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lunedì 10 marzo 2014

LE ERESIE DI WYCLIFFE E HUS

John Wycliffe è stato il più importante riformatore prima di martin Lutero; di lui sappiamo poche notizie se non che, nato a Hipsell nei pressi di Richmond, studiò al Balliol College di Oxford dove conobbe Guglielmo di Ochham e dove studiò le opere di Gerardo di Borgo San Donnino. Nell'anno 1374, a due anni dalla laurea in teologia, fu mandato dal governo del Re a Bruges per un incontro con gli emissari di papa Gregorio XI al fine di risolvere alcune questioni rimaste aperte tra il pontefice ed Edoardo III. In realtà, Wycliffe era assoggettato al partito anti papale che faceva capo a Giovanni di Gad di Lancaster figlio del re che, successivamente, lo assunse come consigliere ecclesiastico. Proprio per questo rapporto Wycliffe si mostrò favorevole all'interruzione di sussidi in denaro alla Chiesa Cattolica scatenando l'ira di Roma che portò in giudizio Wycliffe e il Duca di Lancaster. Come se la situazione non fosse già delicata di suo, in questo periodo Wycliffe scrisse due opere (De Civili Domino e De Dominio Divino) in cui ribadiva la superiorità del potere del re su quello del papa. L'intervento del figlio di Edoardo evitò, per ora, la sua condanna che fu sancita comunque da ben cinque bolle papali di Gregorio XI: date le sue amicizie influenti, riuscì ad evitare l'arresto e nel 1377 fondò l'Ordine dei Poveri Predicatori, i lollardi. Nel 1378, Wycliffe fu convocato ancora una volta con l'accusa di eresia, accusa che cadde nel vuoto grazie al tempestivo intervento della regina Giovanna di Kent. A favore del riformatore, corse lo Scisma d'Occidente che costrinse il papa ad occuparsi più della tenuta della sua chiesa che non di un folle predicatore eretico e proprio questo permise a Wycliffe di scrivere le 33 conclusioni sulla povertà di Cristo. Convinto, ormai, che il papato non si sarebbe più occupato delle sue dottrine, scrisse il De Eucharistia attaccando la dottrina della transustanziazione in cui dichiarò che la sostanza del pane rimaneva la stessa pur ammettendo la presenza di Cristo nel pane stesso non a livello materiale. Questa teoria contrastava con i canoni del concilio del IV lateranense del 1215 in cui si affermava che la sostanza del pane diventava Corpo di Cristo. Questa visione accelerò la condanna di Wycliffe, anche per via dell'"abbandono" del Duca di Lancaster, del 17 maggio 1382 da parte di William Courtenay, Arcivescovo di Cantervury il quale condannò 24 tesi. Assistito da John Purvey riuscì a fuggire nuovamente dal carcere andando presso la parrocchia di Lutterworth dove ebbe nel 1382 il suo primo attacco di cuore, solo due anni dopo morì...era il 31 dicembre del 1384. Wycliffe fu condannato definitivamente per eresia dal Concilio di Costanza nel 1415 e 1428 su pressione di Papa martino V. Il suo corpo venne riesumato, messo al rogo e le sue ceneri sparse nel fiume Swift.

La dottrina di Wycliffe

Wicliffe sosteneva la superiorità dello Stato sulla Chiesa che si doveva mantenere povera senza possedimenti o coinvolgimenti col mondo politico. Il potere della Chiesa deriva dalla grazie e quindi il clero poteva essere espropriato dei suoi beni per ordine del potere dello Stato. La Chiesa doveva essere una "Vera Chiesa" pronta ad accogliere solo coloro i quali fossero destinati alla Salvezza. Wycliffe ritenne inutile la cresima, negò la transustanziazione, accettò l'idea del Purgatorio rifiutando la pratica delle indulgenze, le messe in suffragio di deceduti, il culto dei santi, le reliquie e i pellegrinaggi.

John Hus nacque nella Boemia, a Husinec nell'anno 1369. Orfano di padre molto presto andò a Praga dove ottenne ottimi risultati nei corsi di teologia e filosofia. Nel 1393 ottenne di titolo di Baccelliere in arti, nel 1396 la laurea e nel 1400 fu nominato sacerdote per diventare nel 1402 decano presso l'Università di Praga. Nel 1403 l'Università di Praga condannò ben 45 tesi negli scritti di Wycliffe ma nonostante questo, Hus tradusse in ceco il Trialogus divenendo molto popolare presso i boemi che proprio in quegli anni assaporavano l'idea di costruire una nazione. Le idee così contrastanti con l'ortodossia cattolica non provocarono le antipatie dell'Arcivescovo di Praga il quale offrì la sua incondizionata protezione nonostante le accorate richieste di intervento di Gregorio XII preoccupato che, oltre al diffondersi delle teorie di Wycliffe, anche quelle di Hus potessero prendere piede soprattutto presso il re Venceslao IV il quale, appunto, permise alla componente ceca dell'Università di Praga tre voti nelle assemblee concedendone solo uno ai boemi scatenando una vera e propria migrazione di circa 20 mila persone verso Lipsia e come se non bastasse il re proibì ogni contatto tra il papa e il clero locale. A questo si aggiunse la cronica incertezza della Chiesa Cattolica con l'antipapa Alessandro V che emanò nel 1409 una bolla in cui fu vietata la predicazione in Boemia al di fuori dei luoghi consacrati e alla diffusione delle opere di Wycliffe. Hus, che vantava l'appoggio del re, inviò all'antipapa Giovanni XXIII Stanislao di Znojmo e Stefano di Palec ma l'Arcivescovo lo bandì nel 1410 sancendo la sua condanna a morte per mano dello stesso re nel settembre del 1411. Hus si mostrò molto critico nei confronti di Giovanni XXIII particolarmente propenso alla vendita di indulgenze per ottenere finanziamenti per la guerra contro Gregorio XII scatenando la sua ira e la seguente scomunica. La bolla fu bruciata in piazza durante una manifestazione e tre seguaci del filosofo furono arrestati e decapitati per ordine di Vencesclao che in questo modo tolse l'appoggio ad Hus dato che dalle indulgenze ne avrebbero tratto giovamento anche le sue casse. Nel 1412 Hus decise di fuggire nella Boemia meridionale predicando fra i contadini: in questo periodo scrisse le sue opere più importanti, tra cui Interpretazione del credo, dei dieci comandamenti e della preghiera del Signore e Della simonia, in ceco e De ecclesia in latino. Nel 1414 rientrò a Praga e, grazie ad un salvacondotto del re di Germania Sigismondo di Lussemburgo che era divenuto re nel 1410, partecipò al Concilio di Costanza del 1415 dove fu, comunque, arrestato e condannato a morte se non avesse abiurato. Hus non ritrattò nulla, fu condannato per eresia e messo al rogo il 6 Luglio del 1415. La stessa cattiva sorte toccò al suo amico Girolamo di Praga, che lo accompagnò a Costanza. il tradimento del re Sigismondo, però, scatenò la reazione della componente nazionalista ceca che sfociò in una guerra che ebbe termine nel 1436 con la pace e con la fondazione l'anno successivo dell'Unione dei fratelli boemo-moravi. 

La dottrina di Hus

Hus rimase impressionato da Wycliffe. La sua dottrina era basata sull'utraquismo, ossia la Comunione sotto forma sia di pane di vino secondo il Vangelo di Giovanni (VI,54): Chi si ciba della mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. A dir la verità, la Chiesa dei primi secoli (fino al XII secolo) aveva praticato la Comunione sotto ambedue le forme e, ai tempi di H., anche le Chiese orientali lo facevano, ma successivamente era stata ristretta al solo officiante e abbandonata l'usanza per i fedeli a causa del rischio che qualcuno potesse versare, in maniera sacrilega, per terra il Sangue di Cristo. L'usanza fu condannata a Costanza e questo scatenò la reazione degli ussiti fino al Concilio di Basilea dove fu permesso ai boemi di comunicarsi in entrambe le forme. Infine H. lottò contro le indulgenze, i pellegrinaggi, il ricorso all'intercessione dei santi e la venerazione delle reliquie, probabilmente in ciò influenzato dal pensiero delle comunità valdesi, esistenti all'epoca in Boemia ed in seguito assorbite dagli hussiti stessi.

mercoledì 8 gennaio 2014

LE ERESIE DI MEISTER ECKHART

Di lui la storia non ci ha tramandato alcun ritratto autentico e un solo manoscritto originale. Eppure il domenicano Eckhart di Hochheim, guardato con sospetto dalle autorità ecclesiastiche del suo tempo e perfino processato dall’Inquisizione, fu uno dei piú grandi teologi e filosofi del tardo Medioevo tedesco. Incredulo e indispettito, attendeva il giudizio dei magistrati ecclesiastici. Non si capacitava del fatto che proprio lui, dopo una vita dedicata alla Fede, dovesse subire l’onta dell’Inquisizione. A nulla era servito il tentativo di delegittimare i suoi accusatori, definendoli «invidiosi», «cattivi» e muniti solo di «grossolana ignoranza». Il verdetto sembrava ormai indirizzato al peggio, verso la condanna piú infamante: l’eresia. È il 1326. Il teologo Meister Eckhart si avvia a diventare un buco nero nella storia del pensiero cattolico. Di lui si parlerà davvero poco per secoli e il piú delle volte per denigrarlo. «Un uomo diabolico», lo definí l’eremita agostiniano Giovanni da Lovanio alla fine del Trecento. Mentre il francescano «nominalista» Guglielmo di Ockham bollò come «assurdità» le sue tesi mistiche, che profilavano una sostanziale identità tra spirito umano e divino. Ma gli scritti eckhartiani si diffusero ugualmente, in modo sotterraneo, attraverso il coraggioso sforzo divulgativo di due suoi discepoli, Giovanni Taulero ed Enrico Suso. Grazie a questo circuito «underground», le sue teorie «proibite» approdarono in ambienti filosofici, affascinando, per esempio, un pensatore del calibro di Niccolò Cusano.

