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lunedì 30 giugno 2014

COME DAVIDE, L'UNTO DEL SIGNORE

Filippo il Bello era nipote di due santi (Luigi IX di Francia, padre di suo padre, ed Elisabetta d'Ungheria, sorella di sua nonna materna), e secondo le fonti viveva quasi come un monaco, mangiando pochissimo e praticando lunghi periodi di digiuno e astinenza. Il suo confessore ogni venerdì lo fustigava con una disciplina, cioè una frusta fatta da catene di ferro, la stessa che prima di lui aveva usato Luigi IX il santo. Durante la sua cerimonia d'incoronazione, era stato consacrato con l'Olio Santo ben sette volte, proprio come un arcivescovo; come altri sovrani di Francia della sua stirpe, si riteneva che avesse il potere di guarire i malati di scrofola con il tocco delle mani, purché si mantenesse pur da gravi peccati. Sappiamo che era molto attento a questo suo ruolo sacro, e che molti malati arrivavano da paesi anche lontani per incontrarlo ed essere toccati da lui. I suoi apologeti lo celebravano come un nuovo Davide, l'Unto del Signore. Ascetico e scevro da peccati, era indicato dai pubblicisti come un esempio di moralità e di devozione cristiana, perfetto emulo di suo nonno Luigi il Santo. La propaganda francese ribadiva il fatto che un uomo del genere era degno di guidare la Chiesa nei territori che Dio aveva affidato al suo dominio; lo storico Julien Théry sostiene che egli si sentiva "come un papa all'interno del suo regno". Esistono però anche voci avverse. Il vescovo di Pamiers Bernardo Saisset sosteneva che Filippo IV era stupido per quanto bello, incapace di reggere il governo; diceva che non era un uomo né una bestia, ma piuttosto una statua di marmo. Anche il poeta satirico Geoffroy di Parigi lo descrive come un uomo dal carattere inconsistente, debole, inadatto al difficile ruolo di governare la Francia; e proprio per sfuggire a questo opprimente fardello troppo pesante per lui, il sovrano avrebbe abbandonato il potere nelle mani dei suoi ministri e di alcuni familiari fidatissimi, limitandosi a svolgere mere funzioni di rappresentanza.

Qual'è, la verità?

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

mercoledì 25 giugno 2014

L'IMMAGINE IMPRESSA SUL TELO

Dopo che l'impronta di Edessa fu trasferita a Costantinopoli, la fama dell’immagine si sparse anche in Occidente: qui però, dove il monofisismo aveva inciso molto meno nella cultura dei cristiani, il famoso ritratto di Gesù non ebbe bisogno di venire “filtrato” nascondendolo dietro l’idea di un ritratto comune come era successo a Edessa per i primi secoli. In Europa si viene a sapere subito che si trattava di un lenzuolo contenente l’impronta del corpo intero di Cristo. Il monaco Orderico Vitali nella sua Storia Ecclesiastica (1130 e il 1141) avrebbe scritto:

Abgar regnò come toparca di Edessa. A lui il Signore Gesù inviò…il più prezioso lino, con il quale asciugò il sudore dal proprio volto, e sul quale appaiono le fattezze del Salvatore miracolosamente riprodotte. Esso mostra a coloro che lo guardano l’immagine e le proporzioni del corpo del Signore;

mentre un altro autore successivo, Gervaso di Tilbury, nei suoi Otia imperialia (composti verso il 1218) racconterà questo:

E’ appurato grazie alla storia narrata in antichi documenti che il Signore si prostrò in tutta l’interezza del suo corpo sul più bianco dei lini, e così per mezzo del potere divino rimase impressa sul lino la più bella immagine non solo del volto ma anche del corpo intero del Signore.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

L'IMPRONTA AGONIZZANTE DI GESU'


