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venerdì 1 maggio 2015

PELLEGRINO LAZIOSI (1265-1345)

Lippi, circoncisione, santo spirito.jpgSono anni cruciali per la città di Forlì, quelli in cui Pellegrino Laziosi nacque, crebbe e visse, che ne vedono il progressivo passaggio da libero comune a signoria sotto il segno degli Ordelaffi. Sono anche gli anni in cui assistiamo al consolidarsi, in Romagna, del dominio temporale della Santa Sede, che andava piegando le ultime sacche di resistenza ghibellina nel territorio, non senza gravi battute d'arresto. E proprio la città di Forlì si caratterizzò, almeno dalla seconda metà del XII secolo alla prima metà del XIII, per una linea politica costantemente filoimperiale, di sostegno alla casa Sveva, che la differenziava nettamente dalla condotta oscillante tra papa ed imperatore degli altri centri romagnoli. Tale indirizzo politico deve essere letto anche alla luce della volontà di preservare, da parte delle oligarchie cittadine, le libertà comunali da ingerenze esterne. Entro le mura, i nuovi ceti popolari e produttivi tendevano a qualificare sempre più la vita comunale cittadina, sfruttando a proprio favore la fase di decadenza della tradizionale nobiltà locale e la non ancora piena affermazione di quella nuova. Anche nel rapporto con il clero era in atto un cambiamento nei rapporti di forza, con la progressiva erosione a loro favore del patrimonio e delle giurisdizioni, soprattutto delle chiese esterne, come quella arcivescovile ravennate. E sempre verso l'esterno c'era da difendersi non solo dalla politica di riappropriazione del Patrimonium Sancti Petri dei papi, ma anche dalle ingerenze forestiere, in particolare fiorentine e bolognesi, tese alla conquista dei mercati romagnoli e ad avere uno sbocco sull'Adriatico; dei secondi soprattutto, che fornirono alla città diversi podestà e capitani del popolo.
E' questa la cornice politica cittadina nella quale si inseriscono episodi importanti della storia forlivese, ma non solo, legati alla figura di Guido da Montefeltro, e che di sicuro dovevano essere noti al giovane Pellegrino se non addirittura vederne la partecipazione, quali la battaglia di San Procolo, nella quale i forlivesi riuscirono vincitori della guelfa Bologna, arrivando ad impossessarsi del carroccio e delle insegne della città emiliana, e l'interdetto al comune da parte di papa Martino IV, l'invio dell'esercito francese guidato da Giovanni d'Appia per la conquista di quella che era diventata una delle ultime roccaforti ghibelline e la schiacciante vittoria dei forlivesi su questi, guidati proprio dal Montefeltro, eletto capitano del popolo, in quella che è ricordata come la battaglia di Forlì o, con le parole dell'Alighieri, il "sanguinoso mucchio", nel 1282. La parabola forlivese di Guido da Montefeltro doveva concludersi l'anno seguente con la sconfitta ad opera dell'esercito papale guidato da Guido di Monforte. Pochi anni dopo, nel 1285, un altra figura emerse nel tenere le redini della città, Maghinardo Pagani, che accentrò nella propria persona le cariche di podestà e capitano del popolo, ma la sua avventura fu di breve durata, morendo egli nel 1302. In questo succedersi di eventi, alcune famiglie iniziarono ad assumere sempre maggior peso nel governo cittadino, ed a scontrarsi tra loro per emergere sulle altre, come i Calboli, ma soprattutto come gli Ordelaffi, che con Scarpetta centreranno questo obiettivo. Da allora, anche se non con continuità, sarebbe stata questa famiglia a legare indissolubilmente il proprio nome al governo della città di Forlì, rientrata definitivamente in orbita romana, come vicari della Santa Sede. Per quanto riguarda la chiesa forlivese, fu nel XIII secolo che si poté assistere all'insediamento in città dei nuovi ordini mendicanti, domenicani e francescani, e degli stessi Servi di Maria, che si andavano affiancando alle comunità monastiche presenti in città, la più importante delle quali era quella dei benedettini Vallombrosani di San Mercuriale, che erano riusciti nel secolo precedente ad imporsi nella vita religiosa della città, gareggiando e forse anche superando per prestigio ed influenza la chiesa cattedrale. Il Duecento si configura pertanto come il secolo in cui i vescovi tentarono, con successo, un delicato lavoro di riaffermazione del proprio primato, aiutati in questo dal crescente culto che i forlivesi andavano tributando al santo martire Valeriano, le cui spoglie riposavano all'interno della cattedrale, e che proprio in questo secolo divenne santo patrono della città di Forlì. Dal canto loro, i nuovi ordini diedero un volto nuovo alla città con le loro chiese ed i loro conventi. Il crescente apprezzamento da parte dei laici è poi testimoniato dagli statuti cittadini e dal ruolo che affidavano loro. Con l'inoltrarsi del XIV secolo assistiamo ad un incremento del numero dei personaggi, viventi o morti solo pochi anni prima, in odore di santità, molti di questi menzionati dalle cronache del tempo: il beato Giacomo Salomoni, il beato Marcolino da Forlì, lo stesso Pellegrino Laziosi solo per citare i più conosciuti. Caratteristiche comuni, l'essere tutti religiosi, rigidi osservanti della regola, dediti ad una vita di silenzio, di preghiera, di mortificazione; tutti loro quasi mai svolsero ruoli pubblici, la loro santità era ben conosciuta dal popolo, che da loro era assistito; il popolo impose un ritardo alla sepoltura per poterne venerare le spoglie e, immediatamente, avvennero molti miracoli debitamente registrati da notai.

Nascita di San Pellegrino

Quando è nato San Pellegrino Laziosi? Sembrerebbe una domanda di facile risposta, eppure persino il secolo che lo avrebbe visto venire al mondo per molto tempo non è stato certo. Non abbiamo infatti vite del santo o documenti redatti quando egli era ancora in vita o morto da poco, se si eccettua un atto notarile stilato il 15 gennaio 1320 che riporta i nomi dei sei frati residenti nel convento dei Servi di Maria di Forlì, il primo dei quali è fra Pellegrino, ma nulla ci autorizza ad affermare con certezza che si tratti del santo. Della prima Legenda scritta su di lui, probabilmente attorno al 1350 da un confratello, si è perduto l'originale e ce ne resta solo una trascrizione ad opera dell'umanista senese Nicolò Borghese, data intorno al 1483.
Il primo a riportare come anno di nascita il 1265 (e come anno di morte il 1345) è stato Tommaso da Verona nel suo Flos Florum, scritto nel 1592. E' però esistita un'altra teoria, la cosiddetta cronologia lunga, che sosteneva che Pellegrino Laziosi fosse nato nel 1322 e morto nel 1402. Oggigiorno si tende ad accogliere come vera la prima, in quanto la cronologia lunga sarebbe stata introdotta soltanto per evitare di vedere coinvolto il santo nell'episodio dell'aggressione a San Filippo Benizi, ma ancora nel 1940 tale teoria era sostenuta dai Bollandisti. Tra le prove però addotte contro di essa, ve n'è una di non poco peso ed è il fatto che una raffigurazione del santo si ha già alla metà XIV secolo, in una affresco nella Basilica di San Clemente dei Servi a Siena attribuito ad Ambrogio Lorenzetti. Come spiegare quindi che egli fosse ritratto quando era ancora in vita, addirittura quasi trentenne se diamo per vera la Cronologia lunga? La datazione dell'affresco è quindi un indizio importante verso la conferma che il santo sia vissuto a cavallo dei secoli XIII-XIV. Tornando alla sua vita la fonte più antica, il Borghese, riporta che san Pellegrino nacque nella città di Forlì, che il padre, dotato più di ricchezza morale e spirituale che materiale, apparteneva alla famiglia dei Laziosi e che Pellegrino fosse figlio unico. Nel corso dei secoli queste scarne notizie sono state arricchite con altre informazioni, che non sappiamo quanto siano attendibili: nel XVII secolo, ad opera di Bernardino Albicini, viene precisato che i genitori si chiamavano Berengario Laziosi e Flora Aspini; al secolo successivo, per la mano di Fabrizio Antonio Monsignani, si deve la prima menzione della casa di proprietà della famiglia in cui Pellegrino sarebbe nato, ubicata in Borgo Schiavonia, all'altezza dell'attuale civico 15 di via Giovita Lazzarini. Proprio lì, il visitatore che vi si recasse, può leggere sulla facciata della costruzione la seguente epigrafe:

