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La Grande Storia dei Cavalieri Templari

Creati per difendere la Terrasanta a seguito della Prima Crociata i Cavalieri Templari destano ancora molto interesse: scopriamo insieme chi erano e come vivevano i Cavalieri del Tempio

La Grande Leggenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda

I personaggi e i fatti più importanti del ciclo arturiano e della Tavola Rotonda

Le Leggende Medioevali

Personaggi, luoghi e fatti che hanno contribuito a conferire al Medioevo un alone di mistero che lo rende ancora più affascinante ed amato. Dal Ponte del Diavolo ai Cavalieri della Tavola Rotonda passando per Durlindana, la leggendaria spada di Orlando e i misteriosi draghi...

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giovedì 22 settembre 2016

FORTEZZE CROCIATE - UOMINI E PIETRE DEL MEDIOEVO



Esce in libreria giovedì 6 ottobre “Fortezze crociate. La storia avventurosa dei grandi costruttori medievali, dai Templari ai Cavalieri Teutonici” di Giuseppe Ligato, impreziosito da un saggio introduttivo di Franco Cardini. Il volume viene presentato mercoledì 5 ottobre al Festival del Medioevo di Gubbio, il cui tema quest’anno è di grande attualità: “Europa e Islam: storia di un rapporto tormentato e vitale”. Per l’occasione Sonia Merli, ricercatrice ed esperta di storia medievale, dialoga sul libro con Giuseppe Ligato, autore del volume.

Martedì 18 ottobre alle ore 18.15, invece, nell’ambito della Festa internazionale della storia di Bologna, Giuseppe Ligato presenta il suo libro con Franco Cardini, autore del saggio introduttivo, alla libreria Coop Zanichelli in Piazza Galvani, 1/H .

l volume racconta la storia di imponenti fortezze come il castello di Belvoir in Galilea, ma anche di basiliche ed edifici pubblici, non ultima la basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Si sofferma sul meraviglioso Crac des Chevaliers, in Siria, il capolavoro dell’architettura crociata, che in questi ultimi anni è tornato ad essere luogo di battaglie sanguinose: occupato da oppositori armati del presidente Bashar al Assad, è poi stato espugnato dall’esercito siriano, dopo bombardamenti che hanno arrecato alla struttura pesantissimi danni.

lunedì 18 gennaio 2016

ELEONORA DI AQUITANIA


Eleonora di Aquitania è stata una delle più importanti donne del Medioevo; nata nell'Anno del Signore 1122 crebbe nella colta Aquitania dove imparò l'arte di cavalcare e di andare a caccia. Quando morì suo padre, sposò il futuro Luigi VII dopo aver ereditato tutti i domini di famiglia. Eleonora godeva di un fortissimo ascendente sul re dato che lo convinse a partire per la seconda Crociata dopo l'appello di Bernardo a Vezelay

I rapporti tra Eleonora e il re erano molto complicati: il matrimonio si chiuse dopo pochi mesi grazie all'assenso papale e la donna sposò Enrico Plantageneto che dopo due anni divenne re di Inghilterra, cosa che permise al giovane rampollo di appropriarsi anche dei domini di sua moglie. Ma anche questo matrimonio si rivelò tribolato: lasciato il marito tornò a Poitiers che trasformò in un luogo per artisti e cantastorie. 

Nell'anno 1173 i tre figli del re di Inghilterra si ribellarono, Eleonora fu arrestata e imprigionata in Francia; venne liberata solamente nel 1189 e divenne reggente del figlio Riccardo Cuor di Leone. Nel 1193 riscattò Riccardo prigioniero dell'Imperatore Enrico VI e combatté alacremente per una riconciliazione con il fratello Giovanni Senza Terra. 

Fonte: Eileen Power, Donne del Medioevo, 1984; Georges Duby, Donne nello specchio del Medioevo, 1997.

venerdì 1 gennaio 2016

GESTA FRANCORUM ET ALIORUM HIEROSOLYMITANORUM

Prima Crociata.jpg

Le Gesta Francorum et aliorum Hierosolymitanorum (Le gesta dei Franchi e degli altri pellegrini a Gerusalemme), detta anche Gesta Francorum, è una cronaca latina sulla Prima Crociata risalente al 1100-1101. Priva di indicazione dell'autore, sembra essere prodotto della cerchia del condottiero crociato Boemondo I d'Antiochia.

Narra gli eventi della prima crociata dalla sua indizione nel novembre 1095 fino alla Battaglia di Ascalona del 1099. Accanto al finalismo positivo della crociata sono messi in luce gli aspetti crudeli e drammatici del conflitto. Celeberrime alcune pericopi per l'acceso realismo.

