice occulta. Nessuno lo vide mai più, nemmeno il padre, rimasto ormai solo con i cocci dei suoi sogni di cristallo, impossibili da riparare. Una storia leggendaria, non c’è dubbio. La leggenda dell’Ondina Siciliana.
Undine, olio su tela di John William Waterhouse, 1872 (fonte: wikipedia.org).



















Neanche tanto dissimile da miti affini di demoni femminili come quelli di melusiniana memoria. Fantasia. Vezzo. O almeno così sembra, visto che c’è chi giura che sia accaduto realmente, in terra di Sicilia. E’ Goffredo di Auxerre, abate di Chiaravalle e sodale del ben noto Bernardo, che si prende la briga di riportare questa vicenda, testimoniata da un suo amico religioso al seguito della corte di Re Ruggiero, tra le pagine del suo Super Apocalypsim.
L’Abbazia di Chiaravalle, nei pressi di Milano (fonte: giudittadembech.it).















E’misteriosa, la cronaca della fata-demone, perché riporta una variante insolita del mostro teriomorfo femminile per eccellenza. Sirena. In greco sýrô, attraggo, e seiràô, incateno. Nell’ebraico antico sir o scir, canto. Un frammento vivente di mitologia dei popoli, rispetto alla macro-famiglia delle quali, quella delle ondine va tenuta in assoluto conto per i legami solidi con il regno degli elementari d’acqua tanto caro al principe degli alchimisti, lo svizzero Paracelso.
Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, detto Paracelsus o Paracelso (fonte: wikipedia.org).
















Affini alle fate, eppure prive d’anima e dunque destinate a restare fuori dai cancelli del Paradiso dopo il trapasso, guadagnano redenzione e pietà divina solo catturando l’amore di un uomo, portandolo all’altare, generando un figlio. Comunemente diffuse nei laghi, nelle acque di foresta e nelle cascate, non disdegnano però di adattarsi al mare, come nel nostro caso siciliano. Hanno voci sopraffine. Tanto soprannaturali da doverle occultare (insieme alla loro stessa magica origine) ai mortali, troppo sciocchi per poterle contemplare. Tanto sottili, ancora, da poterle confondere a piacimento col tenue scrosciare dell’acqua. Sanno essere crudeli oltre ogni dire, catturando così saldamente l’attenzione degli uomini da condurli all’inebetimento ed alla morte, proprio come le sirene omeriche e l’insidiosa Lorelei del Reno. Ma possono alle volte essere gentili, come insegna il Nibelungenlied nel quale i Burgundi vengono avvisati dalle ondine stesse, mentre valicano il Danubio, della pericolosità del viaggio che hanno intrapreso. Sta proprio in questo la loro natura più radicale e peculiare. Vaticinatrici infallibili, e come tali capaci di portare con sé il peso delle sovente oscure profezie che, nel loro essere creature soprannaturali in cerca di un riscatto per l’anima diafana capitata loro in sorte, si sforzano di custodire fino all’amaro epilogo.

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati

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giovedì 12 luglio 2012

ER GREVETTO DE LI MONTI

Un'antica mappa del Rione I – Montes (fonte: romeartlover.it).
Sciolti di parola ed altrettanto svelti di lama. Perché questo richiede la vita che si vive lungo i vicoli, negli anfratti e nei recessi luridi in cui i nobili non mettono mai piede. Quelli sono per il popolo, per i poveracci, per i disperati che non hanno un futuro. Per chi si arrangia a campare come può, a limitare al massimo i danni che la vita gli mette sulla strada. Per chi, ancora, ha voluto o dovuto varcare la linea sottile che distingue l’uomo per bene, rispettoso ed osservante della legge, dai gentiluomini di fortuna, dai duri, dai grevi, come si dice a Roma. Dagli attaccabrighe coraggiosi e strafottenti proprio come Nino. Robusto quanto basta per lavorare da uomo di fatica, da spallone, da facchino. Cresciuto in fretta in Monti. Nato e morto Monticiano, in quel fazzoletto di Roma che prende a prestito il nome dall’inclusione dell’Esquilino e del Viminale, del Celio e perfino di una buona parte del Quirinale.


















Il rione dei rilievi, insomma, un tempo tra i più estesi della città e che, ad oggi, risulta invece aver perduto porzioni ingenti di territorio e d’anima. Ormai Monti non ha più nulla a che fare col Quirinale, e lo stesso può dirsi della zona di Castro Pretorio e del Celio. Frammenti dell’Urbe che non gli appartengono più, e che della loro presenza hanno lasciato traccia solo nel nome del quartiere. Quello sì è rimasto, ad imperitura memoria di quello che in un tempo lontanissimo il rione di Nino ha rappresentato. Monti. Zona affollatissima già in epoca romana, se solo si considera come la parte più alta del rione, quella che promanava dalle Terme di Diocleziano e che corrisponde all’odierna Via Urbana, fosse costituita dal Vicus Patricius costellato di domus signorili. Eppure, l’aria più autentica si respirava nell’altra parte, quella bassa dei pantani in cui brancolavano le torme inesauste di plebei. La Suburra che si riempiva il petto dei legni marci delle locande più  malfamate e dei postriboli più a buon mercato. Più oltre, a segnare l’accesso alla valle distesa tra Campidoglio e Palatino in cui si aprivano i Fori Imperiali, una possente muraglia in pietra gabina fungeva al contempo da quinta architettonica al Foro Augusteo e da argine alle fiamme dei frequenti quanto famelici incendi che, troppo spesso, finivano per divorare gli effimeri edifici lignei della zona popolare. Eppure, tutto sommato in Monti si stava ancora bene. Col Medioevo - ed il danneggiamento irreversibile degli acquedotti di romana fattura che a quell’epoca risale – accadde l’irreparabile. Venute meno le condotte idriche predisposte dai Cesari, le asperità del terreno ebbero la meglio sull’approvvigionamento idrico. Così, buona parte della popolazione residente fu costretta a muovere sul limitrofo Campo Marzio, trovando sollievo e soprattutto acqua nella pianura a valle dei colli ormai riarsi, complice la prossimità di un Tevere allora come non mai potabile. A Monti non rimase che la fama di zona ideale per vigne ed orti, scarsamente popolata perché tutto sommato disagevole per chi avesse desiderato insediarvisi in pianta stabile e sommamente distante dal Vaticano che in epoca medievale aveva surclassato e sostituito i fori quale centro pulsante della vita cittadina. Pochi resistevano. Pochi affezionati coltivatori. Pochi monaci e sacerdoti destinati ad officiare nelle basiliche di San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, queste ultime ancora mèta agognata di torme di pellegrini provenienti da ogni dove. Eppure, sottratti i contadini ed il clero locale dal conteggio complessivo, dal Medioevo in poi la popolazione dei Monti assommava ad un numero non certo impressionate. Un microcosmo in eterna e spesso cruenta lotta col rione vicino, il Trastevere, e tanto isolato ed autosufficiente da crearsi nel corso dei secoli un’identità separata, e perfino un dialetto unico, il Monticiano, differente rispetto a quello parlato altrove nell’Urbe. Un vernacolo da vicolo e da schermaglia, per la precisione, proprio come quello parlato dal bel Nino, il Grevetto de li Monti.
Meo Patacca, cavallaro di Trastevere e Greve per antonomasia (fonte: wikipedia.org).



