Uno dei «padri» di Hegel

In seguito la fama di Eckhart crebbe notevolmente a partire dal XIX secolo. A lui riconobbero il ruolo di precursore dell’idealismo diverse illustri figure della cultura tedesca, primo fra tutti Georg Wilhelm Friedrich Hegel. «Qui abbiamo trovato davvero quello che vogliamo», esclamò un giorno a Berlino davanti al collega Franz von Baader, al quale doveva la scoperta degli scritti del teologo dimenticato. Ma l’influenza del discusso mistico medievale serpeggiò anche altrove. Ispirando il sociologo e psicologo francofortese Erich Fromm, che lo citò nel suo fortunato Avere o essere (1976). Eckhart nacque a Tambach (forse, o a Hocheim, presso Gotha), nella regione tedesca della Turingia, probabilmente nel 1260, in un periodo caldo per il Medioevo europeo. Da qualche anno era morto Federico II, lasciando il titolo imperiale vacante per un lungo periodo. Dopo poco sarebbero caduti anche Manfredi e Corradino di Svevia. L’era feudale e cavalleresca si avviava progressivamente e in modo inesorabile al tramonto, soppiantata dall’ascesa prepotente della borghesia e delle monarchie nazionali. Su questo mutato sfondo politico-sociale si inserisce la stagione turbolenta delle eresie, alla quale Eckhart assiste da vicino in età adulta. Sul rogo vede sfilare uno dietro l’altro i Cavalieri Templari, la beghina Margherita Porete e tanti suoi seguaci. Sull’infanzia e sull’adolescenza del teologo turingio il mistero è fittissimo, come del resto sul suo aspetto, mai raffigurato in un dipinto. Si presume sia stato di robusta costituzione, ma non esistono prove convincenti. Si sa con maggiore certezza che, intorno al 1275, entra giovanissimo nel convento domenicano di Erfurt, uno dei piú prestigiosi di tutta la Germania.

Il baccalaureato alla Sorbona

In seguito il procedere degli studi lo conduce in una città straniera destinata a incidere in modo determinante nella sua vita: Parigi, nella quale risiede per la prima volta nel 1285. Dopo un periodo di soggiorno a Colonia, dove si perfeziona in teologia, nel 1290, è di nuovo nella capitale francese, ormai lanciato verso una brillante carriera universitaria. Consegue il baccalaureato presso la facoltà teologica della Sorbona e, poco dopo, diviene lector sententiarum, un ruolo di prestigio che consisteva nella spiegazione dei Libri quattuor sententiarum di Pietro Lombardo, testo accademico di riferimento dell’epoca in materia teologica.
Nel 1294 torna a casa, a Erfurt. Diventa priore del suo vecchio convento e contemporaneamente vicario generale dell’intera Turingia per l’Ordine Domenicano. Ha ormai maturato in grandi linee la visione di un cristianesimo antidualista, in cui Dio non è un’entità lontana alla quale il fedele si rivolge con spirito utilitarista, «come un cane segue la donna che porta le salsicce». In questo periodo concepisce la sua prima opera significativa, le Istruzioni spirituali, che contengono qualche anticipazione delle tesi piú «forti» dal punto di vista metafisico. Lo pubblica in lingua tedesca per evidenti fini divulgativi, visto che si trattava di una raccolta di discorsi tenuti davanti ai «figli spirituali» del convento in occasione delle riunioni per la cena. La platea di giovani ascoltatori resta affascinata dalla forza rivoluzionaria di alcune sue argomentazioni. Sente parlare della dimensione del «distacco» come strada da percorrere per chi vuol abbracciare la Fede. Uno stato che però richiede il rigetto non solo della natura sensuale tipica dell’uomo comune, ma dell’intera personalità. In sostanza, un annientamento dell’«io» e di qualsiasi genere di volontà espressa nel vivere quotidiano, insieme al modo di percepire le cose. Le affermazioni dell’Eckhart giovane appaiono ardite rispetto all’ortodossia cattolica del Trecento. Come quella che, in buona sostanza, svaluta le opere meritevoli compiute da un credente. Per il teologo tedesco ha piú valore lo spirito con cui le buone azioni si esercitano, l’«essere» alla base di ogni fervore religioso. «Non sono le opere che santificano, siamo noi che dobbiamo santificare le opere». Rischiò di fare subito scandalo, poi, il suo giudizio positivo sulla tendenza al peccato, che «ha sempre grande profitto e utilità per l’uomo giusto», in quanto «questa inclinazione riempie l’uomo di uno zelo maggiore ad applicarsi sempre piú fortemente all’esercizio della virtú». Sorprese non poco, nei suoi discorsi, anche l’assenza di riferimenti all’inferno, al diavolo, alla castità e alle terribili punizioni divine.
L’inizio del Trecento conduce Eckhart di nuovo a Parigi, dove continua la sua scalata universitaria. Diventa professore ordinario e da quel momento assume il nome proprio di magister, quindi meister in tedesco. Ma il suo impegno si dirige anche verso l’amministrazione di vasti territori ecclesiastici. Un compito gravoso, che prevedeva viaggi pieni di rischi per le proibitive condizioni climatiche invernali e anche per la minaccia dei predoni. Eckhart visita le tante case dell’Ordine sparse nel territorio e ne fa costruire di nuove a Groninga, Braunschweig e Dortmund. Risale a questo periodo l’unico suo manoscritto originale: una breve lettera indirizzata al senato della città di Gottinga. Dopo una breve nomina, poi revocata, a Provinciale della Teutonia, il teologo parte di nuovo per Parigi nel 1311, chiamato all’attività didattica come magister per la seconda volta.

«Maestri dallo spirito rozzo»

Eckhart intanto sviluppa in modo piú compiuto la sua filosofia radicale. In alcuni sermoni tedeschi, riuniti sotto il titolo Paradisus anime intelligentis, teorizza il primato, nella religione, dell’intellectus (della razionalità) sulla voluntas (la volontà), perciò sull’amore. Un’asserzione in accordo con le tesi domenicane e pertanto in linea con la polemica antifrancescana che impazzava in quel periodo. Eckhart si unisce alla disputa, definendo nel famoso sermone numero 9 i predicatori dell’Ordine rivale come «maestri dallo spirito rozzo».
L’intellectus eckhartiano non è assimilabile al concetto di razionalità della filosofia moderna. Ma indica una facoltà piú alta, capace di percepire cosa si nasconde dietro le rappresentazioni sensibili. Smascherando tutte le false creazioni dell’io che portano fuori strada. Anche la definizione di Dio appare legata in qualche modo all’antinomia tra intellectus e voluntas. Dio è Unwesen («Non essere»), come nella teologia negativa neoplatonica, in quanto rappresenta qualcosa che sta sopra all’essere tradizionale. Parimenti le attribuzioni comunemente applicate a Dio sono un nulla, cioè false. L’uomo ritiene «buono» il Creatore per definizione, ma sbaglia. Dio, invece, andrebbe pensato nella sua «nudità», nel suo «non essere», senza supposizioni arbitrarie sull’aspetto e il carattere. In base alle affermazioni di Eckhart, pure la stessa Scrittura porta fuori strada, frapponendosi come una specie di schermo che non lascia intravedere il vero volto della dimensione divina.