Saluti reverente il popolo
la casa in cui all'Italia
e al mondo
Pellegrino Laziosi
tumultuanti le fazioni umane
nacque ghibellino e Santo.
I Forlivesi al concittadino
i Servi di Maria al confratello
27 dicembre 1951

Varcando poi l'ingresso e dirigendosi verso lo scantinato, è ancora visibile una piccola grotta, cui vi si accede oltrepassando un cancelletto di ferro con lo stemma dei Laziosi. Secondo la tradizione è qui che Pellegrino si ritirava in preghiera prima di farsi religioso. Per il resto, non abbiamo altre notizie sull'infanzia e l'adolescenza del santo, fino al momento dello scontro con San Filippo Benizi. Ma per capire meglio cosa possa avere portato il giovane Pellegrino ad un gesto così eclatante, sarà meglio prima soffermarsi sui fatti accaduti a Forlì che precedettero l'arrivo del priore generale dell'Ordine in città.

Il sanguinoso mucchio

Nel 1264, anno che precede la nascita del santo, l'imperatore Rodolfo I rinnovò la rinuncia a Forlì a favore del Papa, ma nonostante questo la città restava saldamente in mano ghibellina, e tale lo fu per ancora molto tempo. Nel 1277 infatti, dopo la guerra tra Forlì e Bologna, i ghibellini della città emiliana, vinti e scacciati dall'avversa fazione guidata dalla famiglia dei Geremi, trovarono rifugio presso la città romagnola. Forlì, inoltre, poteva contare sull'appoggio del partito ghibellino ravennate ed era forte del controllo che esercitava sulle città adiacenti di Cervia, Forlimpopoli, Bertinoro e Cesena. Nel 1281, il francese Simone di Brie, filoangioino e acerrimo avversario dei ghibellini, divenne Papa col nome di Martino IV. Una delle sue prime decisioni prese fu di nominare il capitano dell'esercito di Carlo d'Angiò nonché suo consigliere militare, Giovanni d'Appia, conte e rettore di Romagna e comandante in capo dell'esercito pontificio. Lo stesso re di Francia inviò contingenti delle proprie truppe al servizio del pontefice. Per cercare una trattativa, i forlivesi inviarono un'ambasceria alla corte papale ad Orvieto ma Martino IV, probabilmente su consiglio del partito guelfo, restò irremovibile. Lo scontro armato si faceva quindi vicino. E così, il 20 giugno 1281, Giovanni d'Appia mosse con l'esercito pontificio da Bologna e si accampò tra Faenza e Forlì, dove intimò ai forlivesi di sottomettersi al Papa e di cacciare Guido da Montefeltro e tutti i ghibellini dalla città, inclusi gli esuli bolognesi e quanti del medesimo partito avessero là trovato rifugio. In tutta risposta i forlivesi, rifiutando qualsiasi ritorno sotto l'obbedienza papale, uccisero alcuni guelfi presenti in città, parte dei quali furono bruciati nella torre dove si erano asserragliati. La mossa successiva fu quindi fatta da Giovanni d'Appia il quale, con il proprio esercito, sferrò due attacchi nei dintorni di Forlì nel giugno e nel settembre 1281. Dopodiché si ritirò, volendo approfittare dell'inverno per preparare un'offensiva più massiccia con cui colpire la città non appena la primavera fosse arrivata. Nel frattempo, fece radere al suolo i borghi presso le mura, isolando così Forlì, nella speranza di stremare i suoi abitanti per la fame e le privazioni. Nuovamente la paura tornò a serpeggiare tra i ghibellini forlivesi, che mandarono una seconda volta degli ambasciatori presso il Papa promettendogli che, se fosse stata garantita loro una residenza sicura, avrebbero rilasciato tutti i rifugiati in città. Gli ambasciatori furono ricevuti il 18 novembre. Probabilmente Martino IV doveva sentirsi sicuro della vittoria poiché confermò le sue condizioni dichiarando che, qualora non fossero state soddisfatte, avrebbe colpito i ghibellini forlivesi con una scomunica e la città con un interdetto. Quest'ultima in particolare li avrebbe privati dei riti sacri e li avrebbe resi incapaci di determinati diritti spirituali con ricadute, com'era nella vita del tempo, anche sulla dimensione temporale, quindi politica. Non vedendo realizzato ciò che egli aveva imposto e passati trenta giorni, il 26 marzo 1282, giovedì santo, furono comminate alla città ed ai suoi abitanti le due pene. Unico spiraglio, la concessione di un ulteriore mese ai ghibellini ed a Guido per presentarsi alla Curia pontificia e rispondere della propria condotta. Trascorsi anche questi trenta giorni, il 30 aprile 1282, festa di San Mercuriale patrono della città, fu inviato dal Papa a Giovanni d'Appia l'ordine di muovere contro Forlì ed attaccarla di sorpresa. Quello che però né lui né i soldati francesi avevano considerato era la trappola che Guido da Montefeltro, alla testa dell'esercito ghibellino, aveva teso loro. Quella stessa notte egli, con un centinaio di uomini, era uscito di nascosto dalla città e si era appostato nei suoi dintorni, mentre un altro nucleo si era nascosto nelle case dentro l'abitato. Il giorno seguente i forlivesi finsero di arrendersi, aprendo le porte all'esercito papale. Dopo una giornata trascorsa all'insegna dei festeggiamenti per l'impresa che sembrava riuscita, annebbiati dal vino che doveva essere stato versato a fiumi nelle loro coppe, in serata la capacità combattiva dell'esercito di Giovanni d'Appia doveva essersi notevolmente ridotta. Fu allora che, con un segnale convenuto, il consigliere di Guido da Montefeltro, Guido Bonatti, dall'alto del campanile di San Mercuriale indicò ai ghibellini il momento di passare all'azione. Dalle case in cui si erano nascosti e dal di fuori delle mura Guido ed i suoi irruppero in città, travolgendo i soldati nemici e facendone strage. Le fonti coeve parlano di forti perdite di soldati francesi, al soldo del Papa, chi sostiene ottomila, chi diciottomila unità. A rendere ancora più famoso questo tragico evento, i versi del canto 27 dell'Inferno nella Divina Commedia, dove Dante, a proposito di Forlì, dice:

la terra che fè già lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio

Non restava che dare pietosa sepoltura a queste vittime della guerra. Si adoperò allora in tal senso un frate domenicano del convento cittadino, il beato Giacomo Salomoni, esortando i forlivesi a dare a questi soldati un degno luogo in cui riposare in pace. In loro memoria fu poi eretto un piccolo tempio, comunemente chiamato La Crocetta, nel Campo dell'Abate, l'odierna Piazza Saffi, all'incirca dove oggi si erge il monumento ad Aurelio Saffi. Qui ogni lunedì si celebrava un ufficio in suffraggio delle anime dei caduti nello scontro.