Dopo un preambolo elegante e sapientemente retorico, l’autore della Narratio de imagine Edessena spiega che esistevano due versioni diverse circa il modo in cui l’immagine miracolosa di Edessa si era formata: entrambe erano antiche e autorevoli, tanto che non si poteva decidere quale fosse quella giusta. La prima versione è identica a quella contenuta nella Dottrina di Addai, però il racconto è arricchito da nuovi dettagli: Anania, il latore dell’immagine, non era un semplice corriere ma un ministro che re Abgar di Edessa aveva mandato in Egitto per stringere un accordo politico con il prefetto romano di quella provincia. Tornando verso Edessa passò per la Palestina, e qui ebbe modo di vedere Gesù e come le folle lo seguissero ammaliate dalla sua dottrina. Lo vide anche sanare molti infermi, e quando fu di nuovo alla corte del re Abgar, che era malato, gli consigliò di far venire in città questo grande e famoso guaritore; ma gli chiede anche di fargliene un ritratto, perché il ministro Anania pratica la pittura per diletto. Anania raggiunge Gesù in un luogo dove sta predicando, ma non può avvicinarsi per parlargli perché la folla radunata è troppa. Quindi comincia a lavorare al ritratto chiesto da re facendone prima uno schizzo nel modo normale, cioè con penna e inchiostro su un foglio di papiro. Gesù avverte che Anania si trova in difficoltà e lo manda a chiamare: quindi si lava il viso, e dopo averlo asciugato con un panno di lino gli consegna la sua impronta miracolosa. 
La seconda versione dell’evento invece si apre su uno scenario completamente diverso, e non coinvolge più il messaggero di re Abgar. Secondo questo racconto, l’impronta di Edessa si sarebbe prodotta sul Monte degli Ulivi, durante quella dolorosa notte di preghiera in cui Gesù aveva sofferto un’angoscia mortale presagendo l’agonia della Passione. Secondo il racconto evangelico, il suo viso si era coperto di grosse gocce di sudore misto a sangue. I discepoli erano accorsi e gli avevano asciugati il volto; poi si erano accorti che su quel panno giaceva una stranissima immagine che era fatta di sudore ma anche di sangue. Anche Gregorio il Referendario fa dei cenni a questa seconda versione del racconto che pone la formazione dell’immagine durante la notte del Getsemani: nell’omelia dice infatti che l’impronta si formò mentre Gesù agonizzava (agoniòntos).

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

NARRATIO DE IMMAGINE




Proprio nell’epoca in cui fu rinvenuta l'impronta di Edessa, singolarmente il pensiero religioso bizantino compie un’evoluzione notevole rivalutando e in un certo senso anche riscoprendo la figura del Cristo sofferente.Non è più solo il Risorto splendente nella sua gloria ma piuttosto l’Uomo dei dolori, morto e con tutto il corpo martoriato dai segni della Passione. Occorse che la sensibilità dei teologi e della gente comune maturasse questo cambiamento; e occorse anche fare i conti con un altro problema per niente piccolo. La tradizione antica parlava del ritratto autentico di Gesù come di un ritratto fatto mentre era vivo. Come si poteva conciliare questo racconto con la realtà di fatto, con la natura di quell’immagine appartenente a un morto e per giunta piena di sangue? Un anonimo autore vissuto alla corte di Costantino Porfirogenito scrisse il resoconto della missione militare che portò l'impronta miracolosa nella capitale bizantina; si sospetta però che dietro questo anonimo scrittore si celi in realtà lo stesso imperatore, il quale era anche un fine letterato. 
Il resoconto, noto con il titolo Narratio de imagine Edessena, è interessante non solo sul piano letterario: infatti rivela allo storico un geniale compromesso, o forse sarebbe meglio dire uno strategemma, con cui si cercò di armonizzare la tradizione antica sul ritratto di Edessa con la verità da poco scoperta, che cioè l'immagine ritraeva tutto il corpo.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

giovedì 19 giugno 2014

ANTICHI DOCUMENTI SUL RITRATTO DI CRISTO

L’imperatore di Bisanzio, colui che aveva messo in piedi tutta quel’operazione, da secoli si considerava e rappresentava se stesso come il Vicario di Cristo in terra, una persona di pari grado rispetto agli apostoli. Era dunque a quest’uomo crocifisso che Romano I doveva assimilare la sua immagine, questo morto dal torace squarciato? Sull’impronta di Edessa c’era del sangue, e non poco. Soprattutto la ferita del costato fece un’impressione tremenda ai due dignitari. Gregorio il Referendario ne parla con pudore ma in modo esplicito, quando più tardi la celebrerà nella sua omelia: questi sono gli ornamenti che hanno colorato la reale impronta di Cristo, perchè essa in seguito è stata abbellita dalle gocce fuoriuscite dal suo costato. La novità creò uno sconcerto tale che Gregorio volle vederci chiaro, e si recò negli archivi della città per cercare se esistessero documenti su quell’immagine. Le reliquie più venerate e famose infatti non viaggiavano mai da sole, bensì accompagnate da documenti più antichi che ne certificavano la provenienza. Per inciso, fra le tracce di scrittura notate sul lino della sindone compare una sigla (SB) che sembra corrispondere a un’abbreviazione tipica dei sigilli dei funzionari imperiali di Costantinopoli nel X secolo, proprio l’epoca in cui la reliquia lasciò Edessa per entrare a far parte del tesoro imperiale bizantino.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