L’essere analogico

Frutto diretto del suo secondo magistero parigino è la summa teologica dal titolo Opus tripartitum, scritta questa volta in latino, perché rivolta a una platea piú dotta, quella universitaria. Ispirata dal punto di vista strutturale alla tendenza enciclopedica dell’epoca, approfondisce alcuni temi già trattati, sempre secondo un’ottica speculativa. Con quest’opera Eckhart tenta di giustificare in modo piú articolato la dottrina cristiana attraverso le rationes naturales dei filosofi. La metafisica eckhartiana si basa sul principio dell’analogia. Chi trova Dio non possiede in sé l’essere supremo, ma lo prende in prestito. Nell’uomo, però, questa sostanza divina non attecchisce mai, figurando sempre come qualcosa di aggiunto. Ogni perfezione quindi dipende «completamente da un essere al di fuori» con il quale l’individuo è «in relazione analogica». Eckhart si serve di una metafora abbastanza curiosa per spiegare meglio il suo concetto: «La medesima salute che è nell’essere animato è nel cibo e nell’urina, e tuttavia in modo tale che della salute in quanto tale non v’è niente nel cibo e nell’urina, non piú di quanto vi sia nella pietra». Per il teologo, inoltre, l’unione di Dio con lo spirito umano non è frutto di eventi spettacolari dell’anima o di teofanie celesti improvvise. Ma una presenza duratura. Nel suo terzo periodo francese Eckhart soggiorna nello stesso convento domenicano dell’inquisitore che condannò Margherita Porete, Guglielmo da Parigi. Una strana coincidenza, viste le affinità tra il pensiero eckhartiano e quello della beghina di Parigi, morta sul rogo nel 1310. Le similitudini in alcuni casi sono davvero sorprendenti. Nella sua opera principale, Le Miroir des Simples, Margherita Porete esalta l’«anima che è diventata niente» e per questo «ha tutto». Invita allora i credenti ad annientare la propria volontà e l’egoismo per vivere «nella sostanza di Dio». La beghina, però, si spinge piú in là di Eckhart arrivando a postulare che l’uomo «è Dio per natura divina», composto della stessa sostanza, senza limitazioni. La rottura totale con l’ortodossia cattolica arriverà poi con la concezione estremamente libertaria della filosofia di vita di chi ha annientato la propria volontà. Per l’eretica francese, «l’anima annichilata congeda le virtú e non è piú al loro servizio, perché non ha piú bisogno di loro». Il teologo di Tambach difese le beghine perseguitate, come conferma uno dei suoi piú attendibili biografi, lo svizzero Kurt Ruh: «In sintonia con il suo Ordine e con la sua vocazione di predicatore di una vera vita spirituale in Dio, egli fu dalla parte di chi era colpito e perseguitato e inoltre ne fu certamente consolatore e difensore». Le stesse teorie di Eckhart sembra abbiano fornito una base per lo sviluppo del movimento delle beghine in Francia, Svizzera e Germania. Specie nei dieci anni in cui visse a Strasburgo, per assolvere al nuovo incarico di vicario generale del maestro dell’Ordine Domenicano. Un lavoro di grande responsabilità, che comprendeva la cura delle anime dei monasteri femminili. 

Mistico e consolatore

Eckhart aveva una particolare sensibilità per gli oppressi e i sofferenti. Come dimostrato anche dallo stretto rapporto che intrattenne con la figlia del re Alberto I d’Asburgo, Agnese di Ungheria. La donna, colpita da una serie di eventi traumatici, era entrata nel convento delle Clarisse di Königsfelden, nel Cantone svizzero dell’Argovia, ma non prese mai i voti. Eckhart le dedicò il Liber benedictus, un’opera incentrata sul tema della consolazione, come tecnica per metabolizzare i dolori della vita. L’opera rispecchia l’anima in parte «popolare» del cristianesimo medievale, rintracciabile anche in ambito non strettamente francescano. Eckhart, infatti, invita a «piangere con quelli che piangono», esortando tutti gli uomini che hanno un amico sofferente a stare accanto a lui e a consolarlo con la loro presenza. Il dolore del prossimo era assunto spesso in prima persona dai predicatori del Trecento, che frequentemente si trovavano a stretto contatto con i drammi della gente comune. Eppure non appariva lontano il periodo in cui le sofferenze mondane venivano invece considerate dai religiosi poco rilevanti, da sublimare in attesa dell’unico momento che contava, ossia quello della Resurrezione. Nel Liber benedictus Eckhart traccia una strada per il superamento del dolore, che prevede il distacco dalle cose terrene e dall’io. Ma invita anche a considerare il dolore come un segno della presenza di Dio: «C’è ancora un’altra consolazione. San Paolo dice che Dio castiga tutti quelli che accoglie come figli. Bisogna dunque soffrire se si vuole diventare figli». Dopo il decennio strasburghese torna a Colonia per svolgere l’incarico di lector primarius della cattedra teologica nello Studio generale dei Domenicani della città renana. Sono gli anni in cui affiorano i primi sospetti di eresia nei suoi confronti.

L’inizio del processo

Il 1326 segna uno dei momenti piú drammatici della vita di Eckhart. È l’anno in cui ha inizio il processo di inquisizione, istruito a Colonia, dall’arcivescovo Enrico II di Virneburg. Un procedimento non ex officio, ma un atto dovuto in seguito alle accuse di eresia mosse contro il teologo da parte di alcuni suoi confratelli. L’arcivescovo, rinomato per le sue dure requisitorie contro le beghine e i begardi (denominazione che, come quella di «beghine», deriva dal francese bégard, risalente al medio olandese beggaert, cioè «mendicante»; indica l’associazione sorta verso il 1220, che adottò una forma di vita mendicante e si diffuse prevalentemente in Francia e in Germania, n.d.r.), sembrava avere una particolare avversione per il nuovo imputato. Ma forse al teologo turingio erano ancora piú ostili i due commissari inquisitori: Reinerius Frisone e Pietro di Estate, entrambi appartenenti all’Ordine dei Francescani. Chi erano i suoi accusatori? Chi, in sostanza, mise in moto la micidiale macchina persecutoria dell’Inquisizione? Eckhart covava due serpi in seno nel convento di Colonia, in cui era lettore: Ermanno de Summo e Guglielmo di Nidecken. Due personaggi torbidi, piú volte accusati in precedenza di calunnia e di falsa testimonianza. Il mistico non subisce tortura. Riceve un trattamento di tutto riguardo, probabilmente grazie al prestigio che aveva guadagnato con la sua carriera universitaria. E anche perché non aveva nulla da confessare, visto che le tesi sospette erano già di pubblico dominio. Ma, fin dall’inizio, il processo sembra indirizzarsi verso la condanna. Non solo per le scarse simpatie che l’imputato riscuoteva in chi stava per giudicarlo. C’era qualcosa di strano, per esempio nella struttura stessa del procedimento: non ex officio, come anticipato, quanto per promoventem. Questa forma di giudizio, in cui il denunziante doveva presentare delle prove, consentiva all’accusato di preparare le sue repliche. Ma l’imputazione di eresia limitava enormemente le possibilità di controbattere alla difesa. Ad aggravare la posizione di Eckhart c’era, poi, la ricca produzione in volgare delle sue prediche, rivolte ai laici e al popolo. Questo materiale rappresentava per gli inquisitori una duplice minaccia, perché poteva diffondersi a macchia d’olio, uscendo dai conventi e dalle aule universitarie. Il processo comunque si svolse in modo conforme all’ordinamento giudiziario canonico. Eckhart ebbe da ridire soprattutto su questioni di contenuto, lamentandosi del fatto che i giudici non avevano compreso le sue frasi, la sua filosofia. In effetti l’accusa estrapolò brani da diverse opere, separandoli arbitrariamente dal loro contesto generale. Altre incongruenze contribuirono a rendere l’indagine sul pensiero eckhartiano non proprio accurata: la difficoltà di tradurre dal tedesco in latino alcune parole, per esempio, e anche l’aver pescato testi da sermoni che erano in realtà appunti di ascoltatori o di studenti del teologo.