La visita di San Filippo Benizi: l'episodio dello schiaffo

Deciso a far rientrare Forlì sotto il diretto controllo della Curia, Martino IV confermò l'interdetto alla città per ben quatto volte (18 novembre 1282; 23 febbraio, 15 aprile e 27 maggio 1283). Contemporaneamente, ricostituì il proprio esercito, questa volta mettendovi alla guida Guy di Monfort che in diverse occasioni riuscì ad avere la meglio su Guido da Montefeltro. A quest'ultimo non restava che rifugiare in Toscana. Forlì capitolò il 28 maggio 1283, tornando sotto l'obbedienza del Papa. Proprio in questo biennio, tra il sanguinoso mucchio (1282) e la capitolazione della città (1283), si colloca la visita in città di San Filippo Benizzi. Che questa non sia solo un aneddoto agiografico o una supposizione di qualche storico lo dimostra il documento sopracitato del 1289, una partita del registro di fra Lotaringo da Firenze, successore di Benizi come priore generale dell'Ordine. E' interessante riportarla adesso per intero, tradotta dal latino:
Il priore generale restituì al convento di Forlì sette fiorini d'oro, che fra Filippo aveva ricevuto da fra Galgano, dai beni del convento suddetto, al tempo della scomunica; per i quali gli diede un breviario, che era appartenuto a fra Bartolo Scandella. Da questo documento apprendiamo quindi che San Filippo Benizi era a Forlì al tempo in cui era stato lanciato uno degli interdetti di Papa Martino IV, e che in questa visita ricevette del denaro dal convento dei Servi di Maria. Tale denaro servì probabilmente al priore per le spese che l'Ordine dovette sostenere in quegli anni al fine di garantire la propria sopravvivenza in seguito alla riconferma della disposizione sugli ordini di nuova fondazione ratificata durante il Concilio di Lione II del 1274.
Ma lo scopo principale, o almeno non l'unico, della visita di Filippo Benizi a Forlì non doveva essere questo. Se infatti la Vita del Borghese nulla dice di San Pellegrino prima della sua conversione, un altro testo, il Chronicon scritto dal frate dei Servi di Maria Michele Poccianti nel 1567 a Firenze, ci dà un'ulteriore informazione, che la decisione di prendere i voti ed entrare nell'ordine sarebbe maturata nel santo in seguito ad una visita in città di Filippo Benizi. Il Poccianti infatti, dichiarando di raccogliere una tradizione trasmessa da alcuni tra i frati più antichi dell'ordine, non solo conferma che essa sarebbe avvenuta durante l'interdetto papale, ma ci illumina su quello che egli fece in città oltre a visitare il locale convento e cioè che tenne una predica per esortare i forlivesi a tornare sotto l'obbedienza del Papa e che questa era ispirata al salmo 91,1: Il Signore regna, tremino i popoli. La reazione degli uditori non fu però benevola poiché il futuro santo fu malmenato e gli fu imposto di lasciare la città. Tra gli aggressori, ci sarebbe stato anche lo stesso Pellegrino Laziosi. Il racconto prosegue quindi con un secondo incontro tra Pellegrino e Filippo e la decisione del primo di farsi Servo di Maria. Neanche quarant'anni dopo, nel 1604, un altro frate, Arcangelo Giani, nel suo Della Historia del b. Filippo Benizii, e negli Annales OSM che farà pubblicare nel 1618, ritorna su questo episodio, e lo arricchisce di nuove informazioni: specifica, ma invero non è una notizia molto importante, che l'aggressione di Pellegrino al priore consistette in uno schiaffo, che essa avvenne quando egli aveva 18 anni e soprattutto avanza l'ipotesi che San Filippo Benizi fosse stato mandato a Forlì da Papa Martino IV. Ora, prove documentarie che possano suffragarla non esistono, però bisogna tener presente che effettivamente in quegli anni egli intrattenne rapporti con la Curia Pontificia per garantire la sopravvivenza dell'Ordine dei Servi. Quindi, non è del tutto fuori luogo teorizzare che, per conquistare il favore del Papa, e dovendovicisi recare per raccogliere denaro atto alla medesima causa, Filippo abbia acconsentito alla richiesta di Martino IV di andare a Forlì per una di quelle missioni di pacificazione che aveva già svolto con esiti positivi in altre città. Inoltre, qualora questa ipotesi fosse vera, si avrebbe una motivazione che spiegherebbe l'aggressione dei forlivesi e dello stesso Pellegrino: in quel momento il priore dei Servi di Maria si presentava come emissario del Papa, inteso non come guida spirituale dei cristiani, ma come un sovrano temporale che stava conquistando la città. Resta a questo punto da chiarire perché tale episodio di non poca importanza inizi ad essere riportato soltanto a partire dal XVI secolo. Si è già detto che esso non compare affatto nell'opera di Nicolò Borghese. Ma anche il Poccianti, che per primo ne parla, sembra volerlo considerare un fatto che non si sa quanto realmente accaduto. Se infatti riporta che questa notizia è stata desunta dalla tradizione, più avanti, quando menziona la cronologia lunga, si pronuncia a favore di quest'ultima, precisando che la si è potuta ricavare dagli Annali di alcuni Padri, quasi a volerle dare un fondamento, diremmo oggi, scientifico. Spostare la vita di San Pellegrino di un secolo ha come logica conseguenza il dover ammettere che l'incontro tra lui e San Filippo Benizzi non sarebbe potuto avvenire, e quindi neanche l'episodio dello schiaffo, evidentemente considerato un episodio non consono alla vita di un futuro santo. Allo stesso modo si spiega la negazione, anche questa già riportata, dell'esistenza di un convento dei Servi di Maria a Forlì in quegli anni da parte del Borghese: se non ve n'era uno in città allora San Filippo Benizi non avrebbe potuto visitare lo stesso, facendo in questo modo cadere uno dei motivi del suo viaggio a Forlì. Che questo schiaffo, o una più generica aggressione al priore generale dell'Ordine da parte del giovane Pellegrino sia stato per lungo tempo un episodio scomodo da ammettere ne dà testimonianza un carteggio intercorso nel 1672 tra il Consiglio Comunale di Forlì e la Congregazione dell'Indice di Roma. Oggetto delle missive, una redazione della vita di San Filippo Benizi scritta dal frate servita Giuseppe M. Grossi l'anno precedente, nella quale veniva riportata l'aggressione al santo da parte dei forlivesi e dello stesso Pellegrino. Appena pubblicata l'opera, il Consiglio Comunale di Forlì decise di ricorrere a Roma per ottenere la sospensione del libro, adducendo come giustificazione le inesattezze là inserite che gettavano cattiva luce sul sentimento cristiano dei forlivesi.
A chi vanta d'esser figlio -si legge infatti in una delle lettere -ben degno di questa Patria è superflua ogni più viva raccomandazione di questo affare, massimamente dove si tratta di testimoniare agli occhi del mondo tutto la non perduta fede di questa città. La Congregazione dell'Indice accolse il ricorso ed ingiunse al Procuratore generale dei Servi di Maria di ristampare l'opera, eliminando le notizie che erano risultate offensive per i forlivesi e ripresentando l'episodio con toni più morbidi. In aggiunta, furono introdotte le seguenti righe:
Non vi sia però chi da questa ribellione arguisca che la città di Forlì fosse in quei tempi infetta d'heresia, che si come ella fu sempre lontana da questa peste, così io mai hebbi pensiero di dargli questa taccia.
In una lettera inviata allo storico forlivese Sigismondo Marchesi, p. Grossi però ribadiva con queste parole la veridicità dell'episodio:
Persisto nel racconto che il Beato Pellegrino dasse uno schiaffo a San Filippo, havendolo trovato sopra tutte le historie della Religione e sopra le vita del Santo.