mercoledì 18 giugno 2014

L'IMPRONTA SPAVENTOSA DI UN MORTO

In via teorica, quanto scoperto aprendo la teca con l'antica, venerabile immagine di Edessa non doveva sembrare strano: se il telo portava l’impronta del corpo di Cristo, ci doveva essere per forza anche la ferita del costato, quella descritta dal quarto vangelo. Ma per Gregorio il Referendario e il generale Curcuas, adagiati su un’idea largamente diffusa, quello dovette essere un vero colpo. Gregorio ha lasciato un’omelia sul recupero dell’immagine di Edessa, composta subito dopo per celebrare l’evento solenne del suo trasporto nella capitale. L’omelia è conservata in un manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana, il Vaticano greco 511, che fu scritto alla metà del X secolo, cioè solo qualche anno dopo l’evento. Per quanto  ampolloso e complicato secondo lo stile del greco bizantino, il testo è chiaro: leggendolo si percepisce anche il clima di sgomento e di imbarazzo in cui i due funzionari si trovarono gettati quando scoprirono l’incredibile novità. Com’era possibile che la tradizione parlasse di un ritratto lasciato da Gesù quando era vivo, e qui invece si era davanti all’impronta spaventosa lasciata da un cadavere massacrato? Come si poteva portare a Costantinopoli un oggetto simile? Cosa avrebbero dovuto riferire all'imperatore, che si aspettava tutt'altro oggetto?

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

LA SCOPERTA DEL TELO AD EDESSA


La missione di recupero fu affidata a un valente ufficiale, il generale Giovanni Curcuas. Il militare era accompagnato anche da un prelato molto importante: Gregorio il Referendario, che era arcidiacono della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli e si occupava di tenere i rapporti diplomatici fra il Patriarca di Costantinopoli e l’imperatore. Era un dignitario, un diplomatico e anche un uomo di cultura. La città di Edessa era allora sotto il controllo di un governatore arabo che non avrebbe certo ceduto quell’oggetto per compiacere l’imperatore, sicché il generale Curcuas fu costretto a negoziare il rilascio dell’immagine sborsando in cambio una piccola fortuna, 12.000 corone d’oro; inoltre dovette ridare la libertà a duecento prigionieri islamici di alto rango e concedere a Edessa una garanzia d’immunità perpetua. Finite le trattative per la consegna, la reliquia inestimabile dovette essere esaminata con cura per scongiurare il rischio che gli arabi cercassero di rifilare al generale e al Referendario una copia invece dell’originale. Il telo fu estratto dalla sua teca; e qui successe un fatto che lasciò di stucco i due dignitari. 

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

UN'ARMA CONTRO L'ERESIA




Nell’anno 943, per celebrare la festa che aveva sancito il trionfo delle immagini sacre, l’imperatore Romano I Lecapeno decise di portare a Costantinopoli la più famosa e venerata delle immagini di Cristo, quella custodita a Edessa. Venne organizzata un’imponente operazione di recupero all’interno di più vaste azioni militari, perché la città di Edessa era ancora in mano agli arabi; del resto l’imperatore non voleva nella sua capitale quella famosissima reliquia per scopi puramente religiosi. Romano I aveva dovuto lottare a lungo contro i pauliciani ed altri gruppi eretici che ogni tanto emergevano nel territorio dell’impero e creavano problemi di dissidenza perché l’ideale religioso era associato a quello del conflitto politico. I pauliciani, come altri, derivavano il loro credo dall’antico alveo dello gnosticismo dei secoli I-III, e ritenevano il Cristo un puro essere spirituale privo di corpo umano. Uno spirito superiore e divino che non si era mai incarnato, non aveva mai sofferto la Passione, non era mai morto e dunque non era nemmeno risorto. Poiché non era possibile combattere una guerra religiosa con la sola forza delle armi, Romano I comprese che il famoso ritratto del quale parlava la tradizione, l’autentica impronta del volto di Cristo, poteva essere utile a smentire gli eretici i quali asserivano che un volto umano il Cristo non ce l’aveva mai avuto. Insomma, la prodigiosa reliquia di Edessa era una potente arma contro la diffusione dell’eresia.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