L’appello al papa

Con il trascorrere delle udienze, Eckhart si sente sempre piú con le spalle al muro. Non lo salva nemmeno l’intervento di un confratello, Nicola di Strasburgo, che mette in discussione l’attendibilità di uno dei due testimoni, Guglielmo di Nidecken. La commissione d’indagine reagisce infatti violentemente, denunciando quello che considerava un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote al lavoro dell’Inquisizione. Visto l’andamento del processo giudiziario, nel gennaio del 1327, il teologo decide di inoltrare un appello alla Sede Pontificia. Si sentiva vittima di calunniatori e impossibilitato a esplicare una difesa adeguata. Credeva di avere i giusti argomenti per ottenere una pronuncia favorevole da parte del pontefice, facendo leva sul fatto che le sue posizioni teologiche erano state esaminate un giorno da un Visitatore papale e considerate ortodosse. Ma l’ostracismo nei suoi riguardi non conosce tregua. La commissione concede il ricorso alla sede papale, non potendo fare altrimenti, con parere però negativo (apostoli refutatorii). Il processo quindi si sposta da Colonia ad Avignone, con una mezza condanna già praticamente emessa. Eckhart, dal canto suo, non si difese bene. Avrebbe potuto utilizzare in modo piú produttivo i pochi spazi di replica a lui concessi. Ma era purtroppo sprovvisto di doti da avvocato e detestava le astuzie dialettiche. Da studioso di teologia, spesso si perdeva nell’astrattezza delle sue argomentazioni e non era sufficientemente ferrato in materia di diritto canonico. A ogni modo non mancò di essere pungente nei riguardi dei suoi accusatori. Parlò di una loro «ristrettezza mentale». Del fatto che consideravano sbagliato tutto quello che non capivano. Li riteneva colpevoli di «manifesta bestemmia contro Dio ed eresia» perché la loro posizione contraddiceva «la dottrina di Cristo, dei Vangeli, dei Santi e dei Dottori». Pur consapevole di essere giudicato da un tribunale non proprio imparziale, Eckhart volle comunque sottoporsi alla sua autorità «per non sembrar fuggire» di fronte alle accuse. Alla fine ammise in modo molto onesto che la forma di alcune sue argomentazioni era di controversa interpretazione. E che qualcosa poteva apparire un po’ «inusuale e sottile». 

La pubblica autodifesa

Nel febbraio 1327 Eckhart tenta la carta della disperazione, avventurandosi in una dichiarazione pubblica presso la chiesa dei Domenicani a Colonia. Una sorta di ritrattazione di parte dei suoi scritti incriminati. «Se dunque si trovassero proposizioni erronee concernenti quel che ho detto, da me scritte, dette o predicate, in privato o in pubblico, in qualsiasi tempo e luogo, direttamente o indirettamente, secondo una dottrina sospetta e falsa, io le revoco qui espressamente e pubblicamente, di fronte a tutti e a ciascuno dei presenti; sia perché voglio che da questo momento in poi esse siano considerate come non dette e scritte, ma anche e soprattutto perché so di essere stato frainteso: come se (per esempio) avessi predicato che il mio dito mignolo ha creato tutte le cose – io questo non l’ho pensato né detto, per quel che le parole significano, ma l’ho detto delle dita del Bambino Gesú». La ritrattazione non giovò all’immagine dignitosa di Eckhart, che stoicamente aveva affrontato un processo in parte persecutorio. Uno dei suoi piú celebri biografi, Joseph Koch, bocciò questa strategia senza mezzi termini: «Questa dichiarazione è il documento piú penoso di tutto il processo. È una fuga nel pubblico che non poteva aver effetto in nessun senso». Sembra che sia stato spinto a questo gesto eclatante da numerosi amici, piú scaltri di lui nelle questioni giudiziarie, che gli consigliarono una parziale ritrattazione per evitare in extremis la condanna per eresia.

Una condanna postuma

La sentenza viene pronunciata il 27 marzo 1329 con la bolla In agro dominico. La firma Giovanni XXII, passato tristemente alla storia come il «papa-Mida» o «papa-banchiere», per la sua visione di una Chiesa sfarzosa, che doveva fornire un’immagine terrena degna dello splendore divino. Un pontefice ambizioso, nepotista, stroncato dalla maggior parte degli storici e collocato da Dante Alighieri all’Inferno, insieme ad altri colleghi avignonesi. Ma la pronuncia del tribunale giunge quando Eckhart è deceduto già da un anno, probabilmente ad Avignone, dove stava seguendo da vicino le ultime vicende del processo. Nella bolla papale tutte le frasi sospette al centro delle udienze di Colonia, sono definite non ortodosse: «Con grande dolore annunciamo, che, in questi tempi, un certo Eckhart, dei Paesi tedeschi e, secondo quanto si dice, Dottore e Professore di Sacra Scrittura dell’Ordine dei Predicatori, ha voluto saperne piú del necessario, in modo imprudente e non conforme alla misura della fede, allontanando l’orecchio dalla verità e rivolgendosi a delle invenzioni. Sedotto, infatti, da quel padre della menzogna che spesso assume le forme dell’angelo della luce per diffondere la tenebrosa e odiosa oscurità dei sensi al posto della luce e della verità, quest’uomo, condotto in errore contro la splendente verità della fede, ha fatto crescere nel campo della Chiesa spine e zizzania, sforzandosi di produrre cardi nocivi e velenosi rovi. Ha cosí insegnato numerose dottrine che oscurano la fede in molti cuori, esponendole specialmente nelle sue prediche di fronte al popolo incolto e anche ponendole per iscritto». C’è chi intravvide dietro la sentenza un intrigante retroscena politico. Il sacerdote svizzero Otto Karrer scrisse al riguardo che il teologo turingio fu dato in pasto ai Francescani per placarli del disappunto che avevano provato in seguito alla canonizzazione del domenicano Tommaso d’Aquino, sancita nel 1323. Accantonando le dietrologie, la condanna di Eckhart comportò l’uscita temporanea dalla storia di un grande pensatore. Una punizione esemplare nei riguardi dell’unico teologo processato per eresia nel Medioevo. Ma il tempo fu galantuomo. E alla riscoperta filosofica dei suoi scritti seguí lo sdoganamento parziale anche in ambito ecclesiastico. 

Articolo di Francesco Colotta per Gentile concessione della Rivista Medioevo (n. 158 marzo 2010)

giovedì 8 marzo 2012

ERESIE A PUNTATE: 24. DA CANOSSA A SAN BERNARDO

La riforma religiosa evidenziò che non si trattava solo di lottare contro gli ecclesiastici corrotti, ma anche contro la prassi della designazione dei vescovi da parte dell’imperatore o del potere civile a lui legato. La piena attuazione della riforma richiedeva necessariamente l’autonomia della Chiesa nel comporre le sue scelte e designazioni. Questo comportava una forte contrapposizione tra papato e impero, focalizzata, soprattutto, sulle modalità di designazione dei vescovi, da cui il nome “lotta delle investiture”. Protagonista principale fu Ildebrando da Soana, eletto pontefice come Gregorio VII (1073-85). Nel suo Dictatus Papae (1075) ribadì con forza la superiore autorità del papato sia sulla Chiesa che sul potere civile: «Solo il Pontefice romano può a buon diritto essere considerato universale.

mercoledì 7 marzo 2012

ERESIA A PUNTATE: 23. LA CROCIATA CONTRO LE VOLPI NELLA VIGNA DEL SIGNORE

La lotta contro gli eretici iniziò per superbia e intolleranza da parte di un clero secolarizzato e arrogante ma, con il passare del tempo, assunse gradualmente i connotati di una vera e propria “crociata”, alla stregua di quella contro gli infedeli. Questa escalation venne a consolidarsi quando fu evidente la “convenienza” della caccia all’eretico ossia quando sia la Chiesa che l’Impero si accorsero che strumentalizzare la demonizzazione degli eretici era la via più semplice per sollevare il popolo contro nemici politici ed economici. L’eresia doveva essere percepita e considerata come un attentato alla “pace di Dio” e alla convivenza tra gli uomini. Già nel canone Sicut ait beatus Leo del terzo concilio lateranense del 1179 troviamo scritto: «poiché in Guascogna, Albigese e Tolosano e in altri luoghi così è cresciuta la dannata perversità degli eretici variamente si siano assunti questo impegno di sconfiggere quelli, nello stesso modo di coloro che visitano il sepolcro del Signore». 
La congiuntura di eventi e cause per la crociata interna venne rimandata di circa trent’anni e trovò la sua piena giustificazione, sotto il papato di Innocenzo III, nel canone Excommunicavimus del IV concilio lateranense del 1215: «i cattolici che, assunto il segno della croce, si siano accinti allo sterminio degli eretici, godano di quella indulgenza e siano muniti di quel santo privilegio che sono concessi a coloro che recano aiuto in Terrasanta».
Con questo decreto papale lo status dei “crociati” contro gli eretici veniva definitivamente equiparato a quello dei crociati in Terrasanta, coinvolgendo, oltre agli eretici, anche qualsiasi potere civile li protegga,  pponendosi alla repressione antiereticale promossa dalla Chiesa. Queste idee non erano nuove poiché, sin dai primi mesi del suo pontificato, Innocenzo III si era già mostrato deciso a risolvere la questione “albigese” in ogni modo. Già nel 1198, infatti, aveva lanciato un appello per invitare i francesi della Linguadoca a mobilitarsi contro gli eretici, concedendo la stessa indulgenza prevista per coloro che visitavano le tombe degli apostoli Pietro e Giacomo. Come abbiamo già avuto modo di vedere, l’occasione per risolvere una volta per tutte la situazione occitanica e per sradicare l’eresia in quelle terre, fu l’uccisione del legato pontificio Pietro di Castelnuovo nel 1208. Dopo questo fatto Innocenzo III poté lanciare una crociata vera e propria, invitando tutte le forze ecclesiastiche e laiche del regno di Francia a mobilitarsi contro l’eretica pravità. Accanto alla repressione armata, si delineò un’altra forma di contrapposizione nei confronti delle varie sette o movimenti ereticali, in particolare quelle dei catari e dei valdesi. Già nel 1206 Innocenzo III ricordava al suo legato Radulfo, della provincia narbonese, che la difesa dell’ortodossia doveva avvenire anche per mezzo dell’esempio. Dispose, quindi, che venissero individuati dei “viri probati” affinché potessero dedicarsi alla predicazione, seguendo un rigoroso stile di vita pauperistico-evangelico, In questo modo, “imitando la povertà del povero Cristo», tali predicatori, con l’esempio e la predica, dovevano rivolgersi agli eretici per riportarli all’ortodossia. È in questo contesto che Folco, vescovo di Tolosa, istituì nella sua diocesi i «predicatores in episcopatu (...) fratrem Dominicum et socios eius» per contrastare con l’esempio e la parola l’eretica pravità. Due anni dopo, nel 1217, Onorio III definì Domenico e i suoi compagni la militia Christi della parola e gli invicti Christi adlete. Accanto alla milizia della crociata in armi si era aggiunta la milizia della parola. Nel 1220 lo stesso Onorio III interpretò la nascita dell’Ordine dei Frati Predicatori come un segno della volontà divina contro la “peste” dell’eresia. Con Gregorio IX questa “milizia evangelizzatrice” si completerà con l’ingresso dei Frati Minori, accomunati ai Predicatori nella lotta contro “le volpi (gli eretici) nella vigna del Signore». Tra le armi propagandistiche la Chiesa pose un forte accento anche sulla demonizzazione degli eretici definiti come “membra Diaboli” o “ministri Diaboli”. Le accuse più comunemente lanciate contro i dissidenti religiosi riguardano l’ordinamento morale e la sfera sessuale. Denominatore comune, presente, infatti, nelle polemiche cattoliche nei confronti dei vari eterodossi è la partecipazione a orge e incesti sfrenati durante le loro riunioni, indipendentemente dal movimento considerato. Altre accuse frequenti sono atti blasfemi e sacrileghi contro le cose sacre, altari, arredi, immagini, e così via. In questo modo la propaganda cattolico-romana intendeva sottolineare il comportamento perverso e il disordine morale degli eretici, capace di travolgere la vita sociale. Evidenziando la potenzialità corruttrice, indistintamente, di ogni eresia la Chiesa riuscì a mobilitare la collettività in chiave antiereticale e a giustificare la repressione violenta nei confronti dei dissidenti religiosi (un esempio su tutti il massacro degli abitanti della città di Béziers). Inoltre, richiamando alla mente atti corporali e triviali era molto più facile smuovere le masse anziché adducendo questioni teologiche e dottrinali. La demonizzazione degli eretici rese possibile anche la loro criminalizzazione nell’ambito del diritto pubblico. A partire dalla decretale Vergentis in senium del 1199 di Innocenzo III, in cui l’eresia religiosa venne equiparata al crimine lesae maiestatis, e quindi definitivamente collocata in un ambito sociale e politico. Da questo momento in poi, mantenendo viva l’immagine di strette relazioni tra demoni ed eretici, il ricorso alla violenza era giustificato dall’enormità del pericolo rappresentato dagli eterodossi per l’ordinamento religioso e civile nel suo complesso, in altre parole per la cristianità tutta. Per un’istituzione come quella della Chiesa cattolico-romana, impegnata nella realizzazione di un controllo totalizzante della coscienza degli individui e collettiva, la demonizzazione degli eretici si dimostrò uno strumento utile e indispensabile per la propria affermazione. Negando alla radice le argomentazioni addotte dai vari movimenti ereticali e coerentemente all’equazione eretici uguali a demoni e quindi uguali a criminali, a partire dal XIII secolo la persuasione nei loro confronti non poté che avvenire attraverso metodi coercitivi, alimentando continuamente le coscienze con immagini paurose e ignominiose degli eretici, conformando il contenuto degli exempla che li riguardano. Man mano che la demonizzazione degli eretici procedeva, la repressione si faceva più violenta E il passo fu breve perché il rogo divenisse una legittima anticipazione, quasi un atto di giustizia, delle pene eterne. Conseguenza di tutto questo fu che la difesa l’ortodossia equivalse difendere la Chiesa e, quindi, il papato. Chiunque insidiava la libertas ecclesiae, o si opponeva ai mandata ecclesiae, si trasformava in un avversario della Chiesa romana, indipendentemente dalle proprie idee religiose, con non poche strumentalizzazioni. Questa linea la ritroviamo anche negli editti antiereticali emanati da Federico II di Svevia tra il 1220 e il 1239, via via sempre più crudeli, che ricalcavano precedenti provvedimenti ecclesiastici. Non furono, infatti, solo il frutto di un calcolo politico per ingraziarsi il papato, ma anche di una consapevolezza interiore dell’imperatore del proprio dovere di reprimere eretici ed eresie e difendere l’ordinamento sociale voluto da Dio. La persecuzione dell’eresia divenne una questione di diritto pubblico, liberando, di fatto, la Chiesa dall’ambigua ed inaccettabile posizione se mettere a morte o no gli eretici. L’intransigenza e l’intolleranza imperiale è la stessa di quella della Chiesa, stesso è anche il linguaggio impiegato. L’eresia era considerata una vera e propria malattia che minacciava la salute del corpus ecclesiae. Per questo, le punizioni per gli eretici e i loro fautori sono tra le più dure,  compresa la pena di morte: per incutere terrore nei “dissidenti” e persuaderli a ritornare nella comunione con la chiesa, o, nel caso di non pentimento, per eliminare fisicamente l’eretico. Ovviamente la lotta antiereticale fu oggetto di inevitabili strumentalizzazioni, sia da parte dell’imperatore, sia da parte dei pontefici. Per Federico II, infatti, combattere il pericolo eterodosso nelle terre lombarde significava poter isolare, ideologicamente e politicamente, l’area italiana nella quale la più forte era l’opposizione nei suoi confronti (dopo essere stato scomunicato nel 1239, Federico II giunse persino ad accusare Gregorio IX di essere un ricettatore di eretici, poiché alleato con la lega lombarda). Dopo la scomunica di Gregorio IX, Federico II si servì delle leggi antiereticali nel Regno di Sicilia per colpire i ribelli senza consentire, ovviamente, che operassero poteri giudiziari autonomi e concorrenti (lui stesso decretò l’espulsione di tutti i membri degli ordini mendicanti, ai suoi occhi agenti del papato). Allo stesso modo, agli inizi del Duecento, i Lombardi, erano stati spesso accusati di eresia dai papi poiché disobbedienti ai mandata della Chiesa romana. Spesso, tra gli anni Venti e Cinquanta del secolo XIII, nel grande scontro che vedeva coinvolti l’Impero e il Papato, l’accusa di eresia aveva un significato ambiguo e veniva usata come propaganda per colpire l’avversario, o gli avversari. 

Articolo di Aldo Ciaralli

ERESIE A PUNTATE: 22. I GERMI DELL'ERESIA POPOLARE

Quasi mai un eretico di inizio secondo millennio era consapevole di esserlo. Per lo più si è trattato di asceti o missionari di idee che, in perfetta buona fede, nascevano più per aderire meglio ai vangeli che per distorcerne i
significati teologici. E’ la Chiesa che decide di bollare una idea come eretica e questa decisione trova giustificazione nel desiderio di mantenere intatta una ortodossia più funzionale al potere temporale e all’insindacabilità di questo potere che a giudizi di carattere religioso. Queste vicende, rapportate all’incoerenza del clero, tendevano a dimostrare solo che Dio amava ogni uomo mentre la Chiesa amava solo i fedeli ortodossi.

martedì 28 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 21. GLI UMILIATI E I VALDESI

Nel contesto spirituale sviluppatosi nei secoli XII e XIII, a causa della diffusa necessità di rinnovamento religioso per un ritorno al cristianesimo delle origini, presero corpo molteplici sperimentazioni di nuovi modelli religiosi. Tra questi si inserì il movimento degli umiliati, che comparve sulla scena della società medievale, insieme o poco prima dei Valdesi, a Milano e in molte altre città lombarde intorno alla metà del XII secolo. Questi erano gruppi di laici, uomini e donne, in gran parte tessitori e lavoratori della lana, che vivevano spontaneamente in comunità organizzate, praticando la penitenza e la castità e prestando aiuto ai poveri. Il loro ideale era coniugare la vita laica e quella religiosa e affiancare il clero nelle mansioni di mediazione tra Dio e i fedeli. Uno dei propositi principali del movimento era proprio l’apostolato per la difesa della Chiesa e per il recupero di coloro che si sono allontanati dalla fede cattolica.