La conversione e l'ingresso nell'ordine a Siena

Anche sulle dinamiche della conversione di San Pellegrino esistono due versioni. La più antica, quella riportata dal Borghese, riferisce che essa sarebbe maturata in seguito ad una visita alla cattedrale. Qui, pregando innanzi ad un'immagine della Vergine e supplicandola di mostrargli la via della sua salvezza, avrebbe da lei ascoltato parole che lo avrebbero indirizzato ad entrare nell'ordine dei Servi di Maria, ordine del quale, è sempre il Borghese a riportarlo, Pellegrino aveva sentito parlare ma di cui era all'oscuro su dove dimorassero i frati, non essendovi a Forlì alcun convento. L'immagine che gli avrebbe parlato, secondo la tradizione viene indicata come quella della Madonna delle Grazie, così chiamata perché originariamente si trovava nell'oratorio dei Battuti Bianchi (l'attuale San Sebastiano), chiamato anche Santa Maria delle Grazie. Dopo essere stata trasferita in cattedrale, fu successivamente (nel 1690) trasportata nella sua attuale collocazione, la cappella della Canonica, dal vescovo Giovanni Rasponi. Ancora oggi si può leggere sulla targa in legno dorato incastonata nella cornice, in latino

Questa immagine della Beata Vergine una volta parlò al Beato Pellegrino

Secondo la critica artistica l'affresco è opera del bolognese Orazio di Jacopo, documentato dal 1410 al 1449. Se ciò fosse vero si presenterebbero dunque problemi cronologici, in quanto l'artista sarebbe nato quantomeno nella seconda metà del XIV secolo, mentre l'evento miracoloso si sarebbe svolto nella seconda metà del Duecento. Pertanto, si può avanzare qualche riserva che questa possa essere l'immagine della Vergine che parlò a Pellegrino. Da quando inizia a comparire nelle sua biografia l'episodio dell'aggressione a San Filippo, ecco che muta anche il contesto in cui la sua conversione sarebbe maturata. All'emergere nelle cronache di questo gesto veemente, si precisa che immediatamente dopo Pellegrino se ne sarebbe pentito, avrebbe raggiunto San Filippo e, gettandosi ai suoi piedi, gli avrebbe chiesto di vestire l'abito dei Servi di Maria. Una tradizione, che a dire il vero non sembra precedente al XVII secolo, ci informa che l'incontro sarebbe avvenuto a 5 chilometri da Forlì, presso il fiume Ronco, là dove sorgeva un oratorio chiamato “La Grotta”, demolito nel 1875 per allargare la strada che conduce a Meldola. C'è stato in passato chi ha ritenuto essere questo edificio la primitiva sede dei Servi a Forlì. Ma tale ipotesi è infondata dal momento che esso fu donato all'Ordine nel 1618, assieme ad alcuni terreni, da Lavinia Merlini. Da qui in poi le due versioni iniziano a coincidere nel riportare gli accadimenti e ci parlano dell'ingresso nell'Ordine di Pellegrino a Siena.
A questo punto sono doverose alcune considerazioni. La divergenza delle due narrazioni non è poi così profonda, nel senso che una non esclude l'altra. San Pellegrino potrebbe benissimo essersi pentito dell'aggressione a San Filippo Benizi ed averlo raggiunto per manifestare il suo pentimento e la volontà di prendere i voti, ma i due episodi potrebbero non essere avvenuti in tempi ravvicinati. Il primo potrebbe avere maturato la sua decisione anche tempo dopo la visita del secondo a Forlì, in preghiera davanti all'immagine della Vergine, allorquando sarebbe avvenuto il mistico dialogo, e solo in un secondo momento potrebbe essersi messo alla ricerca dell'altro, magari dopo aver parlato con i Servi del convento forlivese ed essere stato informato sulla caratura morale e spirituale della persona che aveva schiaffeggiato, per chiedere perdono del gesto e comunicargli la propria decisione di voler entrare nell'ordine. Naturalmente queste sono soltanto delle congetture, ma se fosse vero che all'epoca dell'aggressione il santo forlivese aveva diciotto anni e che quando divenne frate ne aveva trenta, allora realmente dobbiamo ammettere che i due episodi non sono da collocare in un'unica sequenza temporale. Vero è anche, d'altro canto, che l'incontro non poté avvenire più di dieci anni dopo, in quanto San Filippo era deceduto nel 1285. Altro punto da chiarire, perché Pellegrino si reca a Siena per prendere i voti, quando invece le Costituzioni dell'Ordine prescrivevano che l'ingresso del candidato dovesse avvenire nel luogo di origine? Si potrebbe avanzare l'ipotesi, peraltro già formulata da altri, che egli avesse un passato scomodo che non rendeva la cosa possibile nella sua città natale. Ma con più probabilità, ed anche questa è un'ipotesi già avanzata, è da tirare in ballo il canone 23° del Concilio di Lione II, che proibiva di accogliere nuovi membri negli Ordini Mendicanti non ancora definitivamente approvati dalla Santa Sede ad eccezione dei Minori (francescani) e dei Predicatori (domenicani). Il convento di Siena era, e lo è tutt'oggi, considerato il secondo cenobio dell'Ordine dei Servi di Maria, emanazione diretta di quello del Monte Senario. A partire dal 1287, inoltre, era posto sotto la personale protezione di Papa Nicolò IV e forse tutto questo rendeva possibile ai frati lì residenti il poter aggirare il suddetto canone. Abbiamo poi accennato all'informazione che Pellegrino avesse trent'anni quando entrò nell'ordine. Essa può essere dedotta, come è stato fatto dagli studiosi, sulla base del passo tratto dalla vita del Borghese che ci dice:

All'età di trent'anni [Pellegrino] era a tutti [i confratelli] esempio di santa vita.

Orbene, secondo un topos dell'agiografia medievale la condotta del santo deve eccellere su quella dei confratelli già fin dal suo ingresso in convento. Affermare pertanto che Pellegrino a trent'anni conduceva una vita esemplare, equivale a dire che egli entrò nell'Ordine a quell'età, ossia tra il 1290 ed il 1295. Ed è proprio in questa occasione che un altro evento miracoloso avviene nella sua vita. Narra sempre il Borghese:
Compiuto quel rito [della vestizione per l'ingresso nell'Ordine] un meraviglioso splendore avvolse il suo capo, come per attestare che egli avrebbe custodito con fedeltà integerrima castità, obbedienza e povertà, secondo l'impegno che aveva professato. La comunità di Siena all'epoca era nota per il suo rigore all'osservanza religiosa, tanto da non essere sempre vista di buon occhio da tutti. Inoltre, durante il periodo trascorso nel convento senese Pellegrino ebbe modo di conoscere due suoi confratelli, Gioacchino e Francesco da Siena, che in seguito sarebbero stati proclamati beati ed, è solo un'ipotesi ma nulla vieta di formularla, può ben darsi che abbia avuto modo di incontrare anche uno dei sette fondatori, Alessio Falconieri, morto nel 1310. C'è da considerare poi che, negli stessi anni in cui Pellegrino entrava a far parte dei Servi di Maria, un altro personaggio stava rispondendo alla medesima chiamata nell'indirizzare la propria vita, una figura che sicuramente il santo forlivese dovette incontrare, se non esserne in contatto diretto. Si tratta di Pietro da Todi che diventerà priore generale dell'Ordine nel 1314. Proprio negli anni senesi, ecco sorgere un piccolo dilemma sulla vita del santo forlivese. A partire dal XVII secolo, ed il primo fu Bernardino Albicini, gli autori che trattano di lui iniziarono a sostenere che nella città toscana Pellegrino fu ordinato sacerdote. Ad avvallare questa ipotesi, un manoscritto dello pseudo fra Vitale Avanzi, che poi si è rivelato essere un falso. Ma ciò non impedì che, sulla base di questa infondata notizia, la devozione, più campanilistica che religiosa invero, ricamasse una serie di aneddoti a conferma del presunto ministero sacerdotale di Pellegrino. Oggi sappiamo che egli non fu ordinato sacerdote, e lo deduciamo dall'assenza di questa informazione nella Vita scritta dal Borghese, quando invece nelle Vite di altri santi e beati scritte dallo stesso autore è sempre stata sua premura informarci in maniera accurata in tal senso.