Bullo nel senso esatto del termine tedesco bühle da cui questa realtà deriva. Amatore, amante, ganzo piuttosto che arrogante, violento, teppista. Perché il bullo nato tra i vicoli della Roma medievale, più che un personaggio da operetta o un semplice reietto della piccola mala locale, è un fenomeno di affermazione personale e di supremazia sul branco priva di fini loschi o di sciocche velleità di lucro. Il bullo possiede un carisma forte, e decide pur narcisisticamente di piegare questo suo ascendente magnetico in favore della collettività del rione. E’ esibizionista, certo, perché va in cerca di occasioni per ostentare il suo dominio in netta e perenne competizione con chi condivide con lui quell’estro selvaggio, quella volontà di essere omo de panza che divide i cristiani dell’Urbe ed assegna ad ogni rione il suo Greve, uomo di nomea, d’onore, e di parola soprattutto. Coraggioso sempre, e sempre incapace di ritrarsi di fronte ad una lama o ad una sfida. Guascone, certo, spavaldo, sicuro, e proprio per questo perfettamente a suo agio nel rione, dove il bullo si fa rispettare perché è compito, perché può permettersi di declamare lentamente e con austerità. Lasciando scivolare le sue terribili minacce sotto toni tutto sommato pacati ma fermi. E’ questo lo stile del bravo. Sono questi i risoluti modi di un genio manesco. Di un bullo, di un capoccia di rione. Proprio come Nino er Monticiano. Da sempre, uomo d’onore e di lama, certo. E da sempre innamorato di Clementina, passione trasteverina che si trovava a condividere suo malgrado con un omone avvezzo come lui alla fatica, un trasportatore di merci su chiatta fluviale che per questo era divenuto suo nemico mortale. Massiccione, quest’ultimo, come i suoi due altrettanto imponenti fratelli minori. Clementina, a dirla tutta, non aveva occhi che per Nino. Ma tutto questo ai Massiccioni poco importava. Quelli, in realtà, si limitavano ad attendere, che tanto prima o poi il destino gli avrebbe messo in mano la carta giusta. Un brutto giorno Nino e Clementina litigarono, e furiosamente. Per puntiglio, Nino giunse a lasciare la sua donna e lei, per ricambiare l’affronto, volò dritta dritta tra le possenti braccia del barcaiolo. Nino seppe tutto in fretta, che tanto le voci nei rioni si propagano a dismisura. Ma da bravo omo de panza rimaneva troppo orgoglioso per chiedere a Clementina di tornare sui suoi passi. Eppure, il Grevetto seguitava a trascinarsi nelle sue lunghe serate solitarie per Trastevere, sperando in cuor suo di incontrarla nuovamente. Una sera come tante era in Vicolo del Moro, bighellonava come sempre riverito dal popolino che lo riconosceva a naso e per fama. Finché, nello svoltare un angolo, la sua attenzione di animale da preda non finì per captare qualcosa che non andava. Un movimento brusco di troppo, un gemito che non doveva essere. Poco distante, in un cantuccio della strada, stava l’imponente Massiccione, che menava fendenti con le pesanti mani su un corpicino ben più esile, rannicchiato quasi in terra. Quella era Clementina. E non c’era un minuto da perdere. Il tempo di tirare su le maniche della camicia e Nino diede sfogo a quella rabbia sorda che aveva fino a quel momento stupidamente covato e controllato. Al Massiccione piovve addosso una massicciata di pugni e schiaffi che lo scaraventò in terra, fiaccandone poi le reni a forza di calci. La furia era tanta che più Nino picchiava e meno si sentiva stanco. Poi tornò in sé, richiamato da un mugolìo che si faceva sempre più alto nella sua testa e che lo riportava lentamente alla vita, al buio della sera in Trastevere, al puzzo che albergava nei recessi di Vicolo del Moro. Era ancora Clementina, che piangeva e si lamentava per lo spavento. Il Massiccione non era più cosciente. Riverso in terra, malconcio, continuava a prenderle come un pupo di pezza. Finché Nino non smise, si riebbe, iniziò la fuga per evitare gli sbirri che, ne era sicuro, erano già per la via. Non passò che una settimana, inerte e lunga senza vedere il viso dell’amata, che Nino, svoltando l’angolo che divide Via della Polveriera da Via Eudossiana, gli si fecero incontro tre ombre scure che gli sbarrarono il passo. Senza giacche, con la sola camicia che, all’uso popolare romano, si mostrava prima dei regolamenti di conti. Un sospetto del quale Nino ricevette presto conferma, notando le tre lame che scintillavano nell’ombra. Uno dei tre zoppicava ancora. Era il Massiccione del quale aveva avuto ragione in Trastevere, coi suoi fratelli e compagni di mattanza. Radunati per fargli la festa. Nino prese la fuga, ma fatti pochi passi ricordò chi era e cosa gli si imponeva di fare. Un Grevetto non fugge, mai. E allora di corsa verso San Pietro in Vincoli, scartando la via di quel tanto che bastava per acquattarsi ed attendere nell’ombra l’arrivo dei suoi inseguitori. Frugò nella tasca, e ritrovò al sicuro, avvolto nel fazzoletto che sua madre gli aveva spruzzato di colonia, il ferro che, qualche tempo prima, gli era stato donato dalla sua Clementina. Un segno d’onore per il pegno d’onore della verginità perduta, complice la luna ed un bicchiere di troppo. Nino era pronto alla battaglia. E sapeva che non sarebbe stata cosa da poco. Ma se la giocò comunque, ed al meglio della sua astuzia di Greve. Malconcio, ferito e barcollante, poco meno di mezzora dopo caracollava verso il porto di Ripetta, la lama lorda del sangue dei tre nemici che ormai dormivano un sonno di morte per mano sua. Stavolta, la voce della rissa sarebbe corsa ancora più in fretta delle sue gambe di ragazzo di strada. Stavolta ci era scappato il morto, e gli sbirri non si sarebbero certo fatti attendere. Ma al porto aveva ancora una possibilità. Un amico barcarolo che, forse, avrebbe potuto aiutarlo ad allontanarsi più in fretta. L’amico alla fine si dimostrò tale, e lo condusse rapidamente fuori dai confini dell’Urbe e dalle grinfie di chi lo cercava furiosamente. Per lui fu la latitanza. Un oblio di mesi cui tuttavia Nino alla fine decise di sottrarsi, riguadagnando le porte della sua città e, soprattutto, del suo rione. Un giorno, passeggiando con cautela lungo il Tevere, udì alte grida provenire dai flutti. Affacciatosi, notò una donna che annaspava e si catapultò in acqua, procedendo al salvamento che il suo radicato senso dell’onore imponeva. Raggiunse la donna e la trascinò a riva. Era bella, molto bella, anche sconvolta dallo scampato terrore e dalla fatica accumulata per restare sul pelo dell’acqua e non farsi inghiottire dalla corrente. Riavutasi dallo spavento, ringraziò lungamente il sui salvatore e prese a conversare con lui mentre entrambi cercavano di asciugarsi al sole. Vuoi per ingannare l’attesa, vuoi per i mesi passati a nascondersi, vuoi per l’adrenalina, Nino, debitamente interrogato su chi fosse, vuotò il doloroso sacco della sua vita di Grevetto. Fu uno sfogo amaro e profondo il suo, che malediceva quell’amore indegno ed ingrato e, di contro, magnificava i suoi slanci di coraggio ed astuzia. La donna, intanto, lo ascoltava in perfetto silenzio. Quando Nino finì di raccontare le sue traversie, la donna mise mano ad un sacchetto che recava alla cintura, ne estrasse delle monete che regalò al suo salvatore e, prima di accomiatarsi da lui, gli fece promettere che si sarebbero rivisti alla mezzanotte presso la Chiesa di Sant'Agata dei Goti. Nino acconsentì e la bella sconosciuta fu libera di allontanarsi. Lasciò nel Grevetto una strana smania, che il ragazzo non avvertiva da lungo tempo. Era voglia di rivederla, la stessa molla che lo spinse a trovarsi di fronte alla canonica nell’orario prestabilito. Era buio fitto, e la zona era ovviamente silente a quell’ora di notte. Nonostante il tempo trascorresse e la donna non si presentasse, Nino restò come inchiodato al suolo. Attendeva invano di poter risvegliare quella fiammella di speranza d’amore, da lungo tempo sopita nel suo cuore blindato d’onore. Alla fine si appisolò appoggiato ad un muro, sicuro che sarebbe stato risvegliato dalla sue bella sconosciuta. Invece, lo sgomento ebbe la meglio sulle sue forze di bravo di strada quando il suo narcolettico attendere venne infranto dagli scossoni degli sbirri, che giunsero in forze sul luogo e lo trascinarono in galera. Così finiva la storia di Nino il bullo, nato e morto Monticiano. Er Grevetto de li Monti.
Lo stemma del Rione Monti (fonte: wikipedia.org).


















Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati




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martedì 26 giugno 2012

UOMINI SELVATICI NEL FOLKLORE ITALIANO


In principio era Enkidu. Il selvaggio per eccellenza, generato dagli déi per esaudire le preghiere del popolo di Uruk, Mesopotamia, vessato dallo stillicidio di esercizi guerreschi imposti dal tiranno che reggeva la città, il semidivo Gilgamesh. Il regolamento dei conti tra i due si consuma durante la festa di Ishkarra, ed è una lotta selvaggia e senza quartiere quella dell’uomo contro la bestia. Nessuno prevale, ed anzi il tiranno resta fortemente impressionato dal bellicoso valore del suo avversario. Tanto da deporre le armi e stringere con lui un patto solenne di amicizia. D’ora in poi si batteranno insieme, spalla contro spalla, e l’occasione propizia arriva praticamente subito. Poco fuori dalla città si apre una scura foresta di cedri. Quei tronchi farebbero proprio al caso loro, visto che ad Uruk il legname serve come il pane. Ma a guardia del pregiato bosco sta in agguato Khubaba. Lui sì, mostro assoluto. I due si incamminano per i sentieri della macchia, scovano il legno migliore ed iniziano a tagliarlo. Ma Khubaba si palesa ed attacca. Uniti, Gilgamesh ed Enkidu prevalgono. Tornano ad Uruk insieme al bottino della vittoria, e qui celebrano un trionfo tanto splendente da far sì che perfino la dea Ishtar proponga al semidivo di farle da sposo. Gilgamesh conosce bene la crudele volubilità della dea, ed oppone il suo netto rifiuto che scatena la collera di Ishtar sotto forma del Toro celeste Humbaba, proditoriamente sguinzagliato per procurare strage nei vicoli della città. Sulla strada del Toro si pone Enkidu, ma invano. Così, il selvaggio ritenta insieme al suo alleato. Preso per la coda, l’animale furioso viene infine abbattuto da un fendente di Gilgamesh che lo raggiunge nel mezzo del cranio, stramazzandolo a terra. Ancora una volta è la vittoria, ma il sorriso si spegne presto perché gli dèi decretano la malattia e la morte di Enkidu, insegnando a Gilgamesh per la prima volta nella sua vita d’eroe il significato dell’afflizione. Un dolore incolmabile per la scomparsa di quel sodale tanto diverso eppure tanto necessario. Perché dietro - e dentro - Enkidu sta lo spirito autentico dell’essere selvatico, dell’umano che non ha ancora reciso totalmente il suo legame con la terra e con il retaggio animalesco. Anzi, dell’uomo senza umanità. Enkidu è l’archetipo di tutto questo.
Gilgamesh ed Enkidu domano il Toro celeste (fonte: gwthomas.org).
Ed inaugura un ciclo destinato a durare nei secoli. Quello composto dalle irruzioni dell’inatteso, dell’estraneo, del non civilizzato nell’ordine costituito delle cose. Quello, ancora, che prende le forme e le sembianze degli innumerevoli uomini selvatici capaci, sotto differenti nomi, identità, particolarità, di popolare nei secoli le leggende italiane e non solo. Cös è un modesto paese da poco più di 5mila abitanti nel bel mezzo della Valtellina che avvolge la provincia di Sondrio. Una delle sue frazioni, proprio all’inizio della Val Gerola, si chiama Sacco ed ospita una vetusta abitazione di notai in cui è custodito un meraviglioso spaccato di come si viveva in terra orobica in pieno Quattrocento. La sala principale del palazzetto reca ancora i segni del suo ultimo utilizzo da fienile, che ha in buona parte leso gli intonaci delle pareti che un tempo ornavano le camere picte a decorazioni floreali e cartigli con proverbi in voga o sacre preghiere. Eppure, sui muri si intravedono ancora alcune nette figure. Una grande raffigurazione della Pietà. Un caritatevole San Bernardo presso cui sta, solennemente inginocchiato in atto di imperitura devozione, il committente dell’opera. L’architrave decorato con i tre Volti Sacri. Un cacciatore. E, in bella mostra nonostante la particolarità del soggetto, un uomo completamente nudo ad eccezione dei folti peli che ne ricoprono l’intero corpo, che brandisce una clava lignea e, in perfetta sintonia con le dinamiche proprie di una striscia comica, presenta un fumetto che gli fuoriesce dalle labbra e recita: Ego sonto un homo salvadego per natura,  chi me ofende ge fo pagura. Io sono un uomo selvatico di natura, a chi mi offende faccio paura.
L'uomo selvatico di Sacco (fonte: wordpress.com).
Un semplice spauracchio, verrebbe da pensare. Buono per spaventare gli sciocchi e gli irrispettosi, o magari per far paura ai bambini. Eppure, l’uomo selvatico erede del mediorientale Enkidu è ben più di questo. Anzitutto, si tratta di una narrazione che, come anticipato, ha finito per diffondersi a macchia d’olio. Oltre il folklore alpino valtellinese, certo, in una varietà tale di declinazioni che verrebbe da ipotizzare – e c’è già stato chi l’ha fatto esplicitamente – che più che di leggende su di un fiabesco uomo selvatico si tratti di frammenti di memoria legata alla presenza effettiva di ominidi cresciuti e vissuti accanto ed al di fuori dalla nostra civiltà. Proprio come Enkidu, decisamente altro sia rispetto al re Gilgamesh che, soprattutto, nei confronti dell’ordine sociale stesso di Uruk. E allora, largo all’ommo sarvadzo valdostano, ed al salvanel della Valsugana. Ma anche al salvan della Val Gardena o all’umìn selvàdich. Alle foulatones, al gigiat, al massaruò ed al sarvanot. Ai salvanelli – o sanguinelli – ed al bilmon, ai salvanchi, al mazzarol, all’om salvei ed alle sterminate fila delle anguane. Alla salvaria e addirittura al trittico composto dall’om dal bosch, dalla femena del bosk e dal bagon (figlio) del bosk. O all’om salvarek, ai crapòn, ai brüt. Lucca, Biella, Massa, Bellino e le Valli Valdesi. Il Cadore ed il cuneese, il Trentino e la Val Brembana, Sondrio, Ferrara, Mantova e perfino Milano e Venezia. Ovunque sembra esistere un uomo selvatico, alle volte imponente e minaccioso, in altri casi di dimensioni ben più contenute rispetto ad un comune essere umano.
Una delle tante rappresentazioni del selvaggio giunte sino a noi (fonte: nerocafe.net).
Per metà bestia, per metà folletto, mantiene saldo nella pelliccia che lo ricopre da capo a piedi e gli rende totalmente accessorio l’utilizzo di abiti di qualsiasi sorta quel legame ancestrale che vincola l’uomo con la terra, gli elementi, la semplicità dei cicli naturali. Così, sovente appare ingenuo e semplice nei modi e nel pensiero. Ma al contempo anche superiore all’uomo civilizzato in quelle attività che presuppongono un dialogo diretto e profondo con la natura. Gran maestro dell’arte casearia, nella maggior parte delle leggende giunte sino a noi è l’indiscusso detentore del sapere delle baite, e per questo insegna agli uomini a fare il burro ed il formaggio, disvelando l’uno dopo l’altro quasi tutti i suoi segreti. Quasi, perché un altro elemento comune alla totalità dei racconti popolari sul selvaggio per eccellenza è che la missione dell’uomo dei boschi non giunge mai a compimento. Lascia sempre dietro di sé un ultimo segreto, il più delle volte perché turbato dalla grettezza e dallo scherno dei suoi più civilizzati apprendisti. Ma i mezzi poco rispettosi, a volte, rappresentano anche la modalità d’elezione per estorcere all’Enkidu nostrano la sua saggezza. E allora l’uomo selvatico viene fatto ubriacare finché non confessa la sua arte segreta, ed a volte ci lascia perfino la pelle. E’ un’esperienza, la sua, che non si limita all’arte casearia ma abbraccia infinite conoscenze pratiche legate alla vita campestre. Guarisce il bestiame e lo accudisce scegliendo i pascoli migliori. Riconosce le erbe medicamentose ed insegna ad estrarne decotti prodigiosi. Sa perfino lavorare il ferro, ed all’occorrenza supporta i contadini chini sulle sementi. E’ una fiducia antica, quella che spinge il selvatico a confidare le sue eccellenti nozioni agli umani. Una fiducia semplice e genuina che, proprio per questo suo carattere ancestrale ed ancestralmente trasparente, finisce per essere tradita. Sempre. Ed è qui, nel tradimento del sapere puro portato dal selvaggio, che si consuma lo scarto più maestoso e definitivo tra l’impietosa, doppia modernità ed il passato ormai al tramonto. Il baratro che si va aprendo ed ampliando a dismisura tra chi è troppo occupato, come noi, a curarsi di un presente frenetico e l’Altro che, proprio come si faceva un tempo, riusciva a mantenere un filosofico distacco ed un’astrazione tale da concepire l’oggi come una parentesi effimera destinata a lasciar presto il passo al domani. Come s’allegra e canta l’uom salvatico Quand’il mal tempo tempestoso vede Sperando nello buono, ond’egli è pratico. Scrive Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo del 1367. Gli fa eco addirittura il Boiardo, che nella sesta ottava del canto XXIII del primo libro dell’Orlando innamorato: E dicesi ch’egli ha cotal natura, Che sempre piange, quando è il cel sereno, Perché egli ha del mal tempo alor paura, E che ‘l caldo del sol li vegna meno; Ma quando pioggia e vento il cel saetta, Alor sta lieto, ché ‘l bon tempo aspetta. Tale è la filosofia dell’uomo selvatico. Ridere del brutto tempo perché presto tornerà il sereno, ed al contempo disperarsi per il sole che prelude alle perturbazioni. Pacifico per definizione, si imbatte invariabilmente nelle derisioni sciocche degli umani, che ne provocano infine la fuga ed il definitivo distacco dal mondo civile, popolato da quei simili remoti che tanto lo affascinano. Alle volte ride e balla sguaiatamente. Talora giunge a vestire i panni più propri del trickster, del folletto (non mancano le storielle che lo vedono addirittura abbigliato di stoffa rossa, e dunque imparentato al Piccolo Popolo) o comunque dello spirito goliardico e combina guai, capace di giocare tiri pesanti ma mai inopportuni come un novello e ridimensionato poltergeist di carne e pelo. Solitario per vocazione quando non per destino, anche nei rari casi in cui cerca la compagnia e massimamente l’affetto degli umani finisce sempre per pentirsi dell’unione impropria, e fuggire a gambe levate. Oggi, dopo tante cocenti delusioni ed altrettante repentine fughe, dell’uomo selvatico non restano neanche le orme diafane nel folto dei boschi. Altre tracce, quelle del suo passaggio di meteora mitica nella società contadina di un tempo, resistono ancora per chi sa vederle. Nel Biellese, in valle d’Andorno ed a poca distanza dal Lago della Vecchia, gli anziani indicano ancora una grotta oscura e dimenticata. E’ lo Speco dell’Uomo Selvatico. In alta Venosta, a Prevano, c’è il Sasso dell’Uomo Selvatico. La Tana dell’Uomo Selvatico spunta invece nel bel mezzo delle Alpi Apuane. A Melle si apre il Pertus dal Sarvanòt. Nella Val Ala, in località Chiampernotto, con un po’ di fortuna si trova il Bric del Selvatico, e sopra Cagnò, in Trentino, c’è il Bus del Salvanel. E la memoria del nostro Enkidu non resta confinata fuori dagli abitati. A Chiavenna si trova una via dell’Homo Selvatico. Vicino a Piazza San Marco, c’è la veneziana Calle Drio al Salvadego. Ed ancora, a Milano aveva aperto i battenti un’antica Osteria dell’Uomo Selvatico che, dopo la chiusura, è stata riaperta in altra sede come Trattoria dell’Uomo Selvatico. A Tirano, in provincia di Sondrio, la Porta Poschiavina fu abbellita dai dipinti (oggi assai rovinati) di due Salvanchi di pelo rossiccio, ciascuno munito dell’ovvio bastone ligneo. Se il primo fu con qualche sforzo accostato all’immagine di un’eremita, seppur pesantemente trascurato, l’altro incarnava a perfezione lo standard del salvadego. Oneta di San Giovanni Bianco, in Val Brembana, è invece conosciuta ai più perché ospita la cosiddetta Casa di Arlecchino, recante su di una parete l’immagine canonica del selvatico munito di clava, ed impreziosito dall’iscrizione:   Chi no e de chortesia non intragi in chasa mia se ge venes un polteron [poltrone] ce daro col mio baston. E’ ingombrante, la presenza dell’ominide delle selve. Ovunque spuntano come funghi le leggende e gli affreschi, le statue e perfino le maschere carnevalesche che ci riconsegnano la sua tradizionale immagine.
Un bozzetto di uomo selvatico munito dell'immancabile clava (fonte: storiadimilano.it).
Con un retaggio così profondo alle spalle, si fa davvero fatica e relegarlo nella sfera della fiaba, dell’invenzione, dell’evasione mitica dai canoni della realtà. Anche sforzandosi di separare il genuino dall’abbaglio – è il caso degli innumerevoli casi che le cronache storiche hanno documentato dipingendo la meraviglia di una società intera inconsapevole dell’esistenza di patologie quali l’ipertricosi – il dubbio rimane. A Genova, secondo quanto riportato dal naturalista e teologo svizzero Conrad Von Gesner, nel 1548 l’arciduca d’Austria Filippo portò con sé, oltre ad una sirena morta (!) ben due satiri, l’uno adulto e l’altro ancora giovane. Il naturalista Ulisse Aldrovandi cita invece il caso di una donna che, reduce da un viaggio all’estero, aveva portato seco una bambina di otto anni completamente ricoperta di pelo. La figlia di un uomo, anch’egli silvestre, originario delle Isole Canarie. Nel 1871, invece, le strade di Como erano imbrattate dai manifesti del Gran Serraglio Milanese, un’esotica esposizione itinerante di animali vari tra i quali uno stupefacente uomo selvatico, vivente anello di congiunzione tra la razza umana e la schiera delle scimmie. Evidenti casi di ipertricosi, come è ovvio supporre. Eppure, anche eliminando dalla casistica questo nutrito novero di vicende, ad oggi non sono poche le menzioni che, da ogni angolo di mondo, resocontano avvistamenti, incontri e rinvenimento di tracce di varia natura che condurrebbero a supporre l’esistenza di una specie Altra. Destinata dall’alba dei tempi – o forse dallo scherno che la nostra ottusa civiltà ha eretto a difesa da ciò che risulta radicalmente differente dai canoni più diffusi di normalità – a vivere accanto ed al di fuori dell’ufficiale civilizzazione. Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati
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venerdì 15 giugno 2012

LA QUERCIA DEL MORTO

Una quercia (fonte: wikipedia.org).

Nel Medioevo romano sono tante le bande di briganti che imperversano funestando le strade. Quella da cui parte questa leggenda è un vero e proprio manipolo di manigoldi. Cinque in tutto. Spietati e senza legge. Senza paura, senza requie. Assassini privi di qualsiasi residuo di coscienza. Perduti, tutti tranne uno. Che nonostante avesse dimenticato la fede e le preghiere principali, usava recitare almeno un De Profundis ogni volta che, in strada, si imbatteva in una processione funebre. Un giorno la banda fece il gran colpo, quello che poteva sistemare tutti quanti. Ma cinque parti erano troppe, e presto i quattro senza Dio si accordarono tra loro per far fuori il loro strano compagno. Che era nato ladro come loro, e come loro era presto divenuto assassino, ma che almeno aveva mantenuto saldo quel singolare - e per loro insensato - rispetto per la morte e per i trapassati. L'uomo non era poi così stolto, ed ebbe buon gioco nell'accorgersi dell'inganno, intercettando le mezze parole e le occhiate furtive che i suoi falsi compagni aveva preso a scambiarsi all’approcciarsi della data in cui, finalmente, gli avrebbero fatto la festa. Così, una mattina prese la via prima ancora che il gallo iniziasse a cantare, e prese a correre nella notte morente insieme al suo cavallo. Sempre più in fretta, consumando miglia e miglia senza sosta per mettere tra sé ed il resto dei suoi sinistri sodali almeno quel poco di strada bastevole per fargli allentare un poco le briglie del destriero e cercare riparo e sosta alla sua repentina fuga. Infine uscì dall'Urbe, superò tornanti e mulattiere e presto deviò lontano dalla via maestra, perché anche lontano dal covo che fino a poco prima aveva occupato la prudenza non era poi mai troppa.