LINO IMPRESSO DA UN "UMORE LIQUIDO"


In tutta la tradizione dell’arte bizantina il ritratto fedele di Gesù lega il cristiano a un contatto emotivo, e questo contatto è fonte di aiuto e consolazione nelle difficoltà della vita. Secondo Giovanni di Damasco, i teologi non potevano prendersi la libertà di privare i fedeli di questo caloroso, emozionale contatto con la figura di Cristo, perché nel pregare davanti alle immagini sacre si instaurava un dialogo, un rapporto personale più intenso. Il cristianesimo era nato con il parto di una donna, un evento assolutamente umano e fisico; ed era stato suggellato da una morte molto dolorosa, altro fatto umano nel senso più drammatico del termine. Il Cristo solo spirituale di cui parlavano i teologi nemici delle icone nei vangeli proprio non c’era: persino dopo la Resurrezione, Gesù aveva un corpo concreto che si poteva vedere e toccare. Giovanni Damasceno dice che Gesù è una “icona fisica” del Padre (eikon physikè), un’immagine vivente e ripiena di Spirito Santo capace di avvicinare l’uomo a Dio purificandone l’anima e i pensieri. La vera immagine di Cristo conservata in Edessa fu al centro della sua lotta in difesa delle immagini sacre: se Cristo stesso aveva voluto lasciare agli uomini l’impronta del suo fisico, gli uomini non avevano alcun diritto di giudicare tale scelta. Vivendo non lontano da Edessa, e mosso da un amore ardente come quello che le sue opere riflettono, forse Giovanni visitò personalmente la preziosa reliquia di cui aveva lodato la virtù: e la descrive come un telo di grosse dimensioni, rimasto impresso come di un umore liquido. In una delle sue opere Giovanni ritiene che Gesù per crearla avesse usato il proprio mantello (imàtion), il quale era abbastanza ampio da avvolgere tutta la persona dalla testa ai piedi.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

LA DIFESA DELLE IMMAGINI DI CRISTO


Proprio durante il periodo dell’iconoclasmo visse il più appassionato difensore del culto delle immagini, il monaco e teologo Giovanni di Damasco (650 circa-749 d.C.). Viveva nella Siria dominata dagli Arabi, quindi poteva combattere la sua lotta contro i distruttori delle icone molto più liberamente che se fosse stato a Costantinopoli o in un altro posto dell’impero bizantino. Gli arabi infatti imponevano ai cristiani loro sudditi di pagare una tassa speciale in quanto infedeli e seguaci di un’altra religione, ma a parte erano liberi di praticare il loro culto senza che il potere politico si immischiasse nelle dispute teologiche. Giovanni di Damasco scrisse un trattato che ebbe grande successo sia per la finezza delle sue discussioni, sia per il linguaggio caldo e poetico che ancor oggi, sebbene appartenga a un mondo tanto lontano da noi, non lascia indifferenti. Il Trattato sulle immagini descriveva la devozione alle immagini sacre come un impulso d’amore, la manifestazione di una fede sincera, profonda e autentica che non poteva e non doveva venir repressa.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

giovedì 12 giugno 2014

LE BRUCIATURE SUL TELO


Sul lino della sindone compare una serie di piccoli fori dovuti a bruciature molto antiche, sicuramente anteriori all'incendio che coinvolse il telo quando si trovava a Chambery, nel secolo XVI: dipinti più antichi infatti le mostrano già presenti. Sono disposte in fila in modo da formare una squadra, e devono essere riferite a un incidente che la sindone subì in epoca remota. Un manoscritto risalente al periodo fra gli anni 1192 e 1195, il famoso codice Pray di cui parleremo in seguito, ha una miniatura che riproduce la sindone trovata nel sepolcro vuoto dalle Pie Donne, dove questi precisi buchi nel telo sono indicati. Non sarebbe strano pensare che quelle bruciature risalissero proprio al tempo dell’iconoclasmo, quando la reliquia era ben protetta nella città di Edessa dove gli iconoclasti non avevano nessun potere; ma un fanatico isolato potrebbe essersi intrufolato nel sacello dov’era riposta per cercare di distruggerla, prontamente fermato dai custodi. L’amore che il popolo aveva sempre portato alle icone di Cristo, espressione del bisogno di un contatto umano concreto, non si era certo spento. 