Vita nascosta nel convento di Forlì

Torniamo ancora una volta alla fonte più antica, la Vita del Borghese. Essa ci dice che, dopo i trent'anni, Pellegrino fece ritorno a Forlì, per comando del suo superiore e per mettere in pratica la legge del Signore. Ignoriamo la data precisa, ma sappiamo che da allora in poi egli non abbandonò più la sua città natale. Eppure della sua presenza in convento non restano molte tracce, se non forse il documento citato in precedenza e che ci informa che il 15 gennaio 1320 Nicola da Siena fu eletto come rappresentante dei frati per ricevere una somma di denaro lasciata in eredità al convento da un certo Ugo defunto da poco. I frati, raccolti nella Sala Capitolare, risultano sei: fra Pellegrino, fra Andrea, fra Francesco, fra Pietro Ravignani, fra Marino da Forlì, e fra Marco da Cesena. Come trascorreva le giornate Pellegrino all'interno del convento? E' ancora una volta il Borghese a venirci in soccorso, scrivendo che Qui in maniera straordinaria afflisse il suo corpo con veglie, digiuni e macerazioni. […] Di notte […] la passava quasi del tutto nella lettura di inni e salmi. Meditava incessantemente la legge di Dio. […] Il sant'uomo si faceva colpevole di molte cose, mosso com'era dal bruciante desiderio di osservare integralmente la legge divina.
Dopo l'iniziale affidamento alla Vergine, adesso nel santo emerge una tensione cristologica, poiché, è sempre il Borghese Bramava imitare gli esempi di Cristo con tutte le sue forze. L'attitudine contemplativa doveva essere forte in Pellegrino, infatti Ogni giorno esaminava tra sé le proprie azioni, piangendo offese e mancanze che gli pareva di avere commesse. Quotidianamente le manifestava al sacerdote e con molte lacrime confessava. Altre attività possono essere invece colte in modo indiretto, leggendo tra righe alcuni episodi della sua vita. Si prenda, per esempio, quello dei suoi funerali: l'alta affluenza di persone che giunsero anche dal contado, quasi in pellegrinaggio alla sua salma, potrebbe essere stato indice dell'impegno caritatevole svolto dal santo quando era in vita verso i più bisognosi. Una conferma in questo senso potrebbe venire dal Dialogus de origine Ordinis Servorum scritto da fra Paolo Attavanti intorno al 1465. Quest'opera immagina un dialogo tra il vescovo di Cortona Mariano Salvini ed il signore di Firenze Petro di Cosimo de' Medici, attraverso il quale vengono enunciate le principali vicende dell'ordine. Parlando della figura di Pellegrino Laziosi, il vescovo ricorda alcuni prodigi operati dal santo, quali la resurrezione di alcuni morti e la moltiplicazione del grano e del vino in favore dei poveri e degli indigenti. Attività caritatevole, del resto, in linea con gli intenti dell'Ordine, che nel capitolo convocato a Bologna il 1 maggio 1320 stabiliva: Vogliamo e ordiniamo che in nessun tempo sia trascurata l'elemosina alla porta, secondo le possibilità dei conventi.
Se diamo poi fede al Monsignani, che scrisse sì nel XVIII secolo, ma che non si vede perché non debba essere creduto, per Pellegrino lo Spedale era il giardino del suo diporto certamente impegnato nell'assistenza ed aiuto agli ammalati ed agli infermi. Come ultima informazione in nostro possesso, ed è sempre il Borghese a riferirlo, egli praticò un particolare tipo di penitenza. Riporta infatti l'autore senese [Pellegrino] per trent'anni non fu mai visto sedersi: sempre in piedi mentre mangiava; pregava genuflesso; vinto talora dalla stanchezza o dal sonno, per poco tempo s'appoggiava ad un sasso o, trovandosi in coro, ad una panca. Di notte non si coricava […]. Più di un autore contemporaneo, nel trattare la figura del santo forlivese, soffermandosi su questo punto ha convenuto che esso non vada preso alla lettera, ma che vada letto come una interpretazione simbolica della vita di Pellegrino dal momento che, secondo le Sacre Scritture, il numero trenta indica la perfezione. Le fonti, a dire il vero tarde, ci informano anche su dove fosse la cella di Pellegrino. Essa, poco dopo la sua morte fu trasformata nella Cappella del noviziato e sotto l’altare vi fu murata la pietra su cui, secondo la tradizione, il santo posava il capo nei brevi momenti di riposo (elemento questo che conferma che i trenta anni sempre in piedi riferiti dal Borghese vadano letti in chiave simbolica). Questa cappella era visibile fino al 1867, anno delle soppressioni avviate dal nascente Regno d’Italia. Alienato il convento, esso fu trasformato nel 1870 nella sede della Giustizia, un tribunale, e la cella fu demolita per creare il lucernario delle scale che portavano alla Corte d’Assise. In ricordo dell’ubicazione della cella, fu posta una lapide, anche questa sparita dal 1940.

