Articolo di Paolo Geri, per il sito www.bora.la
Non vi sono molte testimonianze sulla lingua parlata a Trieste nel Medioevo. In realtà tutto quello che sappiamo sul “volgare” tergestino lo apprendiamo dai quaderni del “Banchum Maleficiorum”, il Tribunale del Maleficio, cioè in sostanza i verbali dei processi e bisogna ammettere che si trattava di un linguaggio a dir poco colorito, anzi decisamente volgare. Evidentemente il reato di oltraggio alla corte non era all’ epoca previsto. Mi scuso pertanto con tutti per i termini, decisamente volgari, che qui di seguito compaiono ma così si parlava nei tribunali a Trieste nel Medioevo usando una forma mista di veneto e di ladino, il “tergestino” appunto.
Sono noti gli studi di Graziadio Isaia Ascoli che esaminò le “reliquie ladine” raccolte a Muggia nel 1893 da Jacopo Cavalli preceduto, nel più lontano 1828, dai “Dialoghi piacevoli in dialetto vernacolo triestino” di Giuseppe Mainati. Raccolte, tutte, di scarso valore scientifico perchè risultano in realtà essere soltanto dei “sentito dire” senza alcuna annotazione critica o documentaria e comunque riferita a tempi a noi assai più vicini . La questione della parlata dei tergestini del Trecento resta dunque aperta vista la scarsità di testimonianze scritte. Marino de Szombathely, a seguito della pubblicazione del “Liber Reformationum” o “Libro dei Consigli”, propose alcuni estratti da quest’ opera nei quali si potrebbe leggere una forma di volgare locale, ma siamo già nel Quattrocento e rimane il dubbio se questo volgare non sia in realtà altro se non quello dei notai e dei triestini a volte originari da altre località e spesso per così dire “suggestionati” dalla loro cultura sicuramente superiore a quella della maggior parte dei concittadini dell’ epoca. Anche nei “Quaderni dei Camerari”, che si occupano di entrate ed uscite del Comune, il volgare appare nel Quattrocento secolo e precisamente nel 1426. Uniche testimonianze della parlata del Trecento, se si eccettuano esempi rari e quasi sicuramente lontani della parlata quotidiana dei triestini, sono dunque le brevi frasi che si possono trovare nei verbali del “Banco dei Malefici”, nei quali vengono riportate “de verbo ad verbum” le ingiurie oggetto di denunce penali.
Nel volgare triestino compaiono impasti linguistici assolutamente originali: uno dei migliori esempi in merito che ho trovato è “…. Tu dedisti un morsum in digito !” e questo dialogo fra due querelanti “…. Chi te par che io sia ? …. E tu me par un bon homo ! ….. E tu me pari uno corno !”. Ma il massimo si raggiunge nell’ esclamazione di un convenuto, ovviamente verbalizzata, nel 1384: “Pota de sancta Chatarina !” da cui mi sembra evidente tragga origine il ben più recente “la mona de zia Cati”. Gli insulti volavano liberi in tribunale: “Tu mentici per gulam becho fratre dona putanam !”, “Traditor março”, Traditor março che tu saravi degno squartari”, “Carmerol bruto, portapej marz”, “Ego scanabo te sicut unum castronum” e il sempre attuale “Fiol de un chan !”. Ma si andava giù ancora più pesante: “Bruto traditor buçeron março vostu defender chostoti” (buçeron aveva il significato di omosessuale ….), “Bruto manigoldo servo cativo puçilente vignu non so donde !”. Infine il classico: “Tu es un becho futu” e “Tu me dixisti becho futu”. Anche i temi escatologici erano ampiamente presenti: “In nome del diavol io te in chago ne le chane de la gola !”, “Io tincago a ti ed a lui: che me polo far che non è più capitano !”. Da notare in quest’ ultima frase come la perdita dell’ incarico di capitano del “lui” fosse ritenuta una garanzia di sicurezza da parte dell’ altro convenuto. Ma anche le donne erano accusate di mentire: “Bruta famina pleina de desonor et de vitupieri tu mensi per la gola”. Il moderno “va a cagare” era frequente e articolato in varie forme alcune decisamente ammirevoli per la loro fantasia creativa: “Ego cacho te in gula asinus stercoris !”, “Vade ostendi culum fratris tue fratribus Sancte Marie Crociferorum”, “Tu eris futura drossa. Vade et scarica culum fratrum Sancte Marie sicut facit soror tua”. Gli insulti rivolti alle donne non si discostavano molto dal classico “puttana” in tutte le sue varianti: “Bruta putana vade scavie cullos fratrum Sancte marie Cruciferorum !”, “Bruta puttana vade offende cullos fratrum Sancte Marie Cruciferorum” (i triestini ce l’ avevano decisamente con i frati di Santa Maria dei Crociferi ……).
E poi ancora: “Bruta mata, glota, ed invriaga”, “Meretrix desliale falsam !”, “Tu es una bruta putana de burdel e de chani”, “Bruta putana vedrana”, “Est putana, rufiana, vedrana”, “Puttana, rufiana vecchia, puttana vedrana”. Da notare qui l’ uso del termine friulano – tutt’ ora in uso – di “vedrana” per “vecchia zitella”. Ma alle donne delle famiglie dei convenuti erano dedicati alcuni degli insulti più articolati e spesso sbrigativi: “Tu sons figla de una bruta putana e putana tu istesa”, “Bruta putana esone una man de putanes e sons putana del vicario de Cavodistria” (essere “putana del vicario di Capodistria” doveva essere un insulto sanguinoso per una triestina in quanto Capodistria era in mani veneziane). E a volte l’ insulto di gruppo: “Una man de brute puytanis”, “Voi sone una man de brute putane”. Finisco questo “excursus” nel turpiloquio triestino del Trecento con due bestemmie decisamente pesanti che nulla hanno da invidiare alla fantasia creativa dei mitici bestemmiatori toscani: “Soça la pota de la verçene Maria !” e lo straordinariamente creativo “Pota de San Piero e de San Polo !”.
Articolo di Paolo Geri per il sito www.bora.la