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

mercoledì 11 giugno 2014

L'ICONA PIU' ODIATA


Durante questo periodo venne distrutta dal fanatismo degli iconoclasti una quantità incalcolabile di opere d’arte sacra, con un danno anche culturale spaventoso. Non sappiamo cosa successe all’immagine di Edessa, che essendo il capostipite di tutti i ritratti di Gesù doveva apparire agli iconoclasti come l’origine di tutti i mali. In questo periodo Edessa era caduta in mano agli arabi, i quali non si interessavano al ritratto di Gesù né alle altre cose sacre del cristianesimo perché non riguardavano la loro religione: probabilmente in tali condizioni l’impronta non fu più esibita ai fedeli come in passato, ma questa specie di “tutela islamica” garantì probabilmente la sua salvezza. Se essa dev’essere identificata con la sindone di Torino, notiamo proprio sulla sindone l’esistenza di una traccia che può avere rapporti precisi con il periodo dell’iconoclasta. A circa un quarto della lunghezza della sindone compare una serie di buchi disposti in maniera speculare sui due lati perché derivano da una bruciatura provocata mentre il telo era ripiegato. Sono quattro buchi di cui tre in fila e l’ultimo posto di lato, e guardandoli si ha proprio l’idea che il telo sia stato bruciato con gocce di una mistura incandescente, forse incenso, capace di bruciare il lino. Anche la splendida miniatura del manoscritto nella Biblioteca Vaticana che raffigura l’immagine di Edessa reca il volto di Cristo sfigurato da una mano vandalica, la quale ha cercato di cancellarne le fattezze: il rifiuto verso le immagini sacre non si fermò mai, infatti, anche se il pensiero iconoclasta venne in seguito condannato come eretico. Esso esprime una corrente del pensiero cristiano antico ed è legato alle radici culturali ebraiche da cui il cristianesimo deriva. Il giudizio su questioni teologiche non spetta certo ad uno storico, che però ha il diritto di condannare senz’altro la distruzione di opere d’arte.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

ROMA, RIFUGIO PER LE IMMAGINI SACRE

Il 25 marzo 717 venne incoronato imperatore di Costantinopoli Leone III l’Isaurico, un uomo che era arrivato al trono dalla carriera militare essendo stato prima il comandante del grande reparto stanziato in Anatolia. Di origine siriana, Leone aveva ricevuto dalla mentalità del suo popolo nativo una certa tendenza a vedere con sospetto la venerazione delle immagini perché poteva nascondere il rischio dell’idolatria, un male da cui i cristiani come pure altri popoli del Medio Oriente erano sempre preoccupati di astenersi. Leone III sposò la dottrina degli iconoclasti, però la sua scelta lo rese odiato dalla gente comune. Il 19 gennaio del 729 alcuni fanatici arrivarono a sfregiare una delle più celebri icone di Cristo della capitale e il popolo si ribellò con una sommossa, che Leone III fece soffocare nel sangue. Questa linea gli procurò anche la rottura dei rapporti diplomatici con la Chiesa di Roma, guidata in quegli anni da papa Gregorio II (715-731) e dal successore Gregorio III (731-743): entrambi credevano che la natura umana del Cristo meritasse senz’altro di essere raffigurata e venerata dai fedeli attraverso la contemplazione dell’arte sacra. Roma in quei decenni divenne rifugio per molti monaci greci e anche artisti costretti ad abbandonare Costantinopoli per mettersi in salvo: la città, già in passato abbellita dall’apporto dell’arte bizantina perché sotto l’influenza politica imperiale, in questo momento si aprì maggiormente alla cultura che veniva dall’Oriente e il suo volto in parte cambiò. Fu rafforzata o anche introdotta la devozione di santi molto venerati in Oriente, come ad esempio Sergio e Bacco, ma arrivarono anche capolavori scampati alla furia degli iconoclasti.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