La miracolosa guarigione

Dio, ottimo e misericordioso – che è solito mettere alla prova, e con la prova irrobustire coloro che ardono di soprannaturale – riversò su Pellegrino una molestissima malattia. Infatti una gamba talmente gonfiò e deperì, che tutti coloro i quali frequentavano per dovere Pellegrino non riuscivano a trattenere le lacrime. Alla piaga e allo straordinario gonfiore della gamba si aggiunse quel terribile morbo che chiamano cancro, dal quale dilagava un tale fetore intollerabile a coloro che lo assistevano. Per questo motivo già era abbandonato da quelli che gli stavano vicino; anzi, era diventato stomachevole perfino a se stesso. Il lungo passo tratto dalla Vita del Borghese fa comprendere che, su questo episodio, esso è una fonte imprescindibile e che documenta molto bene quanto accadde. Lo stare in piedi per molto tempo aveva senz'altro lasciato il suo segno sul corpo di Pellegrino. C'è tuttavia da precisare che la parola cancro non deve essere letta nell'accezione clinica odierna, ma di un male incurabile, almeno per la medicina del tempo. Da come viene descritta dall'autore, doveva trattarsi molto probabilmente di una piaga ulcerosa, con grossa tumefazione. Che Pellegrino ne dovesse soffrire realmente sono testimonianza le analisi condotte sul suo scheletro in occasione dell'ultima ricognizione canonica, effettuata il 6 aprile 1958. Il primario dell'Ospedale G.B. Morgagni incaricato, dottor Mario Loreti, rilasciò la seguente dichiarazione:
E' agevole riconoscere in tutto ciò e nel precedente anamnestico della penitenza che il Santo si impose per 30 anni il quadro delle vene varicose, che, generalmente si instaura in coloro che, avendo una predisposizione congenita, sono costretti a mantenere la stazione eretta per molte ore della giornata per moltissimi anni […] Per mancanza di idonea medicazione, per la trascuratezza voluta da S. Pellegrino ed infine per la molteplice associazione microbica, [la piaga] era in uno stato di grave suppurazione ed emanava il fetore insopportabile per coloro che si avvicinavano al Santo.
Il medico deduce che la piaga era situata all'arto inferiore destro perché [il piede destro] facendo il confronto con quello sinistro, è arcuato in flessione […] e le dita dello stesso piede, all'infuori del primo, sono pure esse stesse arcuate in flessione. Ciò dimostra che il Santo, probabilmente, per una posizione antalgica, per molto tempo, fu costretto a camminare poggiando il piede destro con la sola parte calcaneare, cosicché il piede assunse una posizione di anchilosi in forzata flessione. Pellegrino sopportava tutto questo con evangelica fortezza, tanto che Dalla gente era detto nuovo Giobbe, tanto appariva svigorito e dolente. Tuttavia, ridotto in così grande e molesta sofferenza, non compiangeva con lamenti la propria sorte; ma una simile malattia e sofferenza sosteneva con animo inalterabile, fiducioso nella parola dell'Apostolo che dice: “Nell'infermità la virtù di perfeziona”.
Non restava altro da fare, per la salute di Pellegrino, che amputare la gamba. Questo era il parere del medico che lo visitò, Paolo Salaghi. Il suo nome ricorre in diversi documenti del tempo. Sappiamo infatti che abitava nella contrada di Campostrino, che svolgeva la professione di medico, aveva un figlio di nome Nerio e che suo padre si chiamava Raniero. Notizie su di lui compaiono almeno fino al 1372. Nel 1375 risulta defunto. Con il consenso dei confratelli, e dello stesso Pellegrino si decise di assecondare il suo parere
stimando essere conveniente sacrificare un membro piuttosto che lasciar perire il tutto. La notte precedente l'intervento, dopo aver lungamente riflettuto su quella decisione, Pellegrino, trascinandosi a fatica dalla sua cella alla Sala Capitolare, forse perché non pienamente convinto su quella soluzione, decise di pregare il Crocifisso che là si trovava, e che si trova tutt'oggi. L’opera, un affresco tornato alla sua collocazione originaria negli anni ’60 dopo che nel 1888 fu staccato per essere esposto nella Pinacoteca della città, è stato con ogni probabilità realizzato entro la prima decade del Trecento, forse tra il 1306 ed il 1307, in occasione del Consiglio generale dell’Ordine che si tenne nel convento di Forlì l'8 maggio 1308. In base all'analisi stilistica è stato attribuito ad un pittore riminese di scuola giottesca. I nomi proposti sono stati diversi, ma per lo stile e per la datazione, ci si è orientati su quello di Giuliano da Rimini. Mentre era in preghiera, quantunque dolorante, Pellegrino si addormentò. Nel sonno, vide Gesù crocifisso discendere dalla croce e liberarlo da ogni languore alla gamba. È qui rintracciabile una pratica abbastanza documentata dall’agiografia medievale, chiamata dagli storici incubazione. Gli elementi ci sono tutti: la malattia (la piaga ulcerosa); la presenza del malato, durante la notte, in un luogo dalla forte valenza religiosa (la Sala Capitolare in cui è presente il Cristo crocifisso); il fatto che il momento della giornata favorisca l'assopimento; l'apparizione del santo (ma in questo caso di tratta di Gesù) guaritore; il cadere del malato nel sonno senza che ci sia una vera e propria volontà di dormire. Ringraziato il Signore per quell'evento miracoloso che lo aveva guarito, tornò nella sua cella. L'indomani, ecco arrivare il Salaghi per l'amputazione, ma Pellegrino gli dice di far ritorno a casa perché un altro medico lo ha sanato. A questo punto della Vita veniamo a sapere che Gesù non solo gli è apparso ma ha rivolto a lui queste parole:
Io sono colui che ridonai la vista ai ciechi, mondai i lebbrosi, sanai i paralitici, risuscitai dagli inferi i morti. Ecco, io sono colui che nessuna fatica, nessun obbrobrio – neppure un acerbissimo genere di morte – ricusai per la vostra salvezza.
Al pronunciarle il medico ritiene che Pellegrino vaneggi per il forte dolore procuratogli dal male e gli chiede di mostrargli la gamba. Il frate di Servi non solo asseconda la richiesta ma aggiunge queste parole Il Principe della medicina e l'Autore della umana salvezza ha allontanato con la sua potenza ogni mia infermità. […] Guarda, e sappi quale medico ho avuto!
A dire il vero, come si può intendere bene dall'ultima frase, la reazione all'arrivo di Paolo Salaghi è alquanto indolente forse, come non ha mancato di sottolineare qualcuno, perché Pellegrino prova per la prima volta un senso di liberazione dal dolore e da un destino, il vivere con una gamba amputata, che gli dovevano sembrare inevitabili. Il Santo infatti, alla richiesta di mostrare la gamba da parte del medico aveva dato come pronta risposta Medico, cura te stesso! Di questa tua arte io non ho più bisogno.
In questo suo modo di interagire col medico sembra riemergere quel lato altezzoso del carattere di Pellegrino che già si è incontrato in gioventù ai tempi dell'incontro-scontro con San Filippo Benizi. Se si vuole, quindi, questo episodio potrebbe essere preso come ulteriore conferma, seppure indiretta, della veridicità di quel fatto. Alla vista della gamba guarita, Salaghi resta stupito e dice ai suoi assistenti O fatto stupendo!. Lasciato il convento, a tutti quelli che incontrava riferiva di quel prodigio divino, studiando il modo di renderlo manifesto a tutta la città. Ed in effetti, ben presto, quando accaduto quella notte divenne noto ai forlivesi e a quanti abitassero il contado, generando una grandissima venerazione verso Pellegrino, l'amico di Dio.

La morte

Pellegrino Laziosi morì all'età di 80 anni circa, a causa di una febbre fortissima. Per l'epoca, con un'aspettativa di vita che non arrivava di certo a quella attuale, era un'età veneranda. Durante il processo di canonizzazione si attribuì il deperimento, e la comparsa della febbre, alle durissime penitenze e ad un'alimentazione molto povera. Tradizionalmente, la data della sua morte è fissata al 1 maggio 1345, così è attesto anche dal Martiriologio del Maurolico del 1576. La Vergine lo aveva indirizzato in gioventù alla scelta di consacrare la sua vita a Dio, la Vergine lo conduce nel trapasso agli onori del regno celeste, e con lei i beati Filippo Fiorentino e Francesco senese, anche loro Servi di Maria. Da ciò che restava in questo mondo, dal suo corpo inanimato, ci riporta il Borghese si sprigionò un profumo soavissimo, tanto che i presenti restarono altamente meravigliati da quella straordinaria fragranza. Questo, adagiato in una bara, una cassa dipinta con scene della vita e dei miracoli di Pellegrino che Carlo Cignani, nel 1697, attribuiva alla mano del pittore Baldassarre Carrari ed oggi purtroppo perduta, fu esposto nel coro della chiesa in modo che i forlivesi, e non solo loro, avessero così la possibilità di poter vedere la reliquia. L'affluenza fu altissima tanto che in quella notte, per la moltitudine di persone provenienti da ogni dove, non fu possibile chiudere le porte della città.

