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giovedì 24 gennaio 2013

IL TORPILOQUIO NEL DIALETTO TRIESTINO DEL TRECENTO

Articolo di Paolo Geri, per il sito www.bora.la
Come si parlava il volgare triestino del basso Medioevo, quello che precedette l’introduzione del “veneto d’importazione” dei secoli successivi? Gli Statuti, nella loro redazione del 1350, prevedono puntualmente le pene cui incorre il malcapitato denunciato in quanto “ingiurioso” e i quaderni del “Banchus Maleficiorum” raccolgono i processi penali secondo un preciso procedimento che inizia con la denuncia per finire alla condanna. In base a queste disposizioni, l’ingiuriato poteva ricorrere al “Banco dei Malefici” per ottenere giustizia e i quaderni riportano fedelmente le parole che furono la causa del processo e che sono spesso in volgare. Nel 1327 un tale si rivolge alla controparte con un bellissimo: “Ego scanabo te sicut unun castronum!” mentre una vittima dello stesso secolo constata, con stupore, la ricevuta offesa: “Tu dedisti un morsum in digito!” e qui il latino già comincia a venir meno. Nella Tergeste del 1335 un tale si rivolge con queste parole ad un altro: “Becho sutu, va mena tua mugler e tua fia in palasi del comun, io no vindi mai lo mio sangue si che hai fato tu”, sappiamo che il “palasi” era il bordello situato presso il palazzo del comune e a questo collegato mediante un passaggio… La risposta appare piuttosto confusa forse a cagione della difficoltà di riportarla per iscritto da parte del cancelliere: “Se io fosse becho sutu che io non volesse mandar per mia mugleir chen de ha che far nisun io non vindo mio sangue ne no voio vender”.
Statuti di Trieste
C’erano insulti ricorrenti che si incontrano lungo tutti i cento anni del XIV secolo. Uno dei più terribili era il seguente, tratto da un processo del 1327: “Vade et face scarigare culum a fratribus Sancte Marie sicut soror tua” (traduzione facilmente intuibile). Un’altra offesa usata ed abusata era la seguente: “Ego cacho te in gula, asinus stercoris!” tratta da un maleficio del 1327. Essa presenta delle varianti o delle semplificazioni come “Ego te incagho ne le cane de la gola”. E ci sono termini ben conosciuti anche oggi o meglio, diremmo, in ogni tempo: “Puttana, ruffiana vecchia…”, “Bruta putana”, “Fiol de un chan” che viene scritto con la h dopo la c di can. Nel 1352 un tizio, chiaramente alterato, così chiama un malcapitato: “Soç chan futu, veni cha!” che pare un rimescolio di vari dialetti ché il “veni cha” potrebbe persino essere meridionale. Soç sta per sozzo, ovviamente, e futu mi sembra termine alquanto trasparente. Nel 1354 mi sembra particolarmente pesante l’appellativo rivolto da una gentile signora alla vicina di casa per questioni di precedenza alla fonte del Comune, in piazza: “Tu e una bruta putana de burdel e de chani !” Le gentili madonne triestine non si risparmiavano certo quando si trattava di far valere i loro presunti diritti di precedenza e spesso venivano anche alle mani. Chiamare uno “Traditor março” era molto comune e molto offensivo. 
Vicina al nostro gusto appare l’ingiuria: “Tu sons figla de una bruta putana e putana tu istessa” dove appare la forma verbale sons tipicamente ladina. Anche dire ad uno che mente è insulto se non si può provare che ha mentito davvero. Perciò frasi come: “Bruta femina pleina de desonor et de vituperi, tu mensi per la gola” sarebbe ingiuriosa anche senza il desonor e i vituperi, come del resto quella più diretta: “Tu mentis per la gola”. Alcuni sono veri creatori di ingiurie e dimostrano un talento artistico degno di un mimo giullaresco: “Samara scuntigada et varte del vis et che tute affat remena de color de la galega e che li ducati te vein amein” (1360) tra l’altro la malcapitata viene accusata d’essersi per così dire accompagnata a tutti i marinai della galea (galega) che evidentemente in quei giorni era arrivata nel nostro Mandracchio. Cito ancora “Pota de sancta Chatarina!” (1384) ovvia origine della più recente “la mona de zia Katy”. Nel 1327 un oste denuncia una gentile signora di non aver pagato il vino bevuto e un testimone riporta la frase che ha sentito dire dallo stesso oste rivolto alla cliente: “Noli me teptar et solve vinum qui bibisti ! Accipe meretrix quia bene te noscho!” a quanto pare la signora voleva pagare in natura… Meraviglia come queste frasi siano spesso in latino, forse non ciceroniano, ma sostanzialmente corretto.

Articolo di Paolo Geri, per il sito www.bora.la

SCAMPOLI DI STORIA: COME SI PARLAVA A TRIESTE NEL MEDIOEVO

Articolo di Paolo Geri, per il sito www.bora.la

Nel 2010 avevo scritto uno “scampolo di storia” dedicato al turpiloquio nel dialetto triestino del Trecento che era stato piuttosto apprezzato dai lettori di bora.La. Come nelle peggiori abitudini della cinematografia vi propongo un “sequel” dell’ argomento ben consapevole che i seguiti non raccolgono mai lo stesso successo dell’ “opera prima”. 



Non vi sono molte testimonianze sulla lingua parlata a Trieste nel Medioevo. In realtà tutto quello che sappiamo sul “volgare” tergestino lo apprendiamo dai quaderni del “Banchum Maleficiorum”, il Tribunale del Maleficio, cioè in sostanza i verbali dei processi e bisogna ammettere che si trattava di un linguaggio a dir poco colorito, anzi decisamente volgare. Evidentemente il reato di oltraggio alla corte non era all’ epoca previsto. Mi scuso pertanto con tutti per i termini, decisamente volgari, che qui di seguito compaiono ma così si parlava nei tribunali a Trieste nel Medioevo usando una forma mista di veneto e di ladino, il “tergestino” appunto.
Sono noti gli studi di Graziadio Isaia Ascoli che esaminò le “reliquie ladine” raccolte a Muggia nel 1893 da Jacopo Cavalli preceduto, nel più lontano 1828, dai “Dialoghi piacevoli in dialetto vernacolo triestino” di Giuseppe Mainati. Raccolte, tutte, di scarso valore scientifico perchè risultano in realtà essere soltanto dei “sentito dire” senza alcuna annotazione critica o documentaria e comunque riferita a tempi a noi assai più vicini . La questione della parlata dei tergestini del Trecento resta dunque aperta vista la scarsità di testimonianze scritte. Marino de Szombathely, a seguito della pubblicazione del “Liber Reformationum” o “Libro dei Consigli”, propose alcuni estratti da quest’ opera nei quali si potrebbe leggere una forma di volgare locale, ma siamo già nel Quattrocento e rimane il dubbio se questo volgare non sia in realtà altro se non quello dei notai e dei triestini a volte originari da altre località e spesso per così dire “suggestionati” dalla loro cultura sicuramente superiore a quella della maggior parte dei concittadini dell’ epoca. Anche nei “Quaderni dei Camerari”, che si occupano di entrate ed uscite del Comune, il volgare appare nel Quattrocento secolo e precisamente nel 1426. Uniche testimonianze della parlata del Trecento, se si eccettuano esempi rari e quasi sicuramente lontani della parlata quotidiana dei triestini, sono dunque le brevi frasi che si possono trovare nei verbali del “Banco dei Malefici”, nei quali vengono riportate “de verbo ad verbum” le ingiurie oggetto di denunce penali. 

Nel volgare triestino compaiono impasti linguistici assolutamente originali: uno dei migliori esempi in merito che ho trovato è “…. Tu dedisti un morsum in digito !” e questo dialogo fra due querelanti “…. Chi te par che io sia ? …. E tu me par un bon homo ! ….. E tu me pari uno corno !”. Ma il massimo si raggiunge nell’ esclamazione di un convenuto, ovviamente verbalizzata, nel 1384: “Pota de sancta Chatarina !” da cui mi sembra evidente tragga origine il ben più recente “la mona de zia Cati”. Gli insulti volavano liberi in tribunale: “Tu mentici per gulam becho fratre dona putanam !”, “Traditor março”, Traditor março che tu saravi degno squartari”, “Carmerol bruto, portapej marz”, “Ego scanabo te sicut unum castronum” e il sempre attuale “Fiol de un chan !”. Ma si andava giù ancora più pesante: “Bruto traditor buçeron março vostu defender chostoti” (buçeron aveva il significato di omosessuale ….), “Bruto manigoldo servo cativo puçilente vignu non so donde !”. Infine il classico: “Tu es un becho futu” e “Tu me dixisti becho futu”. Anche i temi escatologici erano ampiamente presenti: “In nome del diavol io te in chago ne le chane de la gola !”, “Io tincago a ti ed a lui: che me polo far che non è più capitano !”. Da notare in quest’ ultima frase come la perdita dell’ incarico di capitano del “lui” fosse ritenuta una garanzia di sicurezza da parte dell’ altro convenuto. Ma anche le donne erano accusate di mentire: “Bruta famina pleina de desonor et de vitupieri tu mensi per la gola”. Il moderno “va a cagare” era frequente e articolato in varie forme alcune decisamente ammirevoli per la loro fantasia creativa: “Ego cacho te in gula asinus stercoris !”, “Vade ostendi culum fratris tue fratribus Sancte Marie Crociferorum”, “Tu eris futura drossa. Vade et scarica culum fratrum Sancte Marie sicut facit soror tua”. Gli insulti rivolti alle donne non si discostavano molto dal classico “puttana” in tutte le sue varianti: “Bruta putana vade scavie cullos fratrum Sancte marie Cruciferorum !”, “Bruta puttana vade offende cullos fratrum Sancte Marie Cruciferorum” (i triestini ce l’ avevano decisamente con i frati di Santa Maria dei Crociferi ……).  

E poi ancora: “Bruta mata, glota, ed invriaga”, “Meretrix desliale falsam !”, “Tu es una bruta putana de burdel e de chani”, “Bruta putana vedrana”, “Est putana, rufiana, vedrana”, “Puttana, rufiana vecchia, puttana vedrana”. Da notare qui l’ uso del termine friulano – tutt’ ora in uso – di “vedrana” per “vecchia zitella”. Ma alle donne delle famiglie dei convenuti erano dedicati alcuni degli insulti più articolati e spesso sbrigativi: “Tu sons figla de una bruta putana e putana tu istesa”, “Bruta putana esone una man de putanes e sons putana del vicario de Cavodistria” (essere “putana del vicario di Capodistria” doveva essere un insulto sanguinoso per una triestina in quanto Capodistria era in mani veneziane). E a volte l’ insulto di gruppo: “Una man de brute puytanis”, “Voi sone una man de brute putane”. Finisco questo “excursus” nel turpiloquio triestino del Trecento con due bestemmie decisamente pesanti che nulla hanno da invidiare alla fantasia creativa dei mitici bestemmiatori toscani: “Soça la pota de la verçene Maria !” e lo straordinariamente creativo “Pota de San Piero e de San Polo !”.

Articolo di Paolo Geri per il sito www.bora.la

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