giovedì 16 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 20. ERESIA COME RIVOLTA DEL POPOLO CONTRO IL CLERO

Il secolo XI segna l’inizio di una profonda trasformazione della società medievale. Se non scomparse, si riducono notevolmente le epidemie e il clima si fa più mite favorendo lo sviluppo dell’agricoltura che, proprio in questo periodo, si avvale di nuove attrezzi come l’aratro di ferro, la ferratura degli zoccoli ai cavalli, e tecniche come la rotazione triennale anziché biennale, ecc. Si assiste un po’ ovunque a una ripresa dei commerci. Tutti aspetti che in qualche modo anticipano la rinascita del Basso Medioevo e, in primo luogo, il sorgere dei Comuni in Italia, e quindi degli Stati nazionali in Europa. Conseguenza di tutto ciò è la spinta, in qualche modo centrifuga, dei laici, soprattutto i ceti emergenti degli artigiani e dei mercanti, per acquisire un’autonomia maggiore e una partecipazione sempre più rilevante nella società del tempo.

martedì 14 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE. 19. LA RIFORMA E GLI ERETICI PATARINI

Nel corso dell’XI secolo il papato romano si consolidò definitivamente come punto di riferimento essenziale e guida della società medievale in genere. Questo avvenne sull’onda di un movimento passato alla storia come “La riforma ecclesiastica” nata dalla necessità diffusa di un profondo rinnovamento della Chiesa. Le cronache dell’epoca sono, infatti, ricche di lamentele sui costumi di vita di vescovi e prelati, descritti come uomini corrotti e violenti, dediti alle pratiche di simonia, di concubinato (o nicolaismo) per aggirare l’obbligo al celibato. Il nome “nicol aita” proviene da una antica setta eretica nota per gli eccessi di fornicazione, orge, riti pagani a base fortemente erotica.

lunedì 13 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 18. PAULICIANI E BOGOMILI

Prima di proseguire ed inoltrarmi ulteriormente nell’immenso arcipelago delle superstizioni e delle pseudo fedi del basso e alto medioevo, ritengo giusto condividere con il lettore una riflessione. Calcolando l’estensione territoriale delle fedi anomale o eterodosse rispetto alla corrente “principale” del così detto “cattolicesimo” espresso dal papato, sorgono sempre una serie di consistenti sospetti che riassumo in quattro punti: 

sabato 11 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 17. DALLA MITOGRAFIA CATARA AL NAZIONALSOCIALISMO

E’ veramente incredibile come vicende lontanissime del Medioevo abbiamo influenzato e plasmato l’ottocento e il novecento. Nel caso del Catarismo è inoltre complicato districarsi all’interno degli usi strumentali che di esso hanno fatto esoteristi, occultisti, massoni e infine politicanti avvezzi a piegare i miti ai loro fini di manipolazione di massa. Sotto un particolare punto di vista sembra che le persecuzioni adottate all’Inquisizione abbiamo compresso e poi fatto dilagare le idee eretiche in un’epoca nella quale la Chiesa non aveva più armi per difendere la propria ortodossia. In questo senso, a differenza di quanto è avvenuto per la gnosi cristiana tardoantica, cui numerosi pensatori e scrittori contemporanei si sono richiamati come a un ineludibile “modello” speculativo, a partire almeno da Ferdinand Christian Baur - che in Die christliche Gnosis oder die christliche Religionsgeschichte (1835) ricollegò la filosofia di Hegel alla gnosi valentiniana - fino a Jung, a Jonas o a Cioran, il catarismo è stato di norma trattato in epoca moderna più come un mito politico o un tema occultistico che come un capitolo di storia del pensiero o delle religioni.

venerdì 10 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 16. I ROGHI DEFINITIVI DEI CATARI

Nonostante fossero passati poco più di cent’anni dalla crociata albigese e circa cinquanta dalla presa di Montsegur (1244), ultimo baluardo della resistenza catara nel Mezzogiorno francese, nonostante il massiccio esodo di catari dalla Francia verso l'Italia (soprattutto verso la Lombardia), nella contea di Foix, l’attuale Ariège, negli ultimi anni del '200 il movimento cataro riprese nuovo vigore. L’artefice di questo “revival” del catarismo, assolutamente non marginale, con oltre mille proseliti, fu Pierre Authier, di professione notaio ed originario di Ax-les Termes. Convertitosi nel 1296, si recò, assieme al fratello Guillaume e a Pradas Tavernier, un tessitore del villaggio di Prades, nel Pays d'Alion, in Lombardia che era ormai diventata il punto di riferimento per il catarismo dopo le violenti repressioni a seguito della crociata albigese. Nel 1299 tornò nel Sabarthès (contea di Foix) per ricostituire e ridare forza al movimento.

ERESIE A PUNTATE: 15. UN CASO PROVATO DELLA MESCHINITA’ DELL’INQUISIZIONE

Il 26 Dicembre 1269, morì a Ferrara Armanno Punzilovo o, meglio, Pungilupo, un uomo stimato e in odore di santità, estremamente popolare in città che aveva dedicato la propria vita all'assistenza di malati e carcerati e alle buone opere. La sue salma venne portata in cattedrale e divenne oggetto di culto, non solo da parte dei fedeli ferraresi, ma anche da parte di diverse altre città del Veneto e pure da Bergamo. Poco tempo dopo la sua inumazione cominciarono a circolare voci di miracoli e guarigioni improvvise davanti alla tomba del “santo”. Si procedette alla costruzione di una cappella votiva e, quindi, alla tumulazione dei resti in un antico sarcofago che si diceva provenire da Ravenna, dove era stato inumato lo stesso imperatore Teodosio. L'anno successivo alla sepoltura, però, l’inquisitore frate Aldobrandino scoprì che sedici anni prima il Pungilupo era stato processato con l'accusa di essere un cataro, ma che era stato prosciolto in seguito alla sua abiura.

ERESIE A PUNTATE: 14. LA CROCIATA ALBIGESE - MONTSÉGUR - DISTRUZIONE DEI CATARI

Il pretesto che venne adottato per muovere la crociata albigese nel 1208, che tante conseguenze porterà nei decenni successivi, non solo nella Linguadoca, ma in gran parte dell’Europa cristiana, fu l'assassinio del legato pontificio Pietro di Castelnau. Fino ad allora Innocenzo III (1198-1216) aveva adottato una linea morbida nei confronti dei catari, fatta di missioni di monaci cistercensi che diedero vita ad interventi più di forma che di sostanza, come la rimozione di quei prelati la cui azione risultava inefficace e la cui vita destava scandalo, oppure organizzando pubblici dibattiti. Anche le missioni nel 1207-1208 di famosi predicatori come Domenico di Guzman (1170-1221) e Diego d'Azevedo, vescovo di Osma, per arginare la diffusione dei catari, non approdarono ad alcun risultato concreto. Anzi alcuni eretici, come Guilhabert de Castres, uscirono a testa alta nei dibattiti pubblici in cui si cercava di confutare il dualismo cataro.

ERESIE A PUNTATE: 13. I CATARI – DOPPIA ESEGETICA E STRUTTURA GERARCHICA

L’esegetica Catara, a seconda dell’interpretazione accettata della creazione del mondo e del peccato originale, si divise in due filoni:
  • quella del dualismo assoluto
  • quella del dualismo mitigato

La corrente del dualismo assoluto sosteneva l’esistenza di due principi assoluti ed in antitesi: il Dio buono aveva creato solo esseri spirituali, invisibili e puri, mentre il Dio malvagio era il responsabile della materia e del mondo visibile e causa del male, sia fisico che morale.