Articolo di Mario La Piano. Tutti i diritti riservati.

martedì 23 settembre 2014

RIMUTAR L'ARTE DI GRECO IN LATINO: LE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLA PITTURA DI GIOTTO

Sono sempre rimasto affascinato dal passo tratto dal Libro dell'Arte di Cennino Cennini in cui l'autore dichiara che Giotto "rimutò l'arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno",  dalla capacità di riuscire, con poche parole, a restituire perfettamente, ancora oggi, come un osservatore medievale dovette cogliere ed apprezzare le novità del portato giottesco. Ma in cosa consistono queste novità? Tutti noi siamo stati studenti, e reminiscenze di quei tempi ci ricordano che Giotto portò nei suoi dipinti quella che in arte viene chiamata plasticità, o per usare un gergo più in voga oggigiorno, tridimensionalità.  Fu questa la sola novità della sua arte, così importante da fargli meritare l'elogio pocanzi citato? O la "latinità" della pittura di Giotto scaturisce anche da altri elementi? Per rispondere a queste domande ci aiuteremo con l'osservazione di alcuni dipinti del pittore toscano che proveremo a confrontare con quelli di un altro grande artista che lo ha preceduto, ricreando un dualismo debitore dei versi di Dante Alighieri: Cimabue/Giotto. Prima di tutto, però, sarà buona cosa comprendere appieno il senso delle parole di Cennino Cennini. Perché introduce i due aggettivi greco e latino? Che valenza avevano per lui e per coloro che sapevano leggere le opere d'arte nel medioevo? Quando egli parla di arte greca è ovvio che non si stia riferendo a quella della Grecia antica, a rimandi a Fidia, Lisippo né tantomeno all'arte ellenistica. La Grecia tirata in ballo è quella del suo tempo, dell'Impero Romano d'Oriente, e l'arte greca cui egli allude è quella che oggi chiamiamo bizantina. Meglio essere subito chiari: la pittura bizantina che ha in mente non è quella prodotta nella capitale dell'impero, ma la sua declinazione, per così dire, italiana. 
Per cosa si caratterizzava questa pittura? La tanto decantata bidimensionalità (non è che le figure non abbiano un accenno di terza dimensiome, ma sembrano come ritagliate da un foglio ed incollate su uno sfondo; sembra che l'albero, la casa o la montagna poste dietro di loro siano così prossime agli elementi in primo piano che tra loro non possa circolare nemmeno l'aria) non è che un elemento secondario, quasi una conseguenza, di un valore sentito come fondante della qualità di un dipinto: l'eleganza. Eleganza data attraverso la preziosità dei materiali, è vero, ma prima di tutto attraverso la sinuosità e la delicatezza del disegno, ed il disegno è sostanzialmente costituito dalla linea, elemento bidimensionale per antonomasia. Su questa considerazione squisitamente artistica si innestava tutto un sistema teologico-filosofico di lettura dell'opera (relazionarsi all'immagine sacra significava sostanzialmente relazionarsi alla figura sacra ritratta o, per essere più specifici, significava relazionarsi a ciò che di sacro, non di corporeo, essa aveva) che ne accentuava l'apprezzamento per i valori della linea e per tutto quanto riuscisse a far percepire la manifestazione, la presenza del sacro, osservandola. E' in quest'ottica che deve essere letto un altro elemento che caratterizza fortemente questa pittura: il fondo oro. Al di là delle considerazioni sulla preziosità del materiale, pure importanti, esso si faceva veicolo di irradiazione della luce, la più forte metafora sensibile della presenza del divino, di una luce diversa da quella dei raggi del sole o di una fonte di illuminazione artificiale, e questa sua alterità rispetto all'esperienza quotidiana ben si prestava a dare un'idea, seppur vaga, all'osservatore di cosa potesse essere la luce divina. L'oro poi arrivava ad invadere molta parte dello sfondo, lasciando che l'occhio perda qualsiasi coordinata spaziale che possa ancorarlo alla realtà. Ciò che si sta vedendo, quindi, non si configura come spazio di questo di mondo, bensì, come quello di un altro, che per la sua luminosità non può essere che quello del Paradiso.
Bidimensionalità e perdita di agganci con la realtà. Se ci pensiamo bene è la negazione dell'arte classica. Anche questo non è un caso. Figure che perdono volume, chiamiamole poco statuarie, forse questo aiuterà nella comprensione, e che non sono inserite in uno sfondo reale aiutano meglio l'osservatore a capire che l'arte che si ha di fronte non è pagana, che non si sta ammirando un idolo dei tempi antichi. Non è solo il contenuto a definire, per così dire, la religiosità di un'opera. A ben vedere è quello che è avvenuto, a livello testuale, prediligendo il libro, il codice, al rotolo, al papiro. Ma questi elementi che vengono tenuti fuori dall'arte cristiana "greca" sono quelli che,  per Cennino, qualificano l'arte "latina" di Giotto. Passiamo allora a comprendere cosa volesse dire questo termine per l'autore, come abbiamo fatto per l'altro. Se greco aveva, come abbiamo visto, una valenza geografica, latino non si riferisce tanto ad occidentale (lo stile che fiorisce nell'epoca in cui Giotto è attivo è il gotico, ma anche questo fa dell'eleganza della linea un valore fondante della qualità dell'opera, per certi versi ancora di più che per l'arte bizantina), quanto ad un periodo, quello antico, nello specifico a quello dell'antica Roma. Torniamo allo stile gotico pocanzi menzionato. Uno dei referenti spesso tirati in ballo per spiegare l'innovazione della pittura giottesca è proprio la scultura gotica. Questo è   vero a patto però di capire che non è il gotico tout-court ma solo un suo aspetto, la sua volontà di voler restituire, come aveva detto Federico II di Svevia, ea quae sunt sicut sunt, vale a dire di ritrarre le cose come appaiono nella realtà, nel nostro mondo, all'occhio. 
Spunto che viene dato al gotico proprio dallo studio dell'arte antica, cosa che avviene soprattutto nel nostro Paese. Riflettiamo su quanto detto: rivoler dare "naturalezza" a quanto dipinto e scolpito, essere artista "latino" diviene allora, allo stesso tempo, ripresa dell'antico ma anche scelta di voler realizzare un'arte nuova, che guarda al proprio tempo. Una precisazione a questo punto è d'obbligo. Questi cambiamenti in campo artistico furono possibili poichè diversa era la sensibilità religiosa del XIII e del XIV secolo. Pensiamo solo a quale dovette essere l'impatto sull'uomo medievale della visione francescana dell'aldiquà, di un mondo terreno che non veniva più percepito come luogo di tentazione e di lotta per ottenere il premio nella vera vita, quella ultraterrena, ma dono per cui ringraziare il Creatore, un mondo in cui persino una belva feroce ed ostile come il lupo poteva essera chiamato fratello.  Elementi che allora caratterizzano un'arte siffatta sono quelli che si rifanno alla nostra realtà, non alludono a quella ultraterrena. La plasticità dei corpi, di tutti i corpi: e tutto nei dipinti di Giotto, rocce ed alberi compresi sembra avere, oltre che un volume, un spazio da occupare, un peso, quasi che più che un dipinto stessimo ammirando un bassorilievo colorato. Sarebbe bello a questo punto dilungarsi sulle influenze della coeva scultura, in particolare dei Pisano, ma ci porterebbe troppo lontano, (basti qui dire che l'influsso dell'arte antica è forte in questi artisti). Ed è evidente il naturalismo se non un vero e proprio realismo delle scene: se non in tutte le sue opere, in diverse il fondo oro scompare; le case che osserviamo sono case che all'epoca si potevano vedere nei centri abitati; l'abbigliamento è quello realmente indossato allora. Guardare un alcuni dipinti di Giotto, verrebbe da dire, è un po' come guardare un'istantanea dei primi del Trecento, cosa impossibile se non fosse stata in atto una rivalutazione della vita terrena. Ed eccoci quindi a fare il ripromesso confronto "sul campo". Per iniziare due crocifissi: quello dipinto da Cimabue per la chiesa di San Domenico ad Arezzo e quello di Giotto per la Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze. Non bisogna essere storici dell'arte per osservare, soprattutto nella resa delle anatomie, una differenza abissale. Il Cristo di Cimabue è un Cristo elegante e regale, misurato nel dolore, dall'andamento del corpo sinuoso, ma che non sembra fatto di carne bensì di metallo, un corpo in sottile lamina di metallo sbalzato. Ventre, petto, muscoli delle braccia ed altre parti paiono quasi ottenuti da un semplice rialzo dello stesso piano del resto del corpo, col sospetto che, proprio per rialzarlo, al di sotto non vi sia nulla. Questo effetto crea profondità, è vero, ma i piani di scansione non sono che due: parti i rilievo e le altre retrostanti. Quello che vediamo si inserisce perfettamente nel filone bizantino, o per dirla come Cennino, greco. 
Quanto appare invece diverso il corpo sofferente del Cristo giottesco! Un corpo in cui i valori della plasticità, complice l'aver collocato la figura di trequarti,  sono forti, che sembra sottoposto alle leggi della gravità per come ci appaia pesante nell'abbandono in lui del soffio vitale. Se non fosse inchiodato, ci vien da pensare, sarebbe già caduto a terra, forse rotolato lungo il crinale del Golgota. Già, perché il pittore non ci risparmia neppure la collocazione geografica, con quell'accenno di cima rocciosa triangolare su cui è stata fissata la croce. Nel suo corpo privo di vita che si protrae verso di noi nulla rimanda nell'occhio all'eleganza del disegno. No, qui non vi è nulla di elegante e misurato ma la forza come di un corpo scolpito, e monumentalità, complice la visione dal sottinsù. Decisamente, alla luce di quanto detto in precedenza, sì può definirlo Cristo latino. Concludiamo con un secondo confronto, passando dal Figlio alla Madre. Osserviamo la Madonna in trono di Cimabue, oggi al Louvre. Le anatomie dei personaggi che compongono la scena (mi stava per scappare un affollano, ma la disposizione è troppo ritmata e cerimoniosa per poter usare questo verbo!) hanno un maggior accenno di plasticità rispetto al Cristo di Arezzo solo nell'ovale delle teste. Ancora una volta a prevalere è il valore lineare, a scapito della profondità. Non c'è negli angeli, che non scorrono dal primo piano al fondo ma dal basso verso l'alto, non c'è nella Vergine e nel trono in tralice, dove ancora una volta percepiamo un primo piano costituito dal Bambino, dalla gamba sinistra della Madonna e dalle parte inferiore del trono che sembra fuggire prospetticamente (ma forse è una parola grossa) indietro, rapidamente, ma la cui corsa verso il fondo si ferma altrettanto rapidamente per la subitanea presenza dello schienale del trono e della parte superiore della Vergine, che sono percepiti tra l'altro come appartenere allo stesso piano. Ancora, soprattutto negli angeli, è presente quella bidimensiolalità di cui si accennava all'inizio e che fa apparire i loro corpi come ritagliati ed incollati uno sopra l'altro, senza che nemmeno l'aria possa passare tra loro. Quale confronto potremo ora fare, se non con la celeberrima Madonna d'Ognissanti giottesca conservata negli Uffizi? A separare i due capolavori sono solo trent'anni, ma i linguaggi sono quantomai diversi. Anche per questo suo dipinto si sprecherebbero gli aggettivi che rimandano alla plasticità scultorea dell'insieme, basti ammirare il baldacchino su cui la Vergine è seduta. La Madonna stessa sembra citare, nella sua corporeità, nel suo peso, una scultura antica, una dea mater romana. Non bastasse questo, le figure di contorno questa volta affollano per davvero la scena, si fanno corona attorno al centro della scena in modo da dare realmente il senso della  profondità.  Ad esser pignoli un elemento greco resta, il fondo oro, ma è reso necessario dalla sacralità della scena, e in questo l'artista non poteva essere troppo avanti con i tempi: era pur sempre un artigiano, seppur di lusso, che doveva vivere del proprio lavoro!