martedì 29 dicembre 2015

SECONDA VERSIONE DEL DISCORSO DI URBANO II A CLERMONT


Popolo dei Franchi, popolo d'oltre i monti, popolo come riluce in molte delle vostre azioni eletto ed amato da Dio, distinto da tutte le nazioni sia per il sito del vostro paese che per l'osservanza della fede cattolica e per l'onore prestato alla Santa Chiesa, a voi si rivolge il nostro discorso e la nostra esortazione. Vogliamo che voi sappiate quale lugubre motivo ci abbia condotto nelle vostre terre; quale necessità vostra e di tutti i fedeli ci abbia qui, attratti. Da Gerusalemme e da Costantinopoli é pervenuta e più d'una volta è giunta a noi una dolorosa notizia: i Persiani. gente tanto diversa da noi, popolo affatto alieno da Dio, stirpe dal cuore incostante e il cui spirito non fu fedele al Signore, ha invaso le terre di quei cristiani, le ha devastate col ferro, con la rapina e col fuoco e ne ha in parte condotti prigionieri gli abitanti nel proprio paese, parte ne ha uccisi con miserevole strage, e le chiese di Dio o ha distrutte dalle fondamenta o ha adibite al culto della propria religione. Abbattono gli altari dopo averli sconciamente profanati, circoncidono i cristiani e il sangue della circoncisione o spargono sopra gli altari o gettano nelle vasche battesimali; e a quelli che vogliono condannare a una morte vergognosa perforano l'ombelico, strappano i genitali, li legano a un palo e, percuotendoli con sferze, li conducono in giro, sinché, con le viscere strappate, cadono a terra prostrati. Altri fanno bersaglio alle frecce dopo averli legati ad un palo; altri, fattogli piegare il collo, assalgono con le spade e provano a troncare loro la testa con un sol colpo. Che dire della nefanda violenza recata alle donne, della quale peggio è parlare che tacere? Il regno dei Greci è stato da loro già tanto gravemente colpito e alienato dalle sue consuetudini, che non può essere attraversato con un viaggio di due mesi. A chi dunque incombe l'onere di trarne vendetta e di riconquistarlo, se non a voi cui più che a tutte le altre genti Dio concesse insigne gloria nelle armi, grandezza d'animo, agilità nelle membra, potenza d'umiliare sino in fondo coloro che vi resistono? Vi muovano e incitino ali animi vostri ad azioni le gesta dei vostri antenati, la probità e la grandezza del vostro re Carlo Magno e di Ludovico suo figlio e degli altri vostri sovrani che distrussero i regni dei pagani e ad essi allargarono i confini della Chiesa. Soprattutto vi sproni il Santo Sepolcro del Signore Salvatore nostro, ch'è in mano d'una gente immonda, e i luoghi santi, che ora sono da essa vergognosamente posseduti e irriverentemente insozzati dalla sua immondezza. O soldati fortissimi, figli di padri invitti, non siate degeneri, ma ricordatevi del valore dei vostri predecessori; e se vi trattiene il dolce affetto dei figli, del genitori e delle consorti, riandate a ciò che dice il Signore nel Vangelo " chi il padre e la madre più di me, non è degno di me. Chiunque lascerà il padre o la madre o la moglie o i figli o i campi per amore del mio nome riceverà cento volte tanto e possederà la vini eterna". Non vi trattenga il pensiero di alcuna proprietà, nessuna cura delle cose domestiche, ché questa terra che voi abitate, serrata d'ogni parte dal mare o da gioghi montani, è fatta angusta dalla vostra moltitudine, né è esuberante di ricchezza e appena somministra di che vivere a chi la coltiva. Perciò vi offendete e vi osteggiate a vicenda, vi fate guerra e tanto spesso vi uccidete tra voi. Cessino dunque i vostri odi intestini, tacciano le contese, si plachino le guerre e si acquieti ogni dissenso ed ogni inimicizia. Prendete la via del santo Sepolcro, strappate quella terra a quella gente scellerata e sottomettetela a voi: essa da Dio fu data in possessione ai figli di Israele; come dice la Scrittura, in essa scorrono latte e miele. Gerusalemme è l'ombelico del mondo, terra ferace sopra tutte quasi un altro paradiso di delizie; il Redentore del genere umano la rese illustre con la sua venuta, la onorò con la sua dimora, la consacrò con la sua passione, la redense con la sua morte, la fece insigne con la sua sepoltura. E proprio questa regale città posta al centro del mondo, è ora tenuta in soggezione dai propri nemici e dagli infedeli, è fatta serva del rito pagano. Essa alza il suo lamento e anela ad essere liberata e non cessa d'implorare che voi andiate in suo soccorso. Da voi più che da ogni altro essa esige aiuto poiché a voi è stata concessa da Dio sopra tutte le stirpi la gloria delle armi. Intraprendete dunque questo cammino in remissione dei vostri peccati, sicuri dell'immarcescibile gloria del regno dei cieli. 0 fratelli amatissimi, oggi in noi si è manifestato quanto il Signore dice nel Vangelo: Dove due o tre saranno radunati nel mio nome, ivi io sarò in mezzo a loro. Se il Signore Iddio non avesse ispirato i vostri pensieri, la vostra voce non sarebbe stata unanime; quantunque essa abbia risuonato con timbro diverso, unica fu tuttavia la sua origine: Dio che l'ha suscitata, Dio che l'ha ispirata nei vostri. cuori. Sia dunque questa vostra voce il vostro grido di guerra, dal momento che essa viene da Dio. Quando andrete all'assalto dei bellicosi nemici, sia questo l'unanime grido di tutti i soldati di Dio: "Dio lo vuole! Dio lo vuole!"
E noi non invitiamo ad intraprendere questo cammino i vecchi o quelli che noti sono idonei a portare le armi; né le mogli si muovano senza i mariti o senza i fratelli o senza i legittimi testimoni: tutti costoro sono più un impedimento che un aiuto, più un peso che un vantaggio. I ricchi sovvengano i poveri e conducano a proprie spese con loro uomini pronti a combattere. Ai sacerdoti e ai chierici di qualunque ordine non sia lecito partire licenza dei loro vescovi, perché questo viaggio sarebbe inutile per loro senza questo consenso; e neppure ai laici sia permesso partire senza la benedizione del loro sacerdote. Chiunque vorrà compiere questo santo pellegrinaggio e ne avrà fatto promessa a Dio e a lui si sarà consacrato come vittima vivente santa e accettevole porti sul suo petto il segno della croce del Signore; chi poi, pago dei suo voto, vorrà ritornarsene, ponga alle sue terga; sarà così adempiuto il precetto che il Signore dà nel Vangelo: "Chi non porta la sua croce e non viene dietro di me non è degno di me".

Clermont, 27 novembre 1095

LETTERA DI ALESSIO AL CONTE DI FIANDRA


« