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La Grande Storia dei Cavalieri Templari

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Le Leggende Medioevali

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giovedì 18 aprile 2019

LA STRANA STORIA DI VICEDOMINO, "PAPA PER UN SOLO GIORNO"


Il Cardinale Vicedomini è famoso per essere stato, probabilmente, "papa per un solo giorno". Sembra infatti che sia morte poche ore dopo la sua nomina. Secondo alcuni studiosi che avallano questa bizzarra teoria, il 5 settembre 1276, Vicedomini che già soffriva di una fortissima febbre accettò la sua elezione assumendo come nome pontificale Gregorio XI in onore dello zio. Tuttavia morì il giorno dopo senza che la sua elezione fosse ufficializzata. Secondo una seconda teoria, Vicedomini si sarebbe preso una notte per riflettere ma poi morì senza fare a tempo a sciogliere la riserva. Il racconto appena fatto è solamente una teoria non essendoci documenti della Chiesa che possano testimoniare ufficialmente il fatto. Tuttavia, se ci si vuole fermare in preghiera dinanzi a Vicedomini, basta recarsi nella Basilica di San Francesco alla Rocca a Viterbo in pieno centro storico.

mercoledì 3 gennaio 2018

L'IMPORTANZA DI RANIERO GATTI E DELLA SUA FAMIGLIA NELLA STORIA DI VITERBO


https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/f/fe/Viterbo_Palast_der_P%C3%A4pste_1255-66_Turm_Cattedrale_di_San_Lorenzo_Duomo_di_Viterbo_Foto_Wolfgang_Pehlemann_DSC00065.jpg

Raniero Gatti è una delle figure più importanti del Medioevo viterbese, basti pensare che la sua famiglia influenzerà la vita cittadina fino al XV secolo. Raniero, nato intorno ai primi anni del 1200 fu il primo a portare il cognome Gatti aggiungendo sul proprio stemma di famiglia proprio il famoso felino simbolo di destrezza e abilità, qualità ritenute fondamentali per scalare la vette della società (Gatti quos cernis currendo solent dare saltum, virtutes signant per quas conscendit in altum). La ricchezza della sua famiglia era dovuta al commercio dei cereali e del prestito del denaro come si evince da alcuni documenti con somme da riscuotere e da un lungo elenco di palazzi, torri e case che avevano tutta l'aria di essere dei pegni non riscattati.

Raniero Gatti fu il primo esponente della famiglia ad assumere ruoli di rilievo a livello politico sostenendo il papato negli anni in cui la città di Viterbo si era schierata con Federico II. Secondo cronisti del XV secolo, la famiglia dei Gatti erano fieri alleati agli Alessandrini opposti ai Cocco con i quali non erano rari scontri anche molto violenti. L'"anagrafica" delle fazioni è difficile da ricostruire, ma possiamo affermare che i rapporti tra le famiglie siano da inserire in un contesto che vedeva Viterbo continuamente attaccata da Roma che voleva impadronirsi della città al fine di estendere i propri domini. La famiglia Gatti si schierò in difesa della città entrando in conflitto con i Cocco (che sostennero i Romani) e che puntavano al dominio di Viterbo.

Dal 1246, Raniero Gatti iniziò la scalata al potere cittadino; tra il settembre 1246 e marzo 1247 fu uno dei quattro rectores del comune prima di diventare Capitano del Popolo negli anni 1257-1258, 1258-1259 e 1266. A Raniero e alla sua famiglia si deve un'importante opera di abbellimento della città che, in quegli anni godeva di grande prestigio essendo sede papale. Nel 1266 fu edificato il Palazzo Papale dall'ampliamento del palazzo vescovile al cui interno avvenne il conclave più lungo della storia. Nel 1268 fu promosso un ampliamento delle mura cittadine e la costruzione di un importante acquedotto che alimentava San Pellegrino e la fontana poggia nei pressi della loggia papale.

Quella dei Gatti è una storia affascinante, fatta di intrighi, potere e lotte per al conquista di Viterbo,  il cui quartiere San Pellegrino rimane teatro della vicenda appena narrata. Se vuoi visitare San Pellegrino, Sguardo Sul Medioevo ti consiglia le guide turistiche di Viterbo che potrai trovare a Viterbo Sotterranea che non solo ti accompagneranno nella storia della città, ma ti consentiranno una visita ai suggestivi sotterranei situati in piazza della Morte.

Viterbo Sotterranea
piazza della Morte 1, 01100 Viterbo (VT)
Tel. 0761220851
Tel. 3388618856
mail: welcome@tesoridietruria.it

lunedì 10 aprile 2017

DISSOLUTO, CAVALIERE, SANTO: GALGANO GUIDOTTI




In ogni mito c’è un fondo di verità e in ogni storia c’è uno spunto per una leggenda. Le notizie sul cavaliere Galgano Guidotti sono frammentarie e inquinate dal mito che ne seguì alla sua morte. Compiamo un balzo indietro, sino alla metà del 1100, nella Tuscia, terra disputata da tre grandi potenze dell’epoca: Siena, Pisa, Firenze. Comuni e Signorie che nel pieno della lotta tra Chiesa e Impero tentano di ritagliarsi la propria indipendenza. Sono gli anni sanguinosi delle faide tra Guelfi e Ghibellini, dove lo stesso Dante Alighieri ne farà le spese con un esilio forzato. Anni di violenze, soprusi e stupri vissuti come manifestazione della propria forza. In questi anni, tra bande di cavalieri di ventura e castelli in assedio, nacque Galgano, presumibilmente, nel 1148 a Chiusdino, nel senese, da Guidotto e Dionigia, da una famiglia della nobiltà locale. Dell’infanzia non se ne sa nulla e della gioventù gran parte lo si volle coprire con un velo, perché Galgano non era da meno dei suoi coetanei, orientato alla lussuria e agli eccessi, violento, beone spesso coinvolto in risse, poche e significative sono le incisioni nel Codice Laurenziano «Qui adolescentie sue tempore lascivie argumentis aliquantulum animum relaxavit.» («Nella sua gioventù egli abbandonò non poco il suo corpo alle tentazioni della dissolutezza.»).

Tuttavia nell'aria ferveva un sentimento di pentimento, di redenzione: erano gli anni dei pellegrinaggi in Terra Santa, dove centinaia di migliaia di uomini e donne mettevano a rischio la loro vita per espiare le proprie colpe. Guidotti, al colmo della sregolatezza, si mise in cammino, anche lui, ma in cerca di se stesso e della Fede. Ebbe due visioni che lo trasformarono: nella prima vide il suo destino da cavaliere di Dio sotto la protezione dell’Arcangelo Michele in difesa dei deboli e al fianco dei Giusti. Anni dopo la seconda visone, seguendo l’Arcangelo giunse a Monte Siepi dove incontrò i dodici apostoli. Qui abbandonò i suoi abiti di cavalieri, cucì il mantello in saio. Non avendo legno per una croce, infisse la spada in una roccia e su di essa costruì un romitorio con giunchi e frasche. La sua nuova vita di eremita non passò inosservata, già negli ultimi anni terreni, un flusso di credenti affollava i piedi della collina dove si era ritirato. Morì il 30 novembre del 1181 (qualcuno sostiene il 3 dicembre del 1180).

Nel giro di pochi anni il flusso di pellegrini divenne un fenomeno di massa. Venne edificata una rotonda attorno alla spada e l’abbazia cistercense, ai piedi della collina, attiva fino alla metà del 1700. Non ci sono prove dirette di quanto Galgano condizionò la vita di molti contemporanei ma ci sono evidenze che non possono essere delle coincidenze. Primo fra tutti San Francesco che si spogliò di ogni avere come i suoi Frati Minori predicando l’abbandono di ogni forma di ricchezza e corruzione per corteggiare la Semplicità.

La storia di Galgano non rimase confinata nella terra italica, cavalcò in tutta Europa, viaggiando nei testi e nelle musiche dei trovatori e dei menestrelli di corte in corte di regno in regno, fino ad influenzare il mito più suggestivo di tutti: Re Artù. Di Artù esisteva già la leggenda (è citato in vari poemi gallesi, tra cui Y Gododdin del 594 d.C.) come un dux bellorum che sulle ceneri della Britannia romana, unifica i popoli e combatte le tribù dei sassoni e degli angli. Sono brandelli di testo che pochi ricordano, tuttavia in quegli anni rifiorisce la favola arturiana, in seguito all’annuncio, da parte dei monaci di Glastonbury, di aver trovato le tombe di Artù e Ginevra nelle fondamenta della cattedrale, siamo alla fine del XII secolo. 

È proprio al volgere del secolo, che nasce la leggenda come la conosciamo tutti, ed è dovuta a tre romanzi. Il Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth  (1138), il Merlin di Robert de Boron (1191) e il "Lancillotto o il cavaliere della carretta", scritto all'incirca nel 1170 da Chretien de Troyes. Da questi tre nasce la figura completa di re Artù: un uomo giusto e leale, che si oppone alla corruzione e alla violenza (prima fase di vita di Galgano), consacrato al potere dal volere di Dio con l’estrazione della spada dalla roccia (è come un passaggio di testimone, Galgano, per seguire il Signore, lascia la spada, simbolo di vita terrena, a chi riprenderà dalle sue orme), combatte contro le dispute dei singoli regni e li riunifica sotto la sua guida (la Francia e l’Inghilterra sono regni unificati e le immagini si legano maggiormente all'Italia). Quello che emerge dai tre romanzi è in realtà una ricerca della verità, della giustizia, della redenzione dei propri peccati come il Percival alla ricerca del suo Santo Graal, sui passi già percorsi dal dissoluto e santo Galgano Guidotti l’eremita toscano, l’Artù italiano.

Da www.banderentium.it, Articolo di Giuseppe Benevento

martedì 28 giugno 2016

BARBARA FRALE: "LA GUERRA DI FRANCESCO"

cover.fraleOgni volta che sentiamo nominare san Francesco d’Assisi, la nostra mente si affolla di immagini: lupi ammansiti, dialoghi con gli uccelli, mani segnate dalle stigmate, aureole dorate che doppiano l’umile cerchio di capelli della chierica. Il suo volto, nei nostri ricordi, ha l’eleganza pacata degli affreschi di Giotto o la spigolosità timida del ritratto di Cimabue. In ogni caso, ci appare sempre come se fosse nato con il saio addosso. Ma com'era Francesco prima della conversione? Quali impegni e svaghi occupavano le sue giornate di figlio primogenito di un mercante ricchissimo, in odor di nobiltà?

Le biografie antiche non dedicano molto spazio ai suoi anni giovanili, quando militava nelle truppe di cavalleria del comune di Assisi e spendeva i suoi giorni dividendosi fra la lucrosa attività paterna e i divertimenti tipici dei signori di fine XII secolo. Eppure, qualche testimonianza arrivata fino ai nostri giorni ci permette di recuperare un’immagine vivida e dettagliata della sua giovinezza, che la Legenda maior, la biografia ufficiale scritta da san Bonaventura, preferisce tacere. Scopriamo così che il giovane Francesco – carismatico, arguto e un po’ sopra le righe – non era proprio un modello di virtù cristiane: soldi, donne, cacce audaci e battaglie sanguinarie segnarono la giovinezza del santo più amato d’Italia.

Barbara Frale (Viterbo, 1970) è una storica del Medioevo ed esperta di documenti antichi. Dopo la laurea e il dottorato in Storia presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, nel 2001 è entrata in servizio come Ufficiale presso l’Archivio Segreto Vaticano, dove ha potuto approfondire gli studi sui Templari direttamente sulle carte originali custodite nell’archivio pontificio. Ha collaborato con vari quotidiani ed emittenti televisive italiane ed estere per la realizzazione di servizi e documentari storici. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: I Templari e la Sindone di Cristo (il Mulino, 2009), La Sindone di Gesù Nazareno (il Mulino, 2009), Il principe e il pescatore. Pio XII, il nazismo e la tomba di San Pietro (Mondadori, 2011), L’inganno del gran rifiuto. La vera storia di Celestino V, papa dimissionario (Utet, 2013) e Crimine di Stato. La diffamazione dei Templari (Giunti, 2014).

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martedì 21 giugno 2016

LA LEGGENDA DELLE STREGHE DI BENEVENTO


La storia delle famose Streghe di Benevento si è diffusa dal XIII secolo proprio dalla celebre città campana che, secondo le varie leggende, è il luogo prediletto dalle streghe italiane. La leggenda delle streghe di Benevento risale addirittura all'epoca romana, quando si diffuse in città il culto della dea egiziana della magia Iside particolarmente cara a Domiziano il quale le fece edificare un tempio in suo onore. Il culto di Iside aveva messo le basi per una forte presenza del paganesimo che fu la religione di stato per secoli tanto che le caratteristiche di alcune streghe sono riscontrabili anche nelle divinità pagane. 

Pietro Piperno, nel suo libro "Della superstiziosa noce di Benevento" risalente al 1639 fece risalire la nascita della leggenda addirittura al VII secolo quando Benevento, capitale di un ducato del regno longobardo, era stata invasa da pagani (anche se convertiti per comodità al cattolicesimo) che adoravano una vipera d'oro simbolo che entrava in correlazione col culto di Iside che, ricordiamo, era in grado di calmare e di dominare i serpenti.

I riti attorno al noce

I longobardi iniziarono una serie di rituali singolari che avvenivano nei pressi del fiume Sabato, fiume a loro sacro: si appendeva la pelle di un caprone ad un albero, si correva vorticosamente con il cavallo attorno allo stesso, si lanciavano lance per strappare porzioni di pelle che poi venivano mangiate. La popolazione cristiana di Benevento collegò questi rituali alle già diffusissime credenze riguardanti le streghe tanto che le urla venivano intesi come emanazione di riti orgiastici e il caprone era l'impersonificazione del diavolo. 

Secondo una leggenda, ritenuta incompatibile con i dati storici, il sacerdote Barbato accusò i longobardi di idolatria e Romualdo, duca di Benevento posta sotto assedio da Costante II, promise di cancellare i culti pagani se la città fosse riuscita a resistere a quel pesante attacco. Costante si ritirò e Barbato divenne vescovo di Benevento il quale decise di abbattere immediatamente l'albero per far costruire al suo posto la chiesa di Santa Maria in Voto. 

I primi anni del Cristianesimo videro una durissima lotta contro i culti pagani che si stavano diffondendo a macchia d'olio dalle periferie alla città: basti pensare che le streghe furono viste come antitesi alla Madonna, dedite a riti di natura orgiasti e amiche del diavolo. 

Fu dopo l'anno 1000 che la leggende sulle streghe iniziò a prendere piede in Europa; durante uno dei tanti processi Matteuccia da Todi, processata nel 1248, affermò che le cerimonie si svolgevano sotto un albero di noce, lo stesso albero che Barbato fece abbattere e che il diavolo mise nuovamente al suo posto. Nel XVI la macabra scoperta di alcune ossa, probabilmente umana, ancora fresche alimentarono ancora di più le credenze popolari. 

Secondo l'iconografia classica le streghe usavano ungersi petto e ascelle con un unguento particolare prima di prendere il volo a bordo di una scopa di saggina oppure in groppa a un "castrato negro". I sabba, o giochi di Diana, erano momenti in cui ci si univa carnalmente con spiriti e demoni che avevano forma di gatto o di caproni; dopo queste "feste" le streghe erano pronte a seminare il terrore, terrore che era causa di sofferenza, di aborti o di nascite di bambini con gravi deformità. 

Le streghe poi assunsero anche una forma incorporea più simile a spiriti tanto che usavano entrare in casa da sotto la porta, proprio per questo si soleva mettere una scopa o del sale sull'uscio della porta. La scopa, simbolo fallico, contrastava la sterilità causata dalla presenza della strega, il sale era ritenuto, a torto in quanto etimologicamente non corretto, portatore di salute. 

Le persecuzioni delle Streghe 

Le persecuzioni contro le streghe furono portate avanti per la prima volta da Bernardino da Siena che gettò i suoi anatemi contro le streghe di Benevento proprio negli anni in cui fu pubblicato il Malleus Maleficarum, edito nel 1486, una vera e propria guida su come riconoscere e interrogare una strega e su quale tortura era più idonea per estorcere una confessione. Furono migliaia le confessioni estorte in ogni modo tra il XV e il XVII secolo fino a quando durante l'Illuminismo, ritenendo non valida la confessione estorta con la tortura, Ludovico Muratori arrivò ad affermare che le streghe erano solamente donne malate e l'unguento usato altro non era che un composto creato con sostanze allucinogene. 

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sabato 23 gennaio 2016

ITINERARIO NEI LUOGHI DI MATILDE DI CANOSSA



Se vuoi ripercorrere gli antichi luoghi che hanno visto la nascita e il raggiungimento dell'apice di Matilde di Canossa non ti resta che armarti di pazienza e affrontare uno degli itinerari più belli ed importanti dell'intero Medioevo. Il percorso unisce la città di Mantova a Lucca passando per Reggio Emilia e la via di San Pellegrino in Alpe, famosissimo ospizio medievale. 

Il cammino vi consentirà di rimanere a contatto con la natura, conoscere il patrimonio artistico e culturale di una delle più importanti e influenti donne del Medioevo e di godere di pievi, torri e castelli che rendono ancora più suggestiva l'atmosfera. Le tappe sono dodici e il percorso è aduagatamente segnalato secondo lo standard nazionale del Club Alpino Italiano. La Provincia di Reggio Emilia rilascia, come sempre in questi casi, la Credenziale del Pellegrino.

Dettaglio del Sentiero di Matilde

Per il percorso Tappa per Tappa si rimanda al sito ufficiale

Regioni attraversate: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana
Tappe: il cammino parte da Mantova e giunge a Lucca con tratti di lunghezza variabile di km 20/25 circa e sono divisibili come segue:
1° tappa: Mantova – San Benedetto Po
2° tappa: San Benedetto Po – Guastalla
3° tappa: Guastalla – Reggio Emilia
4° tappa: Reggio Emilia – Vezzano sul Crostolo
5° tappa: Vezzano sul Crostolo – Canossa - Carpineti
6° tappa: Carpineti – Toano
7° tappa: Toano – Morsiano (Villa Minozzo)
8° tappa: Morsiano (Villa Minozzo) – San Pellegrino in Alpe
9° tappa: San Pellegrino in Alpe – San Romano in Garfagnana
10° tappa: San Romano in Garfagnana – Castelnuovo di Garfagnana
11° tappa: Castelnuovo di Garfagnana – Borgo a Mozzano
12° tappa: Borgo a Mozzano – Lucca
Su questa direttrice è in progettazione una pista ciclo-pedonale che consentirà una maggiore fruizione da parte di turisti e pellegrini anche in bicicletta.
Lunghezza: il tratto in Emilia-Romagna è lungo 256 km
Livello di difficoltà: facile, legato perlopiù alla lunghezza delle tappe. Il percorso non presenta particolari difficoltà tecniche.

Informazioni sul sentiero


Sito web: www.sentieromatilde.it
Sulla vita di Matilde di Canossa

Ufficio Informazioni Turistiche di Reggio Emilia
Tel. +39 0522 451152
iat@municipio.re.it

Ufficio Informazioni Turistiche di Canossa
Tel. 336 2287340
uit.terrematildiche@gmail.com

Ufficio Informazioni Turistiche di Castelnovo ne' Monti
Tel. +39 0522 810430
iat@appenninoreggiano.re.it

lunedì 18 gennaio 2016

ELEONORA DI AQUITANIA


Eleonora di Aquitania è stata una delle più importanti donne del Medioevo; nata nell'Anno del Signore 1122 crebbe nella colta Aquitania dove imparò l'arte di cavalcare e di andare a caccia. Quando morì suo padre, sposò il futuro Luigi VII dopo aver ereditato tutti i domini di famiglia. Eleonora godeva di un fortissimo ascendente sul re dato che lo convinse a partire per la seconda Crociata dopo l'appello di Bernardo a Vezelay

I rapporti tra Eleonora e il re erano molto complicati: il matrimonio si chiuse dopo pochi mesi grazie all'assenso papale e la donna sposò Enrico Plantageneto che dopo due anni divenne re di Inghilterra, cosa che permise al giovane rampollo di appropriarsi anche dei domini di sua moglie. Ma anche questo matrimonio si rivelò tribolato: lasciato il marito tornò a Poitiers che trasformò in un luogo per artisti e cantastorie. 

Nell'anno 1173 i tre figli del re di Inghilterra si ribellarono, Eleonora fu arrestata e imprigionata in Francia; venne liberata solamente nel 1189 e divenne reggente del figlio Riccardo Cuor di Leone. Nel 1193 riscattò Riccardo prigioniero dell'Imperatore Enrico VI e combatté alacremente per una riconciliazione con il fratello Giovanni Senza Terra. 

Fonte: Eileen Power, Donne del Medioevo, 1984; Georges Duby, Donne nello specchio del Medioevo, 1997.

sabato 9 gennaio 2016

FULCHERIO DI CHARTRES


Fulcherio di Chartres nacque nella cittadino francese nel 1059 e morì nel 1127 a Gerusalemme. Celebre storico francese partecipò al Concilio di Clermont grazie all'invito di Ivo di Chartes il vescovo della città. Arrivato a Costantinopoli si aggregò all'esercito crociato diretto in Terra santa e nel 1097 fu nominato da Baldovino I cappellano. Baldovino portò con se Fulcherio anche presso la contea di Edessa appena formata. Dopo la fine della Prima Crociata e la conseguente conquista di Gerusalemme avvenuta nel 1099 Fulcherio mantenne carica di cappellano fino al 1115 per diventare canonico della Basilica del Santo Sepolcro.

Fulcherio si ricorda per la sua monumentale Historia Hierosolymitana che narra la conquista di Gerusalemme. L'opera fu redatta su richiesta dei compagni di viaggio compreso Baldovino I avvalendosi di una biblioteca presente nella Città Santa grazie alla quale poté attingere a molti documenti sulla prima missione crociata.

Il primo libro descrive i preparativi alla crociata a partire dal Concilio di Clermont fino alla conquista di Gerusalemme e il seguente regno di Goffredo di Buglione. Il secondo libro racconta delle opere di Baldovino, il successore di Goffredo. Il terzo libro narra di Baldovino II fino alla peste del 1127 che, probabilmente, fu causa della morte dello stesso scrittore. 

lunedì 21 dicembre 2015

SAN CONTARDO D'ESTE


Contardo d'Este nacque a Ferrara nell'Anno Domini 1216. Fu dai primissimi anni di giovinezza che Contardo sentì Dio che lo invitata ad abbandonare tutte le ricchezze in favore di una vita povera totalmente dedicata alla diffusione in Europa del Vangelo. Lasciata la città natia Contado iniziò il suo viaggio verso il Santuario di San Giacomo De Compostela. Giunto a Broni, con l'intenzione di salpare dalla Liguria, si ammalò e chiese di riposare dopo la morte proprio nella stessa città. Contardo morì il 16 Aprile dell'Anno 1249.

Furono alcuni incredibili prodigi a far luce su questa figura di pellegrino sconosciuto (campane che iniziarono a suonare da sole o addirittura fiamme splendenti vicino al corpo) che attirarono l'attenzione e la venerazione del popolo che tumulò con tutti gli onori del caso il corpo del Santo. San Contardo fu venerato grazie al culto approvato da Paolo V. La memoria liturgica è il 16 aprile mentre si ricorda la traslazione del corpo nella Basilica Minore di San Pietro Apostolo a Broni l'ultimo sabato del mese di agosto

Dal Martirologio Romano: "A Broni presso Pavia, commemorazione di san Contardo, pellegrino, che scelse una vita di estrema povertà e morì colpito da una malattia mentre era in cammino per Compostela".

domenica 18 ottobre 2015

TOTILA RE DEI GOTI: PROCESSO AL PERSONAGGIO

TOTILA RE DEI GOTI

Processo al personaggio storico. Istruttoria su una leggenda nera

Un secolo fa, lo storico Marc Bloch paragonò il suo lavoro a quello del giudice istruttore: «Noi (storici) siamo dei giudici istruttori incaricati di una vasta inchiesta sul passato. Come i nostri confratelli del Palazzo di Giustizia, raccogliamo testimonianze con l’aiuto delle quali cerchiamo di ricostruire la realtà1». Pertanto, condurrò un “processo” su un singolare “imputato”: il re dei Goti Totila l'Immortale, il “perfidus rex” dei Dialoghi di Papa Gregorio Magno e il “nefandissimus” della Pragmatica Sanctio di Giustiniano, l'atto con cui l'imperatore, diventato padrone assoluto di Oriente e Occidente, annullò tutti i provvedimenti adottati da Totila ai danni delle proprietà dei senatori romani.

Antefatti del processo: il regno di Teodorico e la Guerra Gotica

Occorre preliminarmente esaminare il contesto storico in cui l'“imputato” Totila si è mosso: la Guerra Gotica. Questo conflitto fu iniziato da Giustiniano nell’anno 535 col pretesto dell’assassinio della regina Amalasunta, figlia di Teodorico e filobizantina, per mano del cugino Teodato. La guerra iniziò con l'invasione della Sicilia, lasciata quasi incustodita da Teodato. Lo scopo dell'imperatore era riconquistare l'Italia, governata fino a quel momento dalla casata di Teodorico. Durante il regno di Teodorico, che aveva sconfitto su mandato dell’imperatore Anastasio gli Eruli di Odoacre, l’Italia aveva goduto di un periodo di pace e di prosperità. L’illustre re goto aveva rispettato le prerogative del senato romano e finanziato numerose opere pubbliche. Aveva garantito libertà religiosa a tutti i sudditi per quanto egli fosse, come la maggioranza dei Goti, un seguace della dottrina di Ario, bollata di eresia dal concilio di Nicea che stabilì la consustanzialità tra Cristo e il Dio-Padre (secondo Ario, infatti, il Figlio non era compartecipe della stessa divinità assoluta e increata del Padre). Dichiarando che nessuno puo' essere costretto a convertirsi con la forza, Teodorico aveva permesso ai cristiani niceni di conservare le loro chiese e aveva fatto ricostruire alcune sinagoghe incendiate dai cristiani. Nonostante non fosse vessata, la nobiltà senatoria aveva sempre mal visto un dominio straniero da parte di barbari eretici e non aveva mancato di tramare perché l’imperatore Giustino, predecessore di Giustiniano e autore di misure persecutorie ai danni dei cristiani ariani, potesse rientrare in possesso dell’Italia. A quel complotto era seguita una dura repressione da parte di Teodorico, repressione che aveva mietuto come vittima illustre il filosofo Boezio. E con l’incarcerazione di papa Giovanni I, che si era rifiutato di mediare a favore dei cristiani ariani davanti all’imperatore Giustino, si erano creati insanabili attriti fra il sovrano e la Chiesa di Roma. Sono queste le premesse indispensabili per comprendere la Guerra Gotica e l’ostilità dell’aristocrazia romana e nicena verso i Goti. Giustiniano, successore di Giustino, si era prefisso il tanto ambizioso quanto anacronistico obiettivo di riunificare Oriente e Occidente sotto un unico trono. E nello stesso tempo, si era proposto d'imporre a questo impero unificato il solo culto cattolico-niceno, con l'eliminazione di tutti gli altri, tacciati di eresia2.  I Goti erano finiti nel mirino delle rivendicazioni imperiali anche per il fatto di essere seguaci del cristianesimo ariano3. Non è azzardato sostenere che la guerra gotica fu una riconquista del regno d'occidente in nome della fede4. La motivazione di voler debellare i Goti perché eretici e, come tali, nemici dell’ortodossia nicena è infatti riportata nell'alleanza proposta da Giustiniano ai capi dei Franchi per combatterli: «sarebbe giusto che anche voi vi uniste a noi nel sostenere questa guerra, che siamo ugualmente impegnati a condurre non solo per la nostra fede ortodossa che ripudia l'eresia ariana, ma anche per l'odio che entrambi nutriamo per i Goti» (Procopio di Cesarea,  Le guerre: persiana, vandalica, gotica a cura di Craveri M., F.M. Pontani, Torino, Einaudi, 1977 p.357).
Nell'anno 540, dopo le ripetute sconfitte militari di re Vitige, i Goti si erano arresi a Belisario, il Generalissimo di Giustiniano. Vitige era finito prigioniero a Costantinopoli e i Goti riorganizzarono la resistenza all'Impero bizantino nominando loro re Ildebado. Dopo l'assassinio di Ildebado, l'offerta della corona passò a suo nipote Totila (figlio di un suo fratello di cui non ci è stato tramandato il nome). Il giovane condottiero, che si trovava a capo della guarnigione di Treviso, accettò col patto dell'eliminazione di Erarico, re-fantoccio proposto dalla fazione dei Rugi, il quale stava per consegnare a Giustiniano l'intero regno d'Italia in cambio di un arricchimento personale.
Dopo questa breve introduzione, come in ogni processo, inizierò dalle accuse a carico di Totila.

Esame dell'accusa di essere un feroce persecutore di uomini di Chiesa e di cristiani
Si tratta di un'accusa mossa dai Dialoghi di Gregorio Magno ed esasperata dalle agiografie (storie di martiri) scritte nel tardo medioevo dove il re goto compare come un autore di atroci martirii.
Nei Dialoghi Totila è un anticristo i cui propositi sanguinari ai danni di santi vescovi sono spesso vanificati da interventi divini a favore di questi ultimi (interventi che spaventano l'empio sovrano). Così, il “perfidus rex” getta a un orso il vescovo Cerbonio che però ammansisce la belva (Dialoghi 3,11). Dopo il plateale turbamento per i rimproveri e la profezia di morte di San Benedetto (Dialoghi 2,14), il sadismo e la crudeltà di Totila si placano solo per poco. Schernisce il vescovo Cassio che, immediatamente dopo gli insulti, scaccia uno spirito maligno entrato in un soldato goto (Dialoghi 3,6.2) e lega sotto il sole il vescovo Fulgenzio, ma un temporale si abbatte sull’esercito e bagna tutti eccetto il religioso (Dialoghi 3,12). Pur non essendo presente all’assedio di Perugia, ordina a un generale di scorticare vivo e decapitare Ercolano, il vescovo della città. Il generale esegue l’ordine della decapitazione scorticando però Ercolano solo dopo averlo ucciso. La testa e la pelle di Ercolano si riattaccano al cadavere che rimane intatto per quaranta giorni (Dialoghi 3,13). L'incontro di Totila e San Benedetto è forse tra le pagine più note dei Dialoghi. Totila traveste da re un suo scudiero e si reca all'abbazia camuffato da semplice soldato per saggiare le doti di veggente di Benedetto. Il monaco però lo riconosce, gli rimprovera il “molto male” compiuto e gli profetizza la conquista di Roma e la morte al decimo anno di regno, terrorizzandolo (Dialoghi 2,14).
Le agiografie tardo medievali riprendono questa visione demoniaca del sovrano goto. È spesso assai evidente che il Totila rappresentato in esse trascende la realtà storica assumendo il ruolo di simbolo del Male. Un esempio è l’agiografia di San Lauriano scritta oltre quattro secoli dopo la morte del re. Lauriano contesta le dottrine di Ario di cui Totila è seguace e il re manda dei sicari ad assassinarlo. Questi lo scovano e lo decapitano. Allora Lauriano raccoglie la propria testa recisa e li insegue, pregandoli di portarla a Siviglia dal loro re. A differenza del prozio Teudi, Totila non mise mai piede in Spagna né mai vi regnò: questo dimostrata che il Totila di questa agiografia non è una figura storica, ma una figura diabolica, emblema dell’Eresia. In molte agiografie il re goto è persino confuso con Attila5.
A prescindere dalle personali credenze religiose, quale valore hanno queste accuse per lo storico all'interno di una ricerca ispirata ai principi enunciati da Marc Bloch?
Intanto, occorre inquadrare nel suo contesto l'opera di Gregorio Magno, compilata attorno al 594. Il dibattito sull’attribuzione o meno dei Dialoghi al celebre papa è annoso. Alcuni storici li hanno considerati un’opera spuria per la sua bassa espressione stilistica, inadatta a un erudito del suo livello. Gustavo Vinay ha trattato i Dialoghi come un’originale opera letteraria di Gregorio Magno rinunziando quindi a ogni pretesa di attendibilità storica. Già prima di lui, critici come Wansborough, Bolton e Dagens avevano smesso di considerarli una fonte storica6. Gina Fasoli ha visto nei Dialoghi un tentativo di convertire al cattolicesimo la fazione ariana dei Longobardi, divenuti nel frattempo padroni di buona parte dell'Italia: «Il papa manda perciò alla regina dei Longobardi (Teodolinda) i suoi Dialoghi, che con il loro candido raccontare pie leggende e sorprendenti miracoli erano particolarmente adatti ad impressionare e commuovere l’animo di individui emotivi e superstiziosi come erano in massima parte i Longobardi».
(G. Fasoli,I Longobardi in Italia, Bologna 1965 Fasoli 1965, pp. 93-94).
Detto questo in generale, occorre tenere presente che Gregorio Magno proveniva da una famiglia dell’aristocrazia senatoria. E l’aristocrazia senatoria si vide espropriata dei suoi latifondi dalla riforma agraria di Totila. Il sovrano, al suo ingresso in Roma nel dicembre del 546, accusò poi i senatori d'ingratitudine per le loro posizioni filoimperiali e li spogliò delle loro prerogative con dure parole. Non meraviglia quindi l’avversione di Gregorio Magno verso il re dei Goti, già colpevole di essere un eretico. Ma è lo stesso impianto affabulatorio a confinare i racconti su Totila contenuti nei Dialoghi nel territorio della leggenda. L’ammansirsi della belva davanti al cristiano condannato a essere sbranato nell'arena rientra nello schema letterario tipico di molti racconti di martirii risalenti all'età romano-imperiale7 e che si ritrova nel racconto di Cerbonio, gettato da Totila a un orso feroce. L'incontro di Totila e San Benedetto, oltre a riecheggiare la profezia di sconfitta e morte fatta dallo spettro del profeta Samuele a re Saul che si prostra in preda al terrore (Samuele 28,3-20), presenta varie incongruenze. L’incontro tra il re e il santo non può che essere collocato nel 542, quando Totila iniziò la marcia a Sud, tenendo conto che il regno di Totila finì tragicamente nel luglio del 552 con la battaglia di Busta Gallorum. Nel 542 Totila, appena nominato re, non si era di certo distinto per crudeltà, anzi aveva graziato i nemici sconfitti nelle battaglie di Faenza e del Mugello. Il “molto malecompiuto da Totila coincide probabilmente con il fatto di essere “perfidus” per la sua mera adesione al cristianesimo ariano. Infatti, secondo il De Lubac, Gregorio Magno, nel chiamare Totila "perfidus rex", usa l'aggettivo perfidus come sinonimo di eretico8 .  Del resto, nel latino cristiano dell'epoca, il termine “perfidi” indicava tutti coloro che non avevano fede nel cristianesimo niceno: eretici, ebrei e pagani (si veda Fondamentalismo e Fondamentalismi a cura di A.Ales Bello, L.Messinese, A. Molinaro, Città Nuova Edizioni, Roma 2004, p. 63).
 I Dialoghi contengono una visione della Santità, del Bene e del Male con una precisa simbologia. In questa visione, Totila rappresenta il barbaro avversario della romanitas e l'eretico nemico della Vera Fede incarnata da Benedetto e dai vescovi. E come tale, non può che essere una personificazione del Male.

Esame dell’ accusa di essere un tiranno usurpatore e una sciagura per l'Italia

Occorre adesso esaminare il giudizio dato a Totila dalla storiografia ufficiale bizantina che si esprime nell'Auctarium. L'Auctarium è un'aggiunta posteriore al Chronicon di Marcellino Comes. Marcellino Comes, funzionario di Giustiniano, interrompe i suoi annali con l’anno 534. Si tende ad attribuire a un anonimo Continuator l'aggiunta relativa agli anni delle Guerre Gotiche. L'autore attribuisce a Totila non solo la distruzione di Tivoli, ma anche quella di Napoli che invece godette di un trattamento clemente secondo Procopio di Cesarea. Si legge infatti, riferito all'anno 544: «Totila assedia Fermo e Ascoli e distrugge Napoli e Tivoli» .
C’è un’analoga contraddizione per l'anno 545: Procopio ci riferisce che Totila prese Fermo e Ascoli per capitolazione, senza spargimenti di sangue. Il Continuator scrive invece che il re entrò nelle due città, lasciò andar via le truppe bizantine con tutto il loro bottino poi fece depredare e massacrare i civili sfogando su di loro la sua crudeltà9. Sempre riguardo al 545, l'Auctarium afferma che Totila distrusse Spoleto («Totila Spoletium destruit»). Secondo Procopio, invece, il comandante Erodiano consegnò Spoleto a Totila per uno screzio con Belisario e la città non ricevette alcun danno. Queste contraddizioni possono essere risolte tenendo conto degli studi del Mommsen10. Secondo lo storico, l'Auctarium è stato scritto dopo la riconquista bizantina dall'Italia11. Quindi, come cronaca ufficiale della corte imperiale, propone la stessa visione del nemico sconfitto presente nella Pragmatica Sanctio di Giustiniano: il tiranno, l’usurpatore, il nefandissimus Totila. E con la lapidaria condanna della Sanctio come “nefandissimus” e dell’Auctarium come re per la rovina dell’Italia ("malo Italiae”), inizia la leggenda nera di Totila, che lo accompagnerà per tutto il Medioevo, fino all’era odierna. La storiografia di corte ricalca il giudizio di Giustiniano verso il suo nemico12. L’Imperatore, infatti, detestava Totila: il re goto non era imparentato con la dinastia di Teodorico, il sovrano che aveva ricevuto dall’imperatore Anastasio il mandato di governare in Italia, quindi lo vedeva come un usurpatore privo di ogni legittimazione a regnare: un nemico con cui non venire a compromessi e a cui muovere una guerra di annientamento. Fu questo il motivo essenziale per cui Giustiniano respinse tutte le ambascerie di pace mandate a Costantinopoli da Totila, rifiutandosi persino di parlare con i messaggeri.

Esame della testimonianza di Procopio di Cesarea

Procopio di Cesarea, cronista contemporaneo alle guerre gotiche, era a servizio dei Bizantini e avrebbe avuto tutto l’interesse a dipingere a tinte fosche il condottiero nemico. Riportò invece nella sua opera singolari atti di clemenza compiuti da Totila.
Il re dei Goti risparmiò i prigionieri dopo la sua vittoria nella battaglia del Mugello. Espugnata Cuma, ebbe cura che le donne dei senatori là presenti non ricevessero alcun oltraggio dall'esercito.  Al suo ingresso nella città di Napoli, fece nutrire gradualmente la popolazione stremata dall'assedio dimostrando una generosità insolita per un nemico e per un barbaro e consentì al contingente bizantino di ritirarsi incolume dopo averlo persino rifornito di provviste e di animali da soma.
Totila punì senza remore un suo soldato che aveva violentato una ragazza. Il padre della fanciulla, un cittadino romano, si era presentato da lui per denunciargli il fatto. Il re ordinò d’incarcerare il soldato e i suoi comandanti gli chiesero di perdonare il misfatto perché si trattava di un guerriero valoroso. Totila rispose loro: «Non è possibile che un uomo che si è macchiato compiendo un atto di violenza acquisti gloria in combattimento!»13. E il soldato ricevette un castigo esemplare: fu messo a morte e i suoi beni furono assegnati in risarcimento alla sua vittima.
Procopio di Cesarea ci racconta anche della pietà dimostrata da Totila quando conquistò Roma, nell’anno 546. Il diacono Pelagio lo raggiunse nella basilica di San Pietro, dove si era recato a pregare, e lo supplicò di risparmiare la popolazione. Totila lo ascoltò. Inoltre, protesse dalle violenze dei Goti Rusticiana, vedova di Boezio, che stava per essere linciata. Non permise alcuna vendetta su di lei né alcun oltraggio nei confronti delle altre donne. A quel punto, Totila voleva concludere la guerra. Inviò un’ambasceria a Giustiniano con una missiva in cui proponeva all'imperatore la stessa pacifica collaborazione che c'era stata un tempo fra Teodorico e l'imperatore Anastasio. Il re dei Goti concluse la lettera con questa frase: «Se desideri (la pace), sarai considerato da me come un padre e potrai servirti di me come alleato contro chiunque vorrai»14. Giustiniano respinse l’ambasceria. Non considerava Totila un leader degno di trattare con lui, ma un usurpatore e un eretico. Così rispose ai messaggeri goti di andare a trattare con Belisario, il generale a cui aveva affidato la conduzione della guerra (equivaleva a un rifiuto, dato che il Generalissimo era per la guerra a oltranza). Umiliato da quella risposta, Totila minacciò di radere al suolo Roma. Belisario lo dissuase. Gli scrisse che compiendo un'azione del genere, avrebbe coperto il suo nome d'infamia per tutti i secoli a venire.
Diverse città italiane caddero in mano a Totila in modo incruento. Procopio ci riferisce che Totila prese Fermo e Ascoli per capitolazione, che Erodiano, comandante della guarnigione di Spoleto, gli consegnò la città per uno screzio con Belisario e che Assisi gli fu ceduta dagli abitanti, sfibrati dall'assedio. Anche gli assediati nella fortezza di Rossano si arresero a lui. In quel caso, solo il comandante Calazar fu giustiziato perché non aveva mantenuto la parola data ai Goti. Totila lasciò liberi i soldati che non passarono tra le sue fila perché «non voleva che nessuno al mondo si mettesse ai suoi ordini contro voglia»15. La popolazione, pur privata dei suoi averi, non ricevette alcuna violenza fisica. Nel racconto di Procopio l'umanità di Totila spicca davanti alle sistematiche vessazioni e uccisioni perpetrate dai mercenari dell'esercito bizantino: «Gli Italici venivano derubati dei loro beni dall’esercito dell’imperatore e capitava loro di subire violenze fisiche e di venire uccisi senza alcun motivo»16.
Procopio ci racconta infine la morte di Totila nella battaglia di Busta Gallorum (luogo identificabile con l’attuale Sassoferrato) che vide vincitore il generale bizantino Narsete. Il re dei Goti fu inseguito durante la sua ritirata da un drappello di mercenari e gravemente ferito da uno di essi con un colpo di lancia alle spalle. Riuscì a cavalcare fino al villaggio di Caprae, (l’attuale Caprara), dove morì poco dopo. I suoi uomini lo seppellirono in una tomba senza nome, in seguito profanata dai Bizantini per accertare l’identità del defunto. L’ Autore si rammarica per una fine così tragica e, a suo parere, immeritata: afferma che la morte di Totila, dovuta all'imprevedibilità e all'illogicità del destino, «non fu degna delle sue passate imprese» e «non coronò i suoi meriti»17.

Procopio di Cesarea è un testimone attendibile?

Ora bisogna chiedersi se Procopio sia o no un testimone attendibile quando riporta le azioni magnanime di Totila, tenuto conto che in quel periodo non era in Italia al seguito dell’esercito bizantino. Seguì infatti Belisario solo fino alla presa di Ravenna e alla resa di Vitige nell'anno 540. Per quanto si tenda a valutare con cautela le testimonianze indirette, si possono evidenziare alcuni elementi a favore di una buona dose di attendibilità.
Innanzitutto, Procopio va contro i suoi interessi a mostrare Totila come un avversario dotato di umanità e saggezza. Avrebbe potuto assecondare Giustiniano e la corte imperiale dipingendolo a tinte fosche. L’imperatore, infatti, reputava Totila un usurpatore incoronato dai Goti per un mero atto di ribellione.
In secondo luogo, non può dirsi che nell'opera di Procopio ci sia un intento celebrativo di Totila. Troviamo anche alcune punizioni inflitte dal re goto a singoli individui a cui egli attribuiva offese al suo onore, comportamenti sleali o altre violazioni. Azioni che possono sembrare a noi moderni castighi spietati, ma che hanno delle motivazioni ben precise nel contesto storico di riferimento e nel concetto di onore del tempo. Ad esempio, Totila mise a morte il bizantino Isace che gli aveva ucciso l'amico Roderico (per evitare giudizi antistorici bisogna aver presente che vendicare un amico era un punto d’onore per un capo barbarico18), lasciò alla vendetta dei Goti il governatore di Napoli, reo di averlo pesantemente insultato in pubblico e fece mutilare il presule Valentino, catturato in una nave carica di provviste per l’esercito nemico e accusato di aver mentito in interrogatorio su qualcosa che Totila riteneva di vitale importanza (e su cui Procopio tace).19
Procopio riporta infine che l’esercito dei Goti irruppe nottetempo a Tivoli (le cui porte furono aperte dagli stessi soldati romani), saccheggiò la città e uccise in modo orrendo (non racconta come) chiunque vi trovò. Ma non attribuisce il sacco di Tivoli a un ordine di Totila. Infatti, era frequente che bande di mercenari militanti negli eserciti commettessero violenze a prescindere dagli ordini del loro condottiero. Nel 536, quando Belisario espugnò Napoli, i mercenari Massageti gli sfuggirono di mano e nella smania del saccheggio massacrarono civili persino all’interno delle chiese. Per di più, nel 545 erano presenti nell’esercito di Totila molti soggetti smaniosi di far razzia: schiavi sfuggiti ai padroni romani e disertori passati dalle fila di Belisario a quelle dei Goti perché non ricevevano le paghe. È improbabile che Totila abbia ordinato il massacro di Tivoli a scopo intimidatorio verso Roma. Spargere il terrore non era infatti nei suoi intenti politici. Nelle lettere che cercò di far recapitare ai senatori romani dopo la conquista di Napoli, si presentò loro come un liberatore dall’esoso governo dei Bizantini e, dopo averli rimproverati per l’ingratitudine dimostrata ai Goti, si dichiarò disposto a perdonarli per essere passati dalla parte di Belisario, qualora gli avessero consegnato Roma. Promise inoltre che non avrebbe mai recato offesa ad alcun cittadino romano20. Pertanto, non avrebbe avuto alcun senso, dal punto di vista politico, mostrarsi subito dopo come un nemico spietato a cui non conveniva aprire le porte della propria città. La punizione inflitta da Totila alla Sicilia per aver accolto Belisario come liberatore, a dispetto dei privilegi accordati da Teodorico e da Amalasunta (come, ad esempio, l’esenzione dalla tertiarum deputatio, l'obbligo di spartizione delle terre con coloni goti), consistette in razzie di bestiame e di grano presso i latifondi dei senatori, i quali erano in gran parte i proprietari dell'isola. Il re lasciò che la popolazione si asserragliasse nelle città che rinunziò ad assediare. Procopio narra un fatto curioso che mette in luce quanto Totila considerasse il valore di una donna pari a quello di un uomo. Nei pressi di Catania era stato catturato dai Bizantini il consigliere di Totila, un certo Spino. Allora il re disse ai nemici che avrebbe consegnato loro, al posto di Spino, una nobile cittadina romana prigioniera dei Goti. Ma i Bizantini non reputarono un equo scambio prendere una donna al posto di un uomo (Procopio di Cesarea, op.cit.,p.646).
In sostanza, la visione di Totila che emerge dall’opera di Procopio è quella di un nemico capace di punire con rigore, ma non privo di umanità e di giustizia. La clemenza di un nemico, per di più eretico e barbaro, dovette essere un evento così fuori dall’ordinario da suscitare un certo scalpore, quindi è plausibile che le notizie dell'indulgenza di Totila siano giunte a Procopio da resoconti di ambasciatori o militari. Se nella sua opera il re dei Goti compare come avversario valoroso e magnanimo, non c'è niente di sospetto in questo: anche Cesare nel De Bello Gallico riconosce il valore e la grandezza d'animo del suo nemico Vercingetorige. Se è vero che il giudizio benevolo di Procopio verso Totila può essere stato influenzato da un'antipatia dell'Autore verso Narsete, rivale del suo “eroe” Belisario, è anche vero che Narsete intervenne nella campagna militare contro Totila solo alla fine del 550 e che i più eclatanti gesti di clemenza del re goto raccontati da Procopio risalgono a quando combatteva contro Belisario.

Conclusione dell’indagine

A questo punto, dopo un esame critico delle fonti storiche, si rivela opportuno un ridimensionamento delle accuse attribuite a Totila. Nel suo caso sono intuibili i sentimenti che stanno alla radice della sua demonizzazione. Di sicuro, l’odio del patriziato romano. Totila impoverì l’aristocrazia senatoria, alla quale apparteneva anche la famiglia di Gregorio Magno, privandola delle sue prerogative e delle rendite dei propri latifondi. Infatti, in base alla riforma agraria di Totila, i coloni che versavano i tributi ai Goti invece di pagare il canone al loro signore, diventavano proprietari delle terre su cui lavoravano. Questa riforma fu un tentativo di creare una nuova classe abbiente fedele alla causa dei Goti. Uno dei motivi principali della fama di nefandezza di Totila fu quindi il suo progetto di sovversione dell’ordine sociale: coloni che diventavano proprietari delle terre e schiavi elevati alla dignità di guerrieri liberi combattendo tra le fila dell’esercito goto, erano davvero troppo per la nobiltà senatoria filobizantina.
All’odio del ceto senatorio, bisogna aggiungere l’ostilità di Gregorio Magno. La “perfidia” di Totila è legata essenzialmente all'essere un eretico ariano assunto al ruolo di emblema della malvagità e del male. La descrizione di Totila fatta nell’Auctarium, e conseguentemente da Iordanes che se ne serve come fonte, fa propri i risentimenti di Giustiniano. Per lui, Totila non era altro che un barbaro non solo privo di ogni titolo per regnare in Italia, ma anche indegno di negoziare con lui. La spoliazione del ceto senatorio filoimperiale e la riforma agraria furono infatti i primi provvedimenti aboliti dalla Pragmatica Sanctio di Giustiniano, per via dei quali essa lega l'aggettivo nefandissimus al nome di Totila.
Reputo parziale ed eccessivo accusare il re goto di essere stato il solo, malevolo responsabile del protrarsi delle guerre gotiche e della conseguente prostrazione dell’Italia. L'accusa rivolta a Totila di esser stato la sciagura dell'Italia e l'unico responsabile di un decennio di logorante guerra è stata ripetuta per secoli come eco dell'Auctarium, ma oggi sono emerse nuove posizioni. Infatti, negli Atti del convegno “Venezia e Bisanzio, incontro e scontro tra Oriente e Occidente”, del 10 e 11 dicembre del 2011, sono state prese in considerazione le responsabilità di Giustiniano:
«Infine è necessario tornare alla guerra e ai danni provocati da essa. Fu Giustiniano a volere la guerra ed è quindi sensato, anche per questa ragione, riconoscere in lui il principale responsabile degli effetti che essa ebbe». (Si veda S. Liccardo, Declino e caduta del senato. Precedenti, successi ed effetti collaterali della politica di Giustiniano in Italia, Atti del Convegno Venezia e Bisanzio, incontro e scontro tra Oriente e Occidente in Porphyra, giugno 2012, n. XVII, p.54). Anche il senato romano, di cui Giustiniano si presentò come liberatore dal tiranno Totila e dai suoi castighi, finì esautorato a favore di quello di Costantinopoli (Si veda S. Liccardo, op.cit. p.51-53).
Le responsabilità di Totila paiono quindi ridimensionate. Il re dei Goti chiese svariate volte la pace a Giustiniano, il quale respinse sempre i suoi messaggeri. Per Giustiniano, ogni esponente di un culto diverso da quello niceno era un elemento da eliminare in nome dell’unità religiosa del suo impero (per le persecuzioni di pagani ed eretici compiute da Giustiniano si veda F. Cardini, Cristiani perseguitati e persecutori, Salerno Editrice 2011, p.146-149). Alla luce di tale documentata intolleranza religiosa, non è quindi arbitrario ipotizzare che la resistenza dei Goti a Giustiniano sia stata anche una lotta per la libertà religiosa. L’immane sforzo bellico di Giustiniano, mirante a unificare tutto l’impero sotto l’ortodossia cattolico-nicena, ebbe costi umani e finanziari enormi che prostrarono interi Paesi, tra cui l’Italia. Inoltre, dopo la morte dell’imperatore, l'invasione longobarda privò Bisanzio di buona parte dei suoi domini sul territorio italiano. Se Totila, alla vigilia della sua ultima battaglia, respinse i messi di Narsete giunti a proporgli la resa, non lo fece di certo per caparbietà o egoismo. Quale condottiero si sarebbe arreso a un imperatore che gli aveva respinto l’ultima ambasceria di pace dicendo ai messaggeri di odiare il suo popolo e di volerlo cancellare dall’impero21? Che Giustiniano avesse decretato lo sterminio assoluto dei Goti, si vede bene da come Narsete trattò i prigionieri dopo la battaglia di Busta Gallorum: li fece decapitare tutti. Viene quindi da chiedersi cosa sarebbe accaduto a Totila e ai suoi soldati se il re si fosse consegnato ai Bizantini senza combattere. Assai probabilmente, sarebbero andati comunque incontro alla morte o alla schiavitù. Se poi a Busta Gallorum il re dei Goti attaccò il nemico anticipando di sette giorni la data pattuita con i messi bizantini, c’è da chiedersi perché mancò di parola un uomo che, nel racconto di Procopio, l’aveva sempre rispettata reputando la sincerità un punto imprescindibile nelle trattative (elemento che emerge con evidenza nel suo discorso al diacono Pelagio, da lui giunto come negoziatore). Forse la risposta sta in una particolare caratteristica degli eserciti barbarici evidenziata nel trattato dello pseudo Maurizio: «soffrono il caldo eccessivo, il freddo, la pioggia […] e ogni dilazione del combattimento […]. Bisogna poi, nelle battaglie contro di loro,...trarre in lungo e differire il momento dell'azione, far finta d'intavolare trattative con loro, in modo che il loro coraggio e la loro volontà vengano indeboliti[…]» (si veda F. Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Sansoni, Milano 2004, p. 312). Emerge da questo trattato che Goti, Longobardi, Franchi e altri germani si logoravano in modo particolare nell'attesa della battaglia fino al punto di perdere la volontà di combattere. Alla luce di ciò, Totila  può essersi accorto dopo la partenza dei messi bizantini che il suo esercito, sfinito da dieci anni di continue lotte, non avrebbe retto un’attesa di otto giorni utile a riorganizzare i piani e si sarebbe nel frattempo sbandato. Ma Narsete, conoscendo questo punto debole dello sfibrato esercito goto, schierò le sue truppe per l’indomani.
Accogliendo come verisimile la testimonianza di Procopio, c'è da chiedersi quali furono le motivazioni della singolare umanità di Totila. Assai probabilmente, Totila coltivò il sogno di restaurare il prospero regno di Teodorico, fondato sulla pacifica coesistenza dei Goti e della popolazione di origine romana. Vedeva in Teodorico il suo modello di regnante. Che Totila cercasse d’imitare il suo grande predecessore, si vede bene quando, nel corso della prima conquista di Roma, andò a pregare nella basilica di San Pietro: lo stesso gesto che fece Teodorico dopo il suo ingresso trionfale a Roma nell’anno 500. Proprio perché voleva restaurare quella che per lui fu l’epoca d’oro della sua gente, non si abbandonò a inutili crudeltà verso i nemici e la popolazione: considerava sia i Goti che gli Italici suoi sudditi, come sostiene anche Alberto Peruffo: «voleva presentarsi sia come re dei germani che degli italici che considerava anch’essi come suoi sudditi e non solo come nemici» (Si veda  A. Peruffo, Storia militare degli Ostrogoti da Teodorico a Totila, Chillemi 2012, p.35). Durante la sua seconda conquista di Roma (anno 550), Totila tentò poi di riconciliare le due popolazioni: «Quanto a Roma, Totila non volle né distruggerla né abbandonarla a se stessa perché aveva intenzione di popolarla con Goti e Romani insieme e questi ultimi non solo membri del senato, ma cittadini di ogni ceto». (Procopio di Cesarea, op.cit., p. 636). Anche il Liber Pontificalis (Vita Vigili, 7, 107), fu costretto ad ammettere che Totila abitò coi Romani come un padre con i figli (habitavit cum romanis quasi pater cum filiis).

NOTE FINALI
1 Si veda Marc Bloch, Critica storica e critica della testimonianza, 13 luglio 1914, in  M. Bloch, Storici e storia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 11-20.
2 Per le persecuzioni compiute da Giustiniano ai danni di eretici, pagani, Ebrei e Samaritani in nome dell’ortodossia nicena, si veda Franco Cardini, Cristiani perseguitati e persecutori, Salerno Editrice 2011, p.146-149, laddove l'Autore parla dei supplizi a cui venivano sottoposti in base alla legislazione giustinianea.
3 Ario aveva sostenuto che nella Trinità il Figlio non era al pari del Padre e non era quindi compartecipe della stessa divinità assoluta e increata. La sua dottrina fu bollata di eresia.
4 Si veda Alberto Peruffo, Storia militare degli Ostrogoti da Teodorico a Totila, Chillemi 2012, p.19: «tutte le guerre intraprese (da Giustiniano) ebbero un carattere di guerra religiosa contro i nemici della fede».
5 Si veda Laura Carnevale,Totila come perfidus rex tra storia e agiografia, Vetera Christianorum 40, 2003, 43-69, pp.66-67: viene esaminata in dettaglio dall’Autrice la confusione fra  Attila e Totila nella Cronica del Villani e in varie agiografie tardo medievali.
6 W. F. Bolton,The Supra-Historical Sense in the Dialogues of Gregory I, in Aevum 33 (1959), pp. 206-213; C. Dagens,Saint Grégoire le Grand. Culture et expérience chrétienne, Paris 1977 pp.384-391; J. H. Wansborough, St. Gregory’s Intention in the Stories of St. Scholastica and St. Benedict, in Revue Bénédictine, 75 (1965), pp. 145-151.
7 Laura Carnevale, op.cit., p.57 cita a riguardo i martiri di Perpetua, Felicita, Paolo e Tecla.
8 Si veda Henri De Lubac, Esegesi medievale, i quattro sensi della scrittura, vol.3, sez. V, Milano, Editoriale Jaca Book, 1996 p.217.
9 «Crudelitatem suam in Romanos exercuit eosque omnes nudat et necat»: Sfogò la sua crudeltà sui cittadini romani, li privò dei loro beni e li uccise.
10 Si veda Mommsen, Continuator Marcellini (M.G.H.AA, 11, Berolini 1894), 42.
11 Si veda Eliodoro Savino, Campania Tardoantica (284-604 d.C), Parte 3, cap.2, Dalla fine del IV secolo alla guerra greco-gotica, Edipuglia s.r.l,  2005 p. 102.
12 Laura Carnevale, op.cit,  pp. 51-52, spiega la dura posizione del Continuator e di Iordanes nei confronti di Totila con la loro piena adesione politica al punto di vista di Giustiniano secondo cui il tentativo di riconquista dell'Italia da parte di Totila non era altro che un illegittimo atto di ribellione. L'Autrice cita anche A. Amici, Iordanes e la storia gotica, Spoleto 2002, pp. 26.187.
13 Procopio di Cesarea,  Le guerre: persiana, vandalica, gotica a cura di Craveri M., F.M. Pontani, Torino, Einaudi, 1977, p.556
14 Procopio di Cesarea, op.cit, p. 594
15 Procopio di Cesarea, op.cit, p. 615-616
16 Procopio di Cesarea, op.cit, p. 556
17 Procopio di Cesarea, op.cit, p. 755
18 Per il patto d'onore e fratellanza che presso i popoli celtici e germanici legava i compagni d'armi, si veda Franco Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Sansoni, Milano 2004, p.113. Vendicare il compagno caduto in battaglia si poneva come dovere del sopravvissuto.
19 Si veda Laura Carnevale, op.cit, p.48: «Anche se la fonte non consente di conoscere l’oggetto della menzogna, la reazione del re goto mostra come essa dovesse apparirgli molto grave e soprattutto disdicevole per un vescovo».
20 Procopio di Cesarea, op.cit, p.557-558
21«Già più di una volta Totila aveva mandato ambasciatori e questi, ammessi al cospetto dell'imperatore Giustiniano, gli avevano spiegato che i Franchi avevano occupato la maggior parte dell'Italia mentre il resto era quasi del tutto disabitato...e che i Goti erano disposti a lasciare ai Romani la Sicilia e la Dalmazia, le uniche regioni rimaste intatte, e a pagare per il resto dell'Italia, praticamente deserto, tributi e tasse ogni anno, oltre a combattere come alleati contro chiunque l'Imperatore avesse voluto e a rimanere suoi sudditi...Ma l'imperatore non aveva tenuto alcun conto le loro parole e aveva congedato tutti gli ambasciatori avendo in odio anche solo il nome dei Goti e intendendo assolutamente cacciarli dall'impero»: si veda Procopio di Cesarea, op.cit., p. 730

BIGLIOGRAFIA ESSENZIALE


  • Bloch Marc, Critica storica e critica della testimonianza, 13 luglio 1914, in  M. Bloch, Storici e storia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 11-20;
  • Cardini Franco, Alle radici della cavalleria medievale, Sansoni, Milano 2004, p.113;
  • Cardini Franco, Cristiani perseguitati e persecutori, Salerno Editrice 2011;
  • Carnevale Laura, Totila come perfidus rex tra storia e agiografia, Vetera Christianorum 40, 2003, 43-69;
  • De Lubac Henri, Esegesi medievale, i quattro sensi della scrittura, vol.3, sez. V, Milano, Editoriale Jaca Book, 1996;
  • Eliodoro Savino, Campania Tardoantica (284-604 d.C), Parte 3, cap.2, Dalla fine del IV secolo alla guerra greco-gotica, Edipuglia s.r.l,  2005;
  • Fasoli Gina, I Longobardi in Italia, Bologna 1965 Fasoli 1965
  • Gregorio Magno, Storie di santi e diavoli, Vol I, (a c.di S. Pricoco, M.Simonetti), Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 2005;
  • Liccardo Salvatore, Declino e caduta del senato. Precedenti, successi ed effetti collaterali della politica di Giustiniano in Italia, Atti del Convegno Venezia e Bisanzio, incontro e scontro tra Oriente e Occidente in Porphyra, giugno 2012, n. XVII;
  • Marcellinus Comes, Chronicon e Auctarium, Biblioteca digitale di testi latini tardoantichi, Università degli Studi del Piemonte Orientale;
  • Peruffo Alberto, Storia militare degli Ostrogoti da Teodorico a Totila, Chillemi 2012;
  • Procopio di Cesarea,  Le guerre: persiana, vandalica, gotica a cura di Craveri M., F.M. Pontani, Torino, Einaudi 1977;
  • Vinay Gustavo, Alto Medioevo latino. Conversazioni e no, Napoli, Guida Editori 1978 

giovedì 10 settembre 2015

EDOARDO V RE D'INGHILTERRA VISTO DA DELAROCHE

I. IL CONTESTO STORICO [1] 

Edoardo V (a sinistra il quadro di PAUL DELAROCHE - Édouard V, roi mineur d'Angleterre, et Richard, duc d'York, son frère puîné- 1830, Paris Musée du Louvre), erede al trono d’Inghilterra, aveva soltanto dodici anni quando il padre, Edoardo IV morì il 9 aprile 1483. Sebbene non esista alcuna evidenza autografa, Edoardo IV nominò il fratello e zio del futuro sovrano, Lord Protettore del Regno, Riccardo, che per questo motivo decise di recarsi a Londra insieme al nipote. Tale mancanza di evidenze autografe comportava il fatto che il Consiglio Privato avrebbe potuto ignorare le volontà del monarca con la conseguente probabilità per Riccardo di essere estromesso da qualsiasi ingerenza nell’esercizio di influenza del potere regio. Del Consiglio Privato del re faceva parte anche Antonio Woodville, zio materno di Edoardo V, che insieme a Richard Gray radunò duemila armati prendendo il controllo della Torre di Londra con la chiara intenzione di esautorare Riccardo dalla reggenza. Questo tentativo fallì nel giro di pochi giorni: il 29 aprile, infatti, Woodville e Grey vennero arrestati senza opporre resistenza. Venne dunque fissata al 29 giugno la data dell’incoronazione di Edoardo V che, come da tradizione, venne sistemato nella Torre di Londra, dove il 16 giugno fu raggiunto dal fratello minore. Il vero colpo di scena si ebbe l’8 giugno. Robert Stillington[2] (1420-1491), vescovo di Bath, confessò di aver celebrato il matrimonio tra Edoardo IV e Eleanor Talbot, prima che il re sposasse Elisabetta Woodville: Edoardo V e il fratello minore Riccardo erano pertanto figli illegittimi; l’unico vero erede al trono era l’attuale Lord Protettore del Regno. Il 3 luglio Riccardo venne incoronato come sovrano ed il Parlamento legittimò la sua ascesa con l’emanazione del Titulus Regius, una legge che dichiarava illegittimi i principi Edoardo V e Riccardo. Dopo l’incoronazione non si ebbe più alcuna notizia dei due fratelli. Si sa soltanto che dopo l’ascesa al trono di Riccardo III essi furono trasferiti negli appartamenti più interni della Torre. Fino all’autunno del 1483 i due vennero visti giocare all’interno dei giardini della Torre, finchè ne vennero perse definitivamente le tracce. Durante alcuni lavori di restauro della Torre nel 1674 furono ritrovati dei resti ossei all’interno di una scatola. L’involucro fu rinvenuto sotto la scalinata che conduceva alla cappella della Torre Bianca. Quattro anni dopo il rinvenimento, Carlo II ordinò di collocare i resti in un’urna posta nell’Abbazia di Westminster accompagnata da questa iscrizione:

“Qui riposano i resti di Edoardo V, re d’Inghilterra e Riccardo, duca di York. Questi fratelli vennero imprigionati nella Torre di Londra e lì soffocati con i cuscini, sepolti in forma privata e frettolosamente su ordine del loro zio Riccardo l’Usurpatore[3] : le loro ossa, a lungo ricercate e desiderate , vennero ritrovate dopo 191 anni il 17 luglio 1674 ai piedi delle scale dove erano state riposte, e vennero riconosciute secondo prove inconfutabili[4]. Carlo II, principe compassionevole, impietosito dalla loro sventurata sorte, ordinò che questi Principi venissero sepolti tra le tombe dei loro predecessori. Anno 1678, XXX del suo regno”

II. ANALISI DELL’OPERA

L’opera di Delaroche è conservata al Musèe du Louvre di Parigi alla sala 76 del Salon Denon. Il dipinto, olio su tela, è caratterizzato dalle notevoli dimensioni (1.81 m x 2.15 m) e coglie i due protagonisti in una scena verosimile di terrore e solitudine. L’ambiente circostante è spoglio: la luce velata e la sensazione di freddo emanata dai colori, contribuiscono a rendere evidente il senso di abbandono in cui versano i protagonisti. I due fratelli si trovano sul letto, stanno leggendo (o tentando di leggere) un libro, quando qualcosa, un rumore, probabilmente i passi del carnefice, li distoglie dalla lettura. Delaroche ha voluto mettere in evidenza la diversa reazione dei due protagonisti. Il primo a sinistra, identificabile come il piccolo Riccardo di York è terrorizzato. 
Il suo terrore si legge negli occhi, si stringe al fratello cercando calore e protezione, quasi un ultimo tentativo di sfuggire alla morte. Il secondo, Edoardo V, rivolge lo sguardo verso lo spettatore: sembra perso nel vuoto, ma nasconde la consapevolezza, quasi da uomo maturo, di una morte vicina. Un secondo elemento importante è dato dalla presenza di un cane ai piedi del letto. 
Esso, simbolo di fedeltà, è l’unico essere vivente verso cui i due sfortunati fratelli possono riporre la loro fiducia. Ed infatti, quale guardiano dei due sventurati, il cane reagisce al rumore assumendo una posizione di difesa. Una rilettura del tema dei fratelli nella Torre si deve al pittore brasiliano Pedro Américo che con il suo Os filhos de Eduardo IV da Inglatera ha voluto cogliere un’atmosfera diversa rispetto a quella sottolineata dal Delaroche “fotografando” i due bambini abbracciati in un sonno sospeso tra la vita e la morte. In The Princes in the Tower Sir John Everett Millais ritrae i due fratelli all’inizio della prigionia. Anche in quest’opera del 1878, successiva quindi alla lettura di Delaroche, si percepisce un senso di vuoto e solitudine, complice lo sfondo freddo e vuoto. E sebbene Millais riprenda quello sguardo perso nella ricerca di un qualcosa o di un qualcuno, non si raggiunge la profondità e il senso di percezione di fine imminente che si ha nel dipinto di Delaroche. 

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Note

1 La pubblicazione di questo articolo è concessa in esclusiva a www.sguardosulmedioevo.org

2 Robert Stillington fu un personaggio molto ambiguo. Ebbe molta fortuna sotto il regno di Edoardo IV e l’improvvisa confessione di aver celebrato un matrimonio tra il sovrano ed Eleonor Talbot, che di fatto sancì la condanna a morte dei due eredi al trono, desta molti sospetti. Vi è da dire, però, che durante il regno di Riccardo III egli non occupò ruoli di rilievo. Nel 1487 venne coinvolto nella congiura per mettere sul trono Lambert Simnel. Finì la sua vita in carcere morendo nel 1491.

3 Il maggior indiziato dell’assassinio è lo Riccardo III, il quale temeva che il suo potere potesse essere in qualche modo minato dalla presenza dei due fanciulli, la cui innocenza poteva essere usata dai suoi rivali. Tuttavia non sono mai state rinvenute prove inconfutabili in grado di incastrare l’indiziato. La damnatio memoriae messa in atto da Carlo II con questa iscrizione sembra però non lasciare alcuna ombra di dubbio su chi fosse stato il colpevole.

4 Ci si riferisce, probabilmente, alle tracce di abiti di velluto rinvenute insieme ai resti ossei.

Articolo di Alfonso Russo in esclusiva per Sguardo Sul Medioevo. Tutti i diritti riservati.

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