giovedì 5 giugno 2014

L'IMBARAZZO DEI VANGELI APOCRIFI


Un imbarazzo simile a quello che circonda la sindone riguarda anche i vangeli, che molti amano pensare come lascito di autori ignoti vissuti nel II secolo, oppure testi non storici, vale a dire opere letterarie riempite di filosofia e di allegoria. Eppure, un semplice studente del liceo classico, se li mette a confronto con le opere di Luciano di Samosata o altri autori greci della stessa epoca, si accorge subito che i quattro testi canonici come opere letterarie valgono davvero poco. Non sono stati curati secondo quello che è un normale lavoro di revisione, sono pieni di ripetizioni, episodi scollegati fra loro e così via. Nel greco di Marco ci sono persino usi linguistici che a tanti maestri e intellettuali del tempo sarebbero parsi gravi errori di ortografia. Il fatto è che questi scritti non furono concepiti per divertire o intrattenere la gente con una bella lettura. Se si è in dubbio su tutto, anche le proprie mancanze personali vanno così a perdere il loro vero profilo di colpe o peccati. Si tratta di un atteggiamento molto diffuso nel mondo contemporaneo; però è viltà psicologica o paura ingiustificata, che non deve alterare le normali valutazioni storico-archeologiche. Ed è un atteggiamento sbagliato anche dal punto di vista umano, visto che nessuno in realtà può stare davanti a una testimonianza concreta di Cristo, sia essa un papiro dei vangeli oppure un reperto della Passione, senza sentirsi profondamente in difetto. Gli uomini dei secoli andati, non certo privi di peccati d’ogni tipo, su questo punto avevano però minor superbia di noi. 

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

martedì 3 giugno 2014

L'IMBARAZZO DELLA SINDONE


Nel 1969 monsignor Giulio Ricci si appassionò alla questione sindonica e sviluppò uno studio in merito approfondendo l’analisi sotto l’aspetto dell’anatomia. Ne risultò che il ritratto “bizantino” di Cristo contine tutte le particolarità somatiche del volto sindonico, cosa strana che non avrebbe dovuto succedere perché molte di esse (come la colatura di sangue sulla fronte o gli zigomi asimmetrici) derivano da contusioni o ferite che certo non sarebbero mai state su un ritratto normale di Gesù vivo. Ricci provò a ricostruire l’aspetto concreto dell’uomo avvolto nella sindone con tutte le ferite e il sangue colato: se accostata all’icona di Cristo del Monte Sinai, la ricostruzione tratta dalla sindone mostra una somiglianza impressionante. Certo il Gesù del Sinai ha il volto disteso e leggermente sorridente, gli occhi aperti e sereni, i capelli ben pettinati e trattenuti indietro sulle spalle: sappiamo dalla sindone che l’uomo avvolto nel telo portava i capelli legati sulle spalle come da una specie di coda, ma durante i maltrattamenti quel nodo si disfece in parte e le ciocche sul davanti si sciolsero, restando invece legate solo quelle centrali corrispondenti alla nuca. Inoltre ha varie zone del volto tumefatte per via delle percosse subite. Vedere questi due ritratti così accostati, momenti diversi di una storia ben nota, provoca una forte emozione ma anche un certo senso d’imbarazzo, perché ci si sente come completamente messi a nudo e privati di qualunque schermo: forse è per evitare questa sensazione che molte persone, persino studiosi della Scrittura, non vogliono che si tocchi il tasto della sindone come reperto autentico ma preferiscono piuttosto lasciarla galleggiare in un limbo di fumose ipotesi. 