ERESIE A PUNTATE: 12. L'INQUISIZIONE

L’Inquisizione, nata per combattere il catarismo, mantenne la sua logica repressiva anche nei secoli successivi nelle persecuzioni contro ebrei, moriscos, streghe, dissidenti e liberi pensatori. La vera e uniformante motivazione di fondo che ha accompagnato questa istituzione era il rifiuto della differenza, o in altre parole, della coscienza libera e individuale. Non poteva essere altrimenti in secoli in cui la religiosità non era esclusiva della spiritualità dell’individuo, ma sociale e quindi apparteneva alla collettività. La fede e le modalità con cui il singolo interpretava la propria religiosità, nella logica medievale aveva una rilevanza pubblica: per colpe del singolo poteva venire macchiata l’intera comunità.

giovedì 9 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 11. I DOGMI E I RITI DELLA CHIESA CATARA

Come abbiamo visto, i catari erano dei cristiani che interpretavano il Nuovo Testamento secondo un schema di tipo dualistico, ma distinto da quello dei manichei, con i quali vennero spesso accomunati dai inquisitori cattolici. Credevano nell'esistenza di due principi contrapposti, il Bene ed il Male, impersonificati, rispettivamente, dal Dio santo e giusto, definito nel Nuovo Testamento, e dal Dio nemico, o Satana. Sostenevano che il Male conducesse una continua ed incessante lotta contro il Bene per contendergli la vittoria. Secondo la dottrina catara il mondo materiale non era stato creato da Dio, ma era interamente opera di Satana e non era altro che una sua manifestazione.
Anche l’origine del corpo umano era considerata diabolica, in quanto creatura di carne. Ma la vita, intesa come anima o spirito, era opera di Dio. Reinterpretando la Genesi, i catari sostenevano che Satana indusse Adamo ed Eva a quell’unione carnale che avrebbe sancito il loro imprigionamento nella materia. Da quel momento in poi, attraverso la procreazione, lo Spirito si sarebbe moltiplicato e suddiviso all’infinito per opera del Demonio che, pur essendo incapace di creare, sapeva essere un grande seduttore di anime. Una volta catturate, le avrebbe poi portate prigioniere sulla Terra, introducendole nella Materia, per principio loro estranea, causa di sofferenza per le anime perché separate dal Dio Buono, con il quale vivevano in beatitudine e a cui anelano di ritornare. I catari proponevano, pertanto, un distacco dal mondo terreno e dai suoi valori per proporre l’attenzione verso un mondo celeste e luminoso di ben altro valore. Il mezzo per cui le anime potevano essere liberate e ritornare alla loro dimensione spirituale, fuori dal tempo, era la conoscenza, la consapevolezza della loro natura. La maggior parte delle sette catare credevano nella trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro, in una sequela di nascite e di morte, con diversi gradi di perfezione. Chi avesse condotto una vita onesta, sarebbe stato ricompensato reincarnandosi in un corpo più favorevole al suo progresso spirituale, fino alla definitiva liberazione. Chi, invece, trascorreva la sua vita nel crimine, si sarebbe degradato, reincarnandosi perfino in un animale. Perché le anime potessero tornare al Dio Buono, che non poteva avere nessun contatto con la Materia, creata dal Principe del Male, Dio inviò un Messia, un Mediatore, Gesù, che secondo i Catari, era anche il più perfetto degli Angeli. Gesù scese nel mondo impuro della Materia, senza incarnarsi, però, perché non aveva corpo. La sua fu solo apparenza, una visione. Secondo l’interpretazione catara del Nuovo Testamento, Gesù, infatti, non ha potuto soffrire e trovare la morte sulla croce perché il suo corpo, che non era fatto di materia, non poteva provare dolore, né morire né risuscitare (aderendo, così, al concetto docetista della mera apparenza della nascita, sofferenza e morte di Cristo sulla terra). Prima di risalire in cielo per tornare alla sua vera essenza, insegnò agli Apostoli la via della salvezza lasciando alla Chiesa in Terra lo Spirito Santo a conforto delle anime esiliate. Il Demonio, però, era riuscito a sopprimere e a sostituire la chiesa di Cristo con un’altra falsa chiesa, quella cattolica, così legata al mondo terreno. L’autentica chiesa cristiana, quella che possedeva lo Spirito Santo, era ovviamente quella catara, mentre la Chiesa di Roma era la Bestia, la prostituta di Babilonia. Per questo i catari sostenevano che chiunque obbedisse alla Chiesa romana non poteva salvarsi. Confutavano anche i sacramenti del battesimo e della comunione poiché, essendo l’acqua del battesimo e il pane dell’ostia fatti di materia impura, non potevano avere in sé lo Spirito Santo. La Croce anziché venerata doveva essere odiata, perché strumento di umiliazione del Cristo. I catari non davano alcuna importanza alle immagini e alle reliquie che la Chiesa cattolica considerava sacre e negavano anche che la Vergine Maria fosse stata la madre di Gesù in quanto, non avendo mai avuto un corpo, non poteva nascere (per i catari ella fu un Angelo che aveva assunto le fattezze di una donna). Per comprendere il significato della rappresentazione catara dell'Evangelo, sia che appartenesse alla corrente dualista radicale o a quella moderata, dobbiamo sempre ricordare che alla base c’era la visione negativa del mondo quotidiano. Solo così possiamo comprendere la durezza di alcuni riti e il rigorismo ascetico di molte delle sue regole, come l'astensione, già menzionata, dai cibi carnei, abolendo dalla dieta non solo la carne, ma anche uova, latte e derivati, e la pratica del digiuno a pane e acqua, che veniva attuata per tre quaresime all'anno (prima di Natale, di Pasqua e dopo Pentecoste) e tre giorni alla settimana. Il rito cataro per eccellenza era quello del Consolamentum (indicato nelle fonti medievali anche con il termine di Baptismum spirituale), un rito complesso fatto con l’imposizione delle mani, che permetteva al semplice fedele di diventare un “perfetto”. In pratica era una cerimonia che racchiudeva in sé il valore dei sacramenti cristiani del battesimo, della cresima, del sacerdozio ed estrema unzione. Per poter ricevere il consolamentum, il fedele doveva superare un lungo periodo di iniziazione e solo dopo aver dato prova della sua reale ed intima vocazione con digiuni, veglie e preghiera. Il giorno della cerimonia veniva introdotto in una casa di fedeli, vestito con una lunga tonaca nera a simboleggiare il distacco dal mondo, mentre tutto intorno c’erano ceri accesi che rappresentavano le fiamme dello Spirito Santo. Il perfetto che officiava la cerimonia spiegava al neofita i doni della religione e gli obblighi morali e spirituali ai quali si sottometteva. Dopo aver recitato il Pater Noster, la più importante, ed in pratica, l’unica vera preghiera riconosciuta dai catari, il futuro perfetto abiurava la fede cattolica. Dopo essersi inginocchiato tre volte, chiedeva di essere accolto nella nuova chiesa, promettendo di non mangiare carne, uova e altri alimenti di origine animale, di astenersi dagli atti sessuali, di non mentire né giurare e di non rinnegare la fede per paura della morte. Confessava pubblicamente i suoi peccati e ne chiedeva perdono. Ricevuta l’assoluzione, il perfetto officiante gli poneva sulla testa il Vangelo (la traditio orationis sanctae) e, insieme ai suoi assistenti, imponeva le mani su di lui pregando Dio di inviargli lo Spirito Santo. Poi recitava nuovamente il Pater Noster e gli dava il bacio della pace, imitato poi dai suoi assistenti. A sua volta il nuovo “consolato” baciava il fedele più vicino tra quelli che assistevano alla cerimonia e questo bacio si trasmetteva tra tutti i presenti (se il nuovo perfetto era una donna, l’officiante le toccava una spalla con il Vangelo e il gomito con il gomito). Da quel momento in poi era un perfetto: il vescovo locale gli assegnava un compagno, scelto tra gli altri perfetti, e come tale doveva lasciare tutti i suoi beni alla comunità per darsi alla vita errante, alla predicazione e alle opere di carità. Il consolamentum era riservato ad un ristretto numero di eletti, mentre al resto dei credenti veniva generalmente impartito soltanto in punto di morte. Era comunque un sacramento “instabile”, mai definitivo, che poteva venire compromesso dal minimo peccato. Da qui non solo la necessità di rinnovarlo ogni qualvolta la presenza di più perfetti lo consentisse, ma anche lo stretto legame con altri due riti: quelli del martirium e dell’endura, entrambi generalmente riservati a coloro che erano in punto di morte. Il primo consisteva nel soffocamento del morente, l'altro nel digiuno totale fino alla morte per inedia. Entrambe le pratiche erano motivate dal fatto che solo nel dolore e nella morte poteva esserci la liberazione compiuta, perfetta ed immediata, dal male, e dalla paura che un'eventuale guarigione potesse trascinare il fedele nuovamente al peccato. Accanto a queste veniva praticata anche la salutatio, o abbraccio, che credenti e perfetti si scambiavano incontrandosi, spesso accompagnata dal melioramentum, un vero e proprio omaggio che il credente rivolgeva con un inchino al perfetto. Al rituale cataro appartenevano anche l’Aparelhament, una confessione pubblica dei propri peccati, e la Caretas, un bacio rituale di pace. Per quanto riguarda la recita del Padre Nostro, in pratica, l’unica preghiera accettata dai catari (tranne alcune invocazioni minori), questa conteneva alcune significative correzioni del testo. In particolare al “dacci oggi il nostro pane quotidiano” si sostituiva l'espressione “dacci oggi il nostro pane soprasostanziale”, con la quale s'intendeva non tanto rievocare l'Ultima Cena o procedere alla consacrazione del pane stesso, ma invocare sui presenti lo Spirito Santo. I perfetti avevano l'obbligo di recitarlo più volte al giorno, abitualmente in serie da sei (sezena), da otto (sembla) o sedici (dobla).

Articolo di Aldo Ciaralli. Non può essere pubblicato né distribuito senza il consenso dell'autore.

mercoledì 8 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 10. L'ERESIA PER ECCELLENZA

1. LA MATRICE CRISTIANA

L’eresia catara è l’eresia medievale per eccellenza. È l’eresia più importante e diffusa in tutto l’occidente cristiano ed è quella per cui è stata istituita l’inquisizione, frutto della reazione decisa da parte della Chiesa. Fu un ricco movimento, non sempre coerente ed uniforme, che attraversò un lungo spazio di tempo, a cui partecipò un’ampia fascia della società medievale. Contrariamente a quanto si è scritto, l’eresia catara dei secoli XI-XII non fu un risveglio dell’antica dottrina della gnosi, o del manicheismo, ma, pur dualista, rimase sempre nell’ambito del cristianesimo. La loro interpretazione dualistica niente, o poco, aveva del dualismo cosmogonico e metafisico dei manichei e della dottrina di Mani (nei testi catari che sono giunti fino a noi è assente ogni riferimento a testi o comunque a insegnamenti manichei).

martedì 7 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 9. L’IMMAGINE DEL DIAVOLO

La Chiesa era ben consapevole dell’analfabetismo diffuso della popolazione, e fece un uso intenzionale dell'immagine per informarlo e, soprattutto, per formarlo. Per un tempo assai lungo, nelle immagini dipinte o scolpite prevalse l’aspetto didattico ed ideologico su quello propriamente estetico. Anche i colori, oltre alle forme, divennero dei simboli (pensiamo, ad esempio, al primato del rosso, colore imperiale). L’idea di diversità, di rovesciamento dei connotati umani e divini, sta alla base della rappresentazione iconografica del maligno. Sia che esso venga raffigurato in forma umana che ferina, la sua corporeità presenta elementi esagerati e mostruosi. Lo scopo era quindi quello di impressionare e spaventare i peccatori con le minacce dei tormenti infernali e le fattezze mostruose e bestiali dei diavoli li distinguevano dalla dignità angelica. Nelle rappresentazioni dei primi secoli cristiani, fino al IX secolo circa, il demonio ha fattezze umanoidi: con un aspetto di un essere piccolo e deforme, oppure quello di un vecchio; oppure come un essere grande e grosso, con fattezze umane, ma con artigli ai piedi. A volte anche come un angelo vestito di bianco. Tra gli attributi più frequenti del diavolo in forma umanoide ricordiamo una capigliatura liscia e scura e, successivamente, serpentina; gli occhi di fuoco, e il naso lungo e ricurvo (particolare, quest’ultimo, connesso allo stereotipo razziale degli ebrei al fine di demonizzarli). Come animale o mostro il diavolo incomincia ad apparire con maggiore frequenza a partire dall’XI secolo. Le rappresentazioni ferine o mostruose seguivano l’immaginario medievale e quasi sempre richiamavano in qualche modo serpenti, gatti, lupi, caproni e pipistrelli. Fra gli attributi più comuni si possono ricordare la coda, le orecchie animali, la barba caprina, gli artigli e le zampe - specialmente quelle posteriori - da capro. Le corna, in un primo momento non molto diffuse, lo divennero verso l’XI secolo (basti pensare al gran numero di citazioni di questo attributo nei proverbi popolari). Il diavolo era spesso alato: nell’Alto Medio Evo le sue ali erano quasi piumate, mentre dal XII secolo cominciarono a comparire le ali da pipistrello. Per quanto riguarda i colori, il diavolo, di solito, era raffigurato con il nero, altrimenti poteva apparire blu o viola, tutti colori che comunque stavano ad evidenziare la sua natura infima. Secondo lo schema galenico dei quattro elementi, egli era costituito di aria scura e densa, in contrapposizione agli angeli che, composti di fuoco etereo, erano di colore rosso o bianco. Solo nel tardo medioevo il rosso divenne un colore diabolico, associato al sangue e alle fiamme infernali. Altre volte, ma meno frequente, troviamo il diavolo raffigurato anche in marrone o grigio pallido, il colore dei malati e dei morti. Accanto alle raffigurazioni del diavolo, l’iconografia medievale rappresentava e associava i simboli di morte a quelli diabolici, per evidenziare la contrapposizione duale tra l’anima e il corpo, la luce e il buio, la vita e la morte. In questo modo, anche la morte diviene un principio negativo legato al “male”, e la si “demonizza” (basti pensare alle varie danze macabre che, soprattutto dopo la peste nera, vengono rappresentante un po’ ovunque). Il diavolo, privo di bellezza e armonia proprio per rappresentare una ripugnante deformazione della natura umana e angelica, intesa come modello di bellezza e perfezione (umana e divina), nella rappresentazione folklorica assume, spesso, anche un carattere grottesco e burlesco (frequenti sono le parodie e storielle, che parlano delle sue sfide con i Santi, a suon di peti). A partire dal ’300, l’immagine di Dio comunemente rappresentata è quella di un giudice terribile e implacabile, che permette immani flagelli, come la peste (soprattutto dopo la peste nera del 1348-49) e carestie, per punire le colpe degli uomini. Satana occupa un posto di rilievo e ovunque sono dipinti e raffigurati demoni e tutti coloro che la Chiesa reprimeva per la loro devianza dottrinale, attraverso il Tribunale dell’Inquisizione, ovvero eretici, ebrei, atei, ma soprattutto streghe, conseguenza dell’ossessione misogina della Chiesa nei confronti della donna. Il sesso, in particolare quello femminile, diventa la tentazione per eccellenza. La ragione di questa visione sessuofobia e fortemente misogina risiede nel fatto stesso che ella, essendo nata dalla costola dell’uomo, “è più carnale dell’ uomo, più imperfetta, ed essendo più carnale, la tentazione si accanisce sulla donna, che per sua natura “inganna sempre”. È superfluo ricordare il manuale, violentemente misogino, di due inquisitori tedeschi, Jakob Sprenger ed Heinrich Institoris, per l’identificazione e la punizione delle streghe, il Malleus maleficarum, che ebbe tra il 1486 e il 1669 ben 34 edizioni e che, fra il ’500 e il ’700, centinaia di migliaia di donne persero la vita a causa della caccia alle streghe.

Articolo di Aldo Ciaralli. Non può essere distribuito né copiato senza il consenso dell'autore.

venerdì 3 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 8. I CATARI

La concezione religiosa dei catari, che ha cominciato a diffondersi dopo la meta del XII secolo, si rifaceva all’insegnamento dualista e gnostico dei manichei. Il movimento era caratterizzato da una organizzazione ecclesiastica rigorosa e da un dinamismo missionario che fu all’origine della sua grande diffusione. Pur procedendo da istanze morali e ascetiche, il movimento si distinse da un punto di vista dottrinario secondo un rigido dualismo che contrapponeva fra loro Dio e Satana come due principi quasi equivalenti: Dio, il creatore, che ha dato origine solo agli esseri spirituali buoni; Satana, principio del male e creatore della materia in tutte le sue forme, potenzialmente inferiore a Dio. Esiste, quindi, per l’eresia catara, un sommo principio da cui ha origine il male e questo dio cattivo ha creato anche il maschio e la femmina e tutti i corpi visibili di questo mondo.

giovedì 2 febbraio 2012

ERESIE A PUNTATE: 7. I SETTE PECCATI CAPITALI

Il sistema dei sette vizi o peccati capitali venne messo a punto da papa Gregorio Magno, morto a Roma nel 604. Esso si fonda su un “septenario”, un sistema basato cioè, sulla potenza del numero sette, utilizzato dalle Sacre Scritture per designare sia la perfezione dell'eternità, sia lo svolgimento del tempo scandito dai sette giorni della settimana. L’impianto impostato da Gregorio non permetteva soltanto di legare i peccati fra loro, ma anche di stabilire una gerarchia fra loro. A partire dalla superbia e l'avarizia, i due primi peccati capitali, derivano gli altri il cui insieme ha costituito una costante nella riflessione medievale sul tema del Male e del peccato e la salvezza dell'uomo e per la sua salvezza. In realtà il settenario dei vizi, che domina la pastorale dei secoli tardomedievali, ha alle sue spalle una storia molto più lunga. La loro prima apparizione in Occidente risale agli scritti del monaco Giovanni Cassiano, vissuto tra IV e V secolo, che a sua volta si rifà ai testi di un altro monaco orientale, Evagrio Pontico.

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