Un'ultima cosa. Bisogna tenersi lontani dal rischio di tramutare un confronto del genere in un confronto di valore dell'artista tout-cout. Giotto non è un artista più bravo e talentuoso di Cimabue, entrambi sono figli dell'epoca in cui sono vissuti e ne hanno rispecchiato le sensibilità artistica, più volta a cogliere, consentitemi la parafrasi, lo spirituale coll'arte in Cimabue, più aperta a rivalutare, e quindi ad indagare, i doni del divino già in questa vita per Giotto.

Articolo di Mario La Piano. Tutti i diritti risevati

sabato 13 settembre 2014

PER CHI SUONA LA CAMPANA...

Qualche anno addietro era apparsa su molti quotidiani la notizia di una denuncia fatta a un parroco per il disturbo arrecato dal suono delle campane della sua chiesa. Si parla spesso di corsi e ricorsi storici ma in questo caso bisogna constatare come al riguardo siamo molto distanti dalla disposizione d’animo dell’uomo medievale, che nel familiare suono della campana sentiva echeggiare il suono di tromba della chiesa militante. Ma andiamo con ordine. Sebbene già esistente in epoche anteriori, risale all’alto medioevo l’idea di collocarla in cima ad una torre, inventando così il campanile, e se a lungo si è pensato che fosse la Lombardia la sua zona d’origine, in seguito sono state avanzate ragionevoli ipotesi che i primi campanili in occidente sorsero in Romagna, in particolare nella zona di Ravenna. Secondo un’altra ipotesi la campana dovrebbe il suo nome alla sua forma, che ricorda quello dei vasa campana, anfore prodotte nella zona del napoletano. A un santo, Paolino da Nola, la tradizione attribuisce invece l’invenzione del batacchio interno. Per tutto il Medioevo, ma anche oltre, alla campana è riservata una funzione particolare: comunicare con il suo rintocco delle informazioni. Se è ormai cosa nota ai più l’uso delle campane per scandire le ore, forse non tutti sanno che essa veniva suonata anche in occasione della morte di personaggi importanti e il numero di rintocchi informava le persone sul sesso e sul rango del deceduto: due rintocchi se era una donna, tre se era un uomo. In caso di morte di un uomo di chiesa i rintocchi erano tanti quanti erano stati gli ordini in vita. Oltre alle campane religiose esistevano le campane “laiche”, quelle cioè collocate sulle torri civiche che venivano suonate per avvisare i cittadini di un pericolo incombente come un incendio o l’entrata in città di un nemico, chiamando così a raccolta le persone, funzione questa che poteva però ritorcesi contro. Quando scoppiava infatti una lotta tra famiglie o fazioni rivali si poteva arrivare a demolire i campanili che potevano essere utilizzati dall’avversario, come avvenne per quello della Badia di Firenze nel 1307, in modo da impedirgli utilizzarne i rintocchi per radunare uomini. Quello della campana era per l’uomo medievale un suono familiare, tutt’altro che molesto, che anzi lo confortava nelle ore notturne. È Guglielmo Durante a spiegarne il perché: “Si suonano e si benedicono le campane affinché scaccino lontano gli eserciti ostili e tutte le insidie del nemico, per allontanare il fragore della grandine, il turbine delle procelle, l’impeto delle tempeste e dei fulmini, i tuoni minacciosi, perché siano sospesi i turbini del vento, siano debellati e vinti gli spiriti delle tempeste e le Potestà dell’aria”. Come si può ben intuire da queste parole l’uomo medievale mai e poi mai avrebbe considerato il suono della campana come un disturbo della sua quiete! Per poter essere ascoltate alla maggior distanza possibile venivano fuse campane di grandi dimensioni, molto pesanti. Non era quindi affatto facile suonarle, quella del campanaro era una vera e propria arte, e non di rado bisognava far venire gente da fuori città che si era specializzata in questa attività. Da quanto detto finora si può vedere come i tempi, purtroppo o per fortuna (al lettore l’ardua sentenza!) siano cambiati. Le campane ormai tacciono del tutto, o si limitano semplicemente a rimarcare un orario che ci è già stato fornito dal nostro orologio al polso. Eppure qualcosa oggigiorno della passata importanza della campana resta, di un tempo in cui il suo rintocco era così importante da ammonire il suo suonatore a non distrarsi, neppure durante le ore della notte: alzi la mano chi non conosce la canzone “Fra’ Martino, campanaro/ dormi tu?, dormi tu?/ Suona le campane, suona le campane/ Din don dan”.    

Articolo di Mario La Piano. Tutti i diritti riservati.

Immagine tratta da Wikipedia, Autore: Taty2007

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