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

giovedì 29 maggio 2014

SOMIGLIANZA TRA GESU' E MARIA


Com’era fatto questo archetipo? Negli stessi anni, sotto il regno di Giustiniano, furono eseguite a Costantinopoli due splendide icone su legno che formano una presenza molto particolare nel campo dell’arte antica. Una raffigura il Cristo che tiene il vangelo e benedice, l’altra rappresenta san Pietro, ma ha nella parte superiore ha tre scudi tondi (clipei) dentro i quali stanno i volti di Gesù, Maria e Giovanni l’Evangelista. Lo stile delle icone è realistico e naturalistico, e questo le distingue nettamente dall’arte bizantina di quel tempo, dove le immagini anche umane cominciano ad essere piuttosto astratte, secondo un’idea dell’arte che vuole sganciare l’immagine dalla realtà per dire che essa è messaggio eterno, senza legami fissi con lo spazio ed il tempo. Le due icone sono derivate dall’antico ritratto di epoca romana come ne esistono ancor oggi tanti, ad esempio le miniature dei defunti poste sulle mummie nella necropoli del Fayyum. E sono state fatte con la volontà di imitare un modello molto preciso, seguito alla lettera: nell’icona di Pietro i due ritratti di Maria e di Gesù si somigliano moltissimo, proprio come succede fra una madre e suo figlio; e il ritratto di Cristo nel piccolo clipeo è uguale a quello dell’altra icona più grande, ma con una differenza: nel clipeo si raffigura il Cristo della Passione, con la corona di spine e il volto insanguinato, mentre nell’icona grande sta il Cristo Pantocratore (in greco “Signore di tutto”), che lo presenta come Re dei Re. Il pittore che eseguì l’icona di Cristo non era un uomo qualunque ma un genio fuori del comune, che riuscì ad estraniarsi completamente rispetto ai canoni dell’arte del suo tempo, vistosamente diversi, per aderire a un modello molto più antico che cercò di copiare fedelmente. Opere di questo genere non sono certo all’ordine del giorno ma segnano senz’altro un evento molto importante; anche chi le ordinò non doveva essere una persona qualunque.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale. Tutti i diritti riservati. 

martedì 27 maggio 2014

STORIA DELL'IMPRONTA DI EDESSA - 1


Come e quando venne ritrovata la prodigiosa impronta di Edessa che riportava i tratti del volto di Gesù? Secondo lo storico Procopio di Cesarea, la città di Edessa nell’anno 525 aveva sofferto moltissimo per via di una spaventosa inondazione dovuta a piogge straordinarie. Durante la notte il fiume Daisan era straripato, aveva distrutto molti degli edifici più belli e ucciso un terzo degli abitanti che furono sorpresi nel sonno. Dopo il disastro l’imperatore Giustiniano inviò una squadra di ingegneri che fecero grandi lavori di rifacimento, deviarono il corso del fiume perché non potesse più recare un danno simile e restaurarono la cinta muraria che aveva subito guasti enormi. Stando a una tradizione locale, dentro una nicchia segreta delle mura presso la porta chiamata Kappa si trovava l’immagine prodigiosa accuratamente richiusa e nascosta, che proprio durante i lavori seguiti all’inondazione del 525 ritornò alla luce. Ma i guai della splendida città dove il cristia-nesimo si era sviluppato molto presto non erano finiti. Giustiniano si era impegnato a fondo per strappare ai popolo barbarici le regioni dell'Occidente che erano state parte dell’impero romano. Le lunghe guerre condotte ad esempio in Spagna contro i Visigoti e in Italia contro i Goti lo videro vincitore, però a un prezzo molto alto: concentrare le truppe in Europa voleva dire sguarnire il fronte del Medio Oriente, e adesso i persiani dilagavano devastando l’Armenia, la Siria e altre regioni fino alle coste del Mar Nero. Contro l’impero persiano Giustiniano non poté far altro che negoziare trattati di pace, per garantire i quali doveva pagare un tributo.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale.

lunedì 26 maggio 2014

STORIA DELL'IMPRONTA DI EDESSA - 2

Cosroe INell’anno 544 il re di Persia Cosroe Nirhirvan era risalito sino alla Turchia ed aveva posto sotto assedio l’antica città di Edessa. Gli abitanti erano spaventati soprattutto per una formidabile struttura di legno che il re aveva fatto costruire tutt’intorno alle sue poderose mura, che più volte essi avevano tentato invano di mettere fuori uso. Quando l’opera era quasi terminata, spinti dalla disperazione, gli Edesseni avevano tratto fuori dal suo santuario l’oggetto che ritenevano più sacro al mondo: era quell’immagine non fatta da mano d’uomo che Dio stesso aveva voluto imprimere, e che secondo l’antica opera nota come la Doctrina Addai Gesù aveva inviato al re Abgar V perchè guarisse dalla sua malattia. L’avevano portata in un condotto che si erano scavati vicino al bastione nemico e poi l’avevano cosparsa d’acqua, come si faceva per ottenere acqua santa per benedire il popolo. Questo è un dettaglio molto importante, che va notato: gli abitanti di Edessa erano sicuri che l’immagine sacra fosse indelebile e non fatta da colori, altrimenti non l’avrebbero mai imbevuta d’acqua. Bagnare un dipinto significa danneggiarlo irreparabilmente; invece, secondo lo storico bizantino Evagrio (536-594), l’immagine tessile veniva comunemente bagnata per ricavarne acqua santa. Questo dettaglio fa venire in mente proprio la sindone di Torino, che come già detto porta l’immagine doppia, anteriore e posteriore, di un uomo crocifisso. Tale immagine è indelebile, non è stata dipinta né è dovuta a colore.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