lunedì 4 giugno 2012

IL MONACO VOLANTE DI COPERTINO

I casali non si costruiscono sulla costa. Ed infatti Mollone, Casole, Cigliano e Cambrò con la costa non hanno proprio niente a che vedere. Ma sono comunque troppo vicini al litorale. E soprattutto a tutte le insidie che tra il VI ed il VII secolo possono venire dal mare. A ben vedere, di pericolo qui ne basta uno solo. I Saraceni. Che altro non sarebbero se non musulmani del Nordafrica, o tutt’al più originari del Mashriq, l’Oriente che per tradizione reclamano come loro lontana patria. Nel 500 dopo Cristo i Saraceni sono conquistatori consolidati. Ed hanno per le mani una flotta capace di dare filo da torcere tra i flutti del Mediterraneo perfino a Bisanzio. Ben più tolleranti dei cristiani d’oriente, e capaci di instaurare un regime fiscale più snello e meno inviso rispetto allo stillicidio gabellare che vige a Costantinopoli, hanno vita facile nell’islamizzare mezzo mondo, di nome o di fatto. Ma qualcosa se la concedono anche loro. Incursioni. Razzie. A volte massacri. Sempre in angoli remoti. Dove il potere passa di rado. Dove il guanto di ferro dell’Impero fa più fatica ad arrivare. Arrivano. Colpiscono. Spariscono. Dunque, i casali di Mollone e Casole, di Cigliano e Cambrò, nonostante mura spesse e cancellate possenti, non sono più un valido rifugio per i contadini della zona. Meglio radunarsi, che l’unione fa la forza. Meglio spingersi più all’interno, nel mezzo di quella penisola nella penisola che è il Salento per evitare che, fuggendo, si finisca per avvicinarsi troppo ad un altro mare e ad altri pericoli. Così, all’inizio del 600 nasce Copertino. Il paese degli sfollati. La speranza degli scampati in una terra che è confine tra le picche dei Longobardi ed il potere dei bizantini. Nel 1200 la zona diverrà feudo svevo, per poi passare di mano divenendo dominio angioino, aragonese ed, infine, avamposto dei principi d’Epiro, gli albanesi Castriota Scanderbeg dalla cui casata emergerà secoli dopo il Giorgio che dopo la battaglia di Kosovo è eroe nazionale celebrato a Tirana. Ma il tempo passa, e coi mesi passano anche i padroni. Copertino diventa prima proprietà degli Squarciafico, poi dei Pinelli, infine dei Pignatelli. E’ il 1600 quando sui discendenti delle vittime dei pirati d’Oriente si scatena ancora una volta l’anatema divino. Carestia. Terremoto. Peste. Ma i salentini hanno la scorza dura. Temprati dal fuoco celeste, sopportano con buona pace le angherie della sorte. E perfino quelle del potere. All’ombra del castello terminato dagli angioini, che nei giorni più caldi getta un’ombra tanto più lunga dei tre piani di elevazione del suo maschio, coltivano l’arte innaturale della pazienza. Un’arte che qui si sposa col lavoro dei campi, ed ancor più con la fede che, con i suoi edifici, le sue manifestazioni tangibili ed i suoi luoghi sacri, rappresenta il contributo più genuino della popolazione alla storia di questa terra. Dal 1235 è stata innalzata la Collegiata che ha tanti nomi quante sono le mani che, nel tempo, l’hanno ampliata e consolidata e trasformata, rendendola un singolare, piccolo capolavoro di stile rinascimentale ed al contempo barocco. Chiesa Matrice. Collegiata. Basilica della Madonna delle Nevi.
2.    La Chiesa Matrice di Copertino (fonte: salento.us).
Fa il paio con il Santuario di S.Maria della Grottella del secondo Cinquecento, e col limitrofo convento di S.Francesco che, un tempo, la utilizzava da grancia, deposito per il grano mietuto nelle terre circostanti l’abitato. E’ stato, il Santuario, il luogo più caro in vita al vero maestro della tenacia e della pazienza che il popolo di Copertino ha avuto in sorte. Il santo monaco nato in un giaciglio di fortuna proprio come il Cristo bambino, una stalletta in cui la madre Franceschina Panaca trova rifugio dai troppi creditori del padre, Felice Desa. E’ il 17 giugno 1603. Copertino è un tassello minuscolo di un reame sconfinato, il Regno di Napoli. Giuseppe Maria Desa, si chiama. A sette anni inizia la scuola, ma viene subito colpito da una grave malattia che lo costringe ad un repentino abbandono. Resterà in balia del malessere per otto lunghi anni. Un’infinità, specialmente per un bambino che dovrebbe giocare e crescere, non restare confinato in un letto per tutto il giorno. Giuseppe ha 15 anni quando raggiunge la guarigione. Ma non si tratta di un rinvigorimento dell’organismo. Dietro alla riconquistata serenità c’è dell’Altro. 
1.    San Giuseppe da Copertino (fonte: wikipedia.org).
 C’è la Madonna della Grazia che viene venerata proprio nel leccese, non troppo distante da Galatone. E’ stata Lei a liberarlo dalla schiavitù del corpo, ed in fondo era scritto che restasse ammalato tutto quel tempo. Perché ha avuto modo di riflettere come un bambino non avrebbe mai potuto fare. Di riflettere sulla vita e sul mondo. Di concepire una vocazione, addirittura. Il Giuseppe che guadagna la via della guarigione è un adolescente che coltiva dentro di sé la volontà di farsi prete. Francescano. Ma gli manca ancora qualcosa. Qualcosa che, specialmente in quegli anni bui, può fare una gran differenza. Gli manca la dovuta istruzione, che ha perduto per strada proprio a causa della degenza. Il ragazzo possiede, a detta di tutti coloro che nel tempo si prenderanno la briga di stilarne biografie, un’indole smaccatamente testarda. E’ duro di comprendonio, e per di più poco reattivo e pronto; questo fa sì che non riesca ad introiettare conoscenza. Quando tenta di seguire le orme del padre, cimentandosi con l’artigianato e con l’arte del calzolaio, registra anche in questo caso un fallimento. Nemmeno questa la sua strada. Giuseppe ha due zii che hanno seguito la chiamata di Dio, ed una vocazione che gli cresce dentro. Cerca di entrare nell’ordine. Ma anche in questo caso viene respinto. Decide allora di rimettere mano ai libri, ed il suo zelo è tale che presto si fa notare da uno degli zii chierici, padre Giovanni Donato Caputo. Famoso studioso di teologia, ma soprattutto personalità di rilievo dell’Ordine Francescano. Sotto la sua guida Giuseppe Desa si impegna nello studio fino allo spasimo, restando incollato ai sudati tomi per interminabili ore. Ma non gli riesce di affrontare un corso di studi regolari, perché ha sempre dinanzi agli occhi un ostacolo insormontabile nella lingua latina. Capisce che non sarà mai un uomo di cultura. Ma che sarà per sempre un uomo di Dio. Dopo il Capitolo di Altamura padre Caputo, commosso per la dedizione profusa nello studio, intercederà comunque affinché quel nipote gracile ed ancora senza una via venga ammesso all’esame da chierico novizio. A saggiarne la preparazione è il vescovo di Castro, monsignor Giovan Battista Deti. Un osso duro, certo. Che tuttavia, dopo aver esaminato gli altri studenti leccesi, colpito dalla loro eccellenza e giunto di fronte a Giuseppe decide di non interrogarlo e passa oltre. Così, nel marzo del 1627 Giuseppe riesce a fare quel passo avanti che sinora gli era mancato. Riceve gli ordini minori. L’emozione del Frate Minore Conventuale è tanta. Ma dietro l’angolo ci sono nuovi esami, e nuova fatica. Ma supera brillantemente la prova. Perché anche questa volta ha le spalle coperte. Qualcuno ha pensato a lui. Dietro i successi del frate c’è la mano della Madonna. Che gli appare in sogno e gli indica il brano delle Sacre Scritture sul quale verrà poi effettivamente interrogato. Il 28 marzo del 1628 viene ufficialmente consacrato sacerdote a Poggiardo. Ed inizia la parte più misteriosa del suo cammino. Quella per cui viene ricordato ancora, dopo quattrocento lunghi anni, dai vecchi e dai giovani di Copertino. Per 17 anni prende dimora nella Grottella, nell’abbraccio della Madre celeste che lo fa sentire più a casa che tra le stesse mura che l’hanno visto crescere. Qui, la sua fede ha tempo e modo di crescere, consolidarsi, travalicare perfino le soglie del mondo sensibile. Perché inizia il cammino più difficile. Quello verso la santità. Non potrebbe essere altrimenti per l’ultimo figlio di Dio. Il santo nato in una misera stalla che ad oggi custodisce la reliquia del suo cuore indomito. Battezzato presso la vetusta Basilica di S.Maria delle Nevi. Cresciuto nel rigore nella casa dei Desa, e più ancora presso la Grottella fuori dell’abitato che fu culla della sua vocazione e della venerazione della Madre di Dio che, secondo la leggenda, incontrò nei tratti diafani di un’antichissima icona ritrovata per caso tra due candele accese in fondo al minuscolo antro. Da monaco si sottopone a meditazioni dure quanto le flagellazioni cui sovente sottopone il suo corpo da mondare. Presto riceve l’estasi divina. Inizia ad avere visioni. E snocciola profezie. Ma il meglio arriva dopo. Con le levitazioni. Che sono tra l’altro le più spettacolari e documentate che esistano. Una volta in estasi, il venturo santo perde qualsiasi peso - ed ancoraggio al suolo. All’interno della bella chiesa rinascimentale di Copertino riesce a compiere voli cui assiste tutta la popolazione. Una levitazione interminabile ha per testimoni addirittura un medico ed un cerusico intenti a praticare al santo un salasso. Il 10 luglio 1607 si trova a passare presso un casa colonica in quel di Osimo. L’edificio presenta al piano superiore un bel terrazzo, che promette una vista ancor più bella. Il santo vivente insiste con i proprietari per dare uno sguardo e ritemprarsi l’anima. Di fronte a lui, l’immagine candida del Santuario di Loreto, con il minuscolo borgo costruito attorno alle possenti mura della fede. Giuseppe inizia ad ammirare il panorama, accarezza con lo sguardo le linee morbide della campagna, i colori vividi dei poggi marchigiani, fino a perdersi nel complesso del Santuario che si erge in lontananza. Inizia a vedere angeli che salgono e scendono dal cielo, innalzando i loro Osanna di giubilo verso la Casa di Nazareth in cui la Madonna aveva concepito il suo Prodigio di fede, e che ad oggi è custodita proprio presso il Santuario dopo essere stata, si dice, trasportata in quel luogo dalla Palestina proprio da una schiera di cherubini alati. E’ un attimo. Poi spicca il volo. Si posa su di un mandorlo e resta in contemplazione, nella felicità perfetta finché il Padre Segretario Generale, insieme ad altri confratelli presenti sul luogo, non gli ordina di tornare in sé. Questo incredibile episodio appare oggi in una prodigiosa tela settecentesca firmata da Ludovico Mazzanti, che proprio come il suo protagonista vola da un capo all’altro del mondo, immagine di salvezza e richiestissima ospite di tante mostre d’arte sacra. Ma non è tutto. Oltre a questa straordinaria abilità nel volo, Giuseppe risulta completamente insensibile al dolore. Neanche le bruciature riescono a scalfire la sua incrollabile, infinita serenità. Dal suo corpo poi prende ad emanare un profumo dolcissimo. Tanto insistente che, ad anni di distanza dal suo trapasso, è comunque possibile avvertirlo ancora all’interno dell’aria rarefatta della sua cella segreta. Si costruisce pezzo dopo pezzo una certa fama, Giuseppe Desa da Copertino. Una fama di santità in vita che calamita attorno al suo povero vivere folle di devoti. E l’occhio indagatore della Chiesa stessa, che mal gestisce tutte quelle manifestazioni a dir poco innaturali. Lo accusano di messianismo. Ed è sufficiente per farlo deferire al tribunale dell’Inquisizione. Il processo si apre per chiudersi poco dopo. Non ci sono prove sufficienti, e complice un generale declino della vis sanguinaria degli indagatori ecclesiastici viene assolto con formula piena. Ma c’è comunque uno scotto da pagare. Quello della prudenza per un monaco che vive al centro di un mistero profondo. Dunque i Superiori lo costringono al confino in conventi isolati. Così passa dal Sacro Convento di Assisi, dove rimane tra il 1639 ed il 1653, al Convento dei Cappuccini di Pietrarubbia, nel pesarese. Ancora, il singolare francescano passa a Fossombrone, dove resta fino al 1657 per poi tornare definitivamente al suo ordine originario presso Osimo, dopo lunghi anni di peregrinazione che l’hanno visto raggiungere Napoli e Roma, Assisi e Fossombrone, Pietrarubbia e le Marche. E’ il 9 luglio 1663. Ma nel frattempo la sua vita mortale è trascorsa, ed il 18 settembre Giuseppe Desa da Copertino si ricongiunge col Signore. Le sue spoglie vengono conservate in un’urna di bronzo dorato proprio nella cripta del monastero che ha costituito la sua ultima stazione. Non altrettanto può dirsi dei numerosi ricordi che il santo vivente semina nell’anima di coloro che incontra lungo il cammino. E degli straordinari miracoli dei quali si rende protagonista. Quelli non sono riducibili all’interno di nessuna urna, e non c’è contenitore tanto profondo o capiente da poterli racchiudere. Anche perché appartengono alla gente. Ecco, Giuseppe è questo. Un frammento di coscienza di quella gente, la sua gente, cui ha dispensato guarigioni, ma anche sconcertanti episodi di telepatia e addirittura di divinazione. Appena un anno prima che il Mazzanti dia l’ultima pennellata alla sua tela, il 24 febbraio 1753, a Roma qualcosa si sblocca. Quello strano monaco salentino, figlio di un povero artigiano e costretto a cambiare costantemente dimora, smette di essere considerato un semplice parto del variegato folklore locale per diventare qualcosa d’altro. Beato. Le prove dopotutto ci sono, eccome. Anzi, a dire la verità ce ne sono anche troppe. Allora, a Clemente XIII toccherà farlo santo. Con un decreto del 16 luglio 1767. Ma San Giuseppe da Copertino non è un santo canonico. Sembra piuttosto un santo particolare – ma poteva essere altrimenti? Il santo per tutte le occasioni, per la precisione. Degli studenti e degli esaminandi, considerato lo strenuo impegno profuso negli studi e l’abnegazione che tanti ritenevano insensata considerata l’ottusità di fondo dell’umile frate. Ma anche il santo dei voli, e dunque il miglior protettore per gli aviatori italiani – sin dalla Grande Guerra – e non solo, se si considera come statunitensi e perfino argentini vadano fieri delle medaglie con l’immagine del Santo che le rispettive aeronautiche forniscono loro in dotazione. Oggi a Copertino la minaccia saracena non esiste più. Borboni, napoleonici e di nuovo Borboni sono venuti e passati in paese prima che il popolo vedesse discendere da una terra lontanissima ed avvolta nelle nebbie i piemontesi diafani con lo stemma sabaudo sul petto. Il Salento è una terra diversa rispetto al passato. Una terra in cui, tuttavia, tutti conservano un vivido ricordo di quel monaco volante che amava starsene per conto suo in una misera grotta fuori dall’abitato e per il quale si fa festa grande con tanto di fuochi d’artificio dal 16 al di 19 settembre. 
3.    Celebrazioni per la Festa di San Giuseppe (fonte: altervista.org).
S.Giuseppe da Copertino. Il guaritore. Il telepata. Il divinatore. L’aquilone di Dio. Un segno di ruvida contraddizione ed un efficace pungolo di rinnovamento, come l’ha definito qualcuno per quel coraggio insensato ed ottuso di essere e restare strenuamente semplice. Anche nel bel mezzo del Seicento. In un’èra di apparenza cui egli contrappose un’irruenza tanto disarmante quanto trasparente. Un buono a nulla, forse, certo un incolto ed ancor più un illetterato. Ma proprio per questo, tanto più vero e genuinamente poetico nelle esternazioni schiette dell’anima. Oggi a Copertino si incontrano comitive in fila di fronte ad un edificio del primo Settecento che presenta un interno semplice, a pianta centrale, le pareti affrescate con immagini a metà tra il sacro ed il favoloso. Al suo interno è stata poi inglobata la struttura antichissima e ridotta ormai all’essenziale di quella che sembra essere stata una rozza stalla. E’ il primissimo giaciglio di un monaco fin troppo capace di staccarsi dagli affanni del mondo, di quel frate sospeso nel cielo che la sua terra ha voluto ricordare tirando su alla buona, proprio come avrebbe fatto lui un tempo, un santuario semplicissimo. Perché la felicità si nasconde nelle piccole cose. San Giuseppe, il monaco volante di Copertino, insegna.  

Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati


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venerdì 25 maggio 2012

MELUSINA

Un’incisione medievale della donna-serpente (fonte: leonardo.it).

Guarda, assisa, la vaga Melusina,
Tenendo il capo tra le ceree mani,
La Luna in arco da' boschi lontani
Salir vermiglia il ciel di Palestina.
Da l'alto de la torre saracina,
Ella sogna il destin de' Lusignani;
E innanzi al tristo rosseggiar de' piani,
Sente de 'l suo finir l'ora vicina.
Già, già, viscida e lunga, ella le braccia
Vede coprirsi di pallida squama,
Le braccia che fiorian sì dolcemente.
Scintilla inrigidita la sua faccia
E bilingue la sua bocca in van chiama
Poi che a 'l cuor giunge il freddo de 'l serpente.

G. D'Annunzio, I Sonetti delle Fate (1914)

mercoledì 16 maggio 2012

IL PRIMO SANTO "ROGO". FINNICELLA, STREGA DI ROMA

Cristogramma (fonte: wikipedia.org)

Rifugio dei peccatori. Vessillo dei combattenti. Medicina degli infermi. Sollievo dei sofferenti. Onore dei credenti. Splendore degli evangelizzanti. Mercede degli operanti. Soccorso dei deboli. Sospiro dei meditabondi. Aiuto dei supplicanti. Debolezza dei contemplanti. Gloria dei trionfanti. In totale fa dodici. Esattamente come i raggi del sole che splende d’oro nel campo azzurro ormai quasi sbiadito della tavoletta con la croce. JHS, sta scritto sul legno. E’ l’emblema della devozione a Nostro Signore. Sua è la croce riprodotta sulla tavoletta. A Lui vanno le labbra dei fedeli, che uno dopo l’altro si inginocchiano supplici a baciare la santa effigie, il Cristogramma che il buon frate porge alle masse adoranti durante e dopo la predicazione. Chi adora la croce si disfa del demonio, salmodia il prete. Chi bacia il legno santo abbandona i mali della terra. Ed a Roma, nell’estate del 1426 c’è un disperato bisogno di purificazione. Ora che la peste ha steso le sue ali nere sulla città, ora che i morti si accatastano ai bordi delle strade lerce, ora l’Urbe ha più bisogno dei suoi eroi, e massimamente dei santi che la riavvicinino alla perduta grazia di Dio.

lunedì 7 maggio 2012

BENVENUTO CELLINI E I DEMONI DEL COLOSSEO

Il Colosseo con la piazza omonima in una litografia
di Giuseppe Vasi (fonte: info.roma.it)

La più bella rovina della città. Il recinto nobile ove si manifesta la storia tutta. Arena dell’Impero. Divertimento delle masse. Inganno dei tiranni. L’emozione suprema quando tutti gli altri impeti vengono meno e si spengono. 3350 metri quadrati di nuda pietra tirati su in otto anni ininterrotti di lavori, che sfidano il tempo da più di 1900 anni. Il più imponente monumento della Roma antica che sia giunto fino alla nostra epoca. Amphiteatrum Caesarum. Colosso dei Cesari. Il Colosseo: un'ellisse di 527 metri di perimetro, che raggiunge picchi di 50 metri di altezza e che, nei suoi giorni migliori, è giunto ad ospitare fino a 50mila spettatori nei folli cento giorni che segnarono la sua inaugurazione. Un bagno di sangue da 10mila gladiatori in armi ed altre migliaia di prigionieri inerti, dati in pasto alle 50mila belve condotte a Roma dagli angoli più selvaggi e remoti dell’Impero.

martedì 17 aprile 2012

PIETRO BAILARDO MAGO

Statua dello Chevalier de Bayard presso 
Sainte-Anne-d'Auray, in Bretagna
(fonte: wikipedia.org)
A malgrado dei tanti vernacoli ed idiomi che si sentono risuonare nei discorsi delle truppe, sul campo di battaglia gonfia il petto il meglio dell’aristocrazia guerriera europea. Da un lato c’è la schiera del secondogenito del conte de Aguilar, don Pedro Fernández, e del fiore della nobiltà di Cordoba, Elvira de Herrera. Cinquantenne ed uomo fatto, Gran Capitano del Regno di Napoli, duca di Terranova e di Sessa. Consalvo Hernandes. El Montillero. El Gran Capitàn. Sul fronte opposto, un Del Vasto di discendenza aleramica, che ha dalla sua tanto potere da effigiare i cavallotti che girano nel Monferrato sottomesso al trono di Francia. Lodovico II, già conte di Carmagnola, marchese di Saluzzo ed al soldo del Padre del Popolo, Luigi XII. E’ il 1503. Già tre anni sono trascorsi da quando Versailles e Madrid hanno iniziato a contendersi i granai del Meridione d’Italia. Ormai lo scontro è inevitabile, e sarà battaglia grande. Poco oltre Formia, a spartire la Palude Pontina dalla Terra di Lavoro che è già Campania, c’è un confine naturale nato dalla fusione del rio Gari con il Liri. Si chiama Garigliano, e si getta nelle acque del Golfo di Gaeta. Dieci miglia a monte della foce, adagiato sulle estreme propaggini dei Monti Aurunci, c’è un borgo che si chiama Suio. Dominato da una fortezza che è caposaldo della presenza francese nell’area. Un cancello sull’accesso alla pianura. Poco meno che imprendibile. Anche perché non c’è altro modo di valicare il Garigliano se non passando sotto le mura gremite di francesi. Ma le schiere di Spagna pullulano di uomini d’arme. Vale a dire mercenari avvezzi allo scontro ed alle asperità del contendere. Vale a dire, ancora, soldati di ventura adusi all’astuzia. Tra loro c’è un condottiero italiano, inizialmente al soldo della Chiesa e poi sotto le insegne degli Orsini contro i Colonna ed il Soglio di Pietro. Bartolomeo d’Alviano, si chiama.

giovedì 12 aprile 2012

SAN GIOVANNI BOCCADORO

San Giovanni Crisostomo, bassorilievo bizantino
del XI secolo custodito preso il Musée du Louvre
di Parigi (fonte: wikipedia.org)
347 anni dopo la nascita di Cristo, nell’Impero si verificano almeno tre fatti degni di nota. In primo luogo, a Coca, in quella che sarà poi la provincia autonoma di Castiglia e León, in piena terra di Spagna, nasce Flavio Teodosio. Ultimo imperatore romano a regnare su una terra ancora unificata, sarà presto magnificato con l’appellativo il Grande dagli scrittori cristiani, in quanto patrocinatore dell’ufficializzazione della religione del Cristo nell’Impero. Ancora, a Sardica, città dell’Illirico che corrisponde parzialmente al cuore dell’attuale metropoli bulgara di Sofia, proseguono i lavori dell’assemblea indetta da papa Giulio I. Un concilio ecumenico in terra neutrale che, nei fatti, complice la diserzione di massa attuata principalmente dai vescovi orientali, si trasforma in sinodo provinciale. Ma che pretende comunque di emanare scomunica formale nei confronti degli ariani e della loro negazione di divinità del Santo Verbo, parteggiando piuttosto per i niceni del vescovo di Alessandria. In terzo luogo, viene spiccato un ordine ufficiale di persecuzione nei confronti dei donatisti, esponenti scomodi di un’eresia cristiana nata in Africa trenta anni prima dalle prediche di uno scismatico di nome Donato di Case Nere. Il IV secolo è un’epoca di contrasti profondi. Cristiani e pagani si battono gli uni contro gli altri. Proprio come manichei ed ariani. E gnostici apollinari ed ebrei. Tutti contro tutti.

venerdì 6 aprile 2012

IL BASILISCO DI MEZZOCORONA

Le rovine del S.Gottardo sul pianoro antistante
la rupe Corona (fonte: forumcommunity.net)

I vecchi Brusacristi se la ricordano ancora, questa storia. Hanno avuto occasione di ascoltarla più e più volte, mentre la legna si consumava crepitando tra gli alari del camino ed il buio spandeva il suo guanto nero nella Piana Rotaliana, là dove un tempo non c’era altro che fango ed acquitrino. Gli ultimi dissodatori, quelli che avevano rivoltato le zolle della valle miz (bagnata), che avrebbe poi dato il nome alla zona, asciugando il ventre molle della piana, sono ormai andati ad ingrassare la terra. Ma i loro figli li hanno sentiti sospirare tante volte, mentre alzavano gli occhi al cielo verso la rupe, verso Corona, il nome antico con cui veniva indicato il castello S.Gottardo che dai primissimi anni del Medioevo vigilava sulla valle, ben riposto all’interno di una grossa caverna. Mezzocorona solo dal 1924, questo luogo ha cambiato nome spesso.

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