UN VECCHIO TELO LOGORO


Il sovrano aveva anche ordinato ad Anania di ritrarre Gesù nella maniera più somigliante possibile, “per poterne vedere l’immagine, l’aspetto reale, i capelli e tutto il resto”. Anania raggiunse Gesù e gli consegnò la lettera, però non riuscì a rappresentare le sue fattezze in un dipinto. Allora Gesù, letto dentro il suo cuore, chiese di lavarsi: a questo punto, dice testualmente la fonte, “gli dettero un tetràdiplon, e dopo essersi lavato si asciugò il viso: essendo rimasta impressa in quella sindòn la sua immagine, Gesù la consegnò ad Anania.”
Anania la portò ad Abgar e quell’immagine ebbe il potere di guarirlo dalla sua malattia; qui finisce la digressione sull’immagine prodigiosa, poi il testo prosegue per un lungo brano tornando alla missione dell’apostolo Giuda Taddeo. La cosa più interessante è che l’autore anonimo di questo scritto ha creato un neologismo quando ha coniato l’aggettivo tetràdiplon, che significa “piegato in otto” (quattro volte doppio); e alcuni manoscritti portano la forma più completa ràkos tetràdiplon, che è di grande significato. Ràkos è una parola del greco antico ed ellenistico che indica un drappo vecchio, logoro, consunto e lacero: insomma, una specie di straccio; si usava anche per le persone piuttosto malandate, in espressioni che significavano “ridotto ad uno straccio”. La fonte da cui fu preso questo inserto finito nella Dottrina di Addai parlava dunque di un telo piuttosto lungo, che era stato piegato in otto, di fibra di lino (sindòn), e dall’aspetto piuttosto vecchio e consunto. Questo crea però una situazione singolare e paradossale: Gesù chiede di lavarsi il viso, e i suoi discepoli non hanno niente di meglio da dargli se non un vecchio panno consunto, per giunta logoro?

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

NON DIPINTO BENSI' IMPRONTA


Un fatto molto interessante nella Dottrina di Addai, che è antichissima, consiste nella descrizione dl tipo di immagine visibile sul lino. Secondo il testo, quell'immagine aveva a che fare con l’acqua, infatti si formò grazie al contatto fra il lino fine (sindòn) e il volto di Gesù quando questo era bagnato. Il termine usato è ekmaghèion, che vuol dire “impronta” o “alone bagnato”. Re Abgar però non aveva chiesto un’impronta come quella che alla fine gli consegnò Anania, bensì un ritratto vero e proprio fatto di colori e il più somigliante possibile: un ritratto tradizionale di quelli comuni nell’impero romano, insomma. Lo storico armeno Mosè di Korene, vissuto nel V secolo, parla in effetti di questo ritratto di Gesù come un vero dipinto eseguito a colore su seta. L’immagine prodigiosa di Edessa insomma non era l’unica a tramandare le fattezze di Gesù, ma solo la più autorevole e la più venerata.Un fatto molto interessante nella Dottrina di Addai, che è antichissima, consiste nella descrizione dl tipo di immagine visibile sul lino. Secondo il testo, quell'immagine aveva a che fare con l’acqua, infatti si formò grazie al contatto fra il lino fine (sindòn) e il volto di Gesù quando questo era bagnato.Il termine usato è ekmaghèion, che vuol dire “impronta” o “alone bagnato”. Re Abgar però non aveva chiesto un’impronta come quella che alla fine gli consegnò Anania, bensì un ritratto vero e proprio fatto di colori e il più somigliante possibile: un ritratto tradizionale di quelli comuni nell’impero romano, insomma. Lo storico armeno Mosè di Korene, vissuto nel V secolo, parla in effetti di questo ritratto di Gesù come un vero dipinto eseguito a colore su seta. L’immagine prodigiosa di Edessa insomma non era l’unica a tramandare le fattezze di Gesù, ma solo la più autorevole e la più venerata.

Articolo per gentile concessione della dott.ssa Barbara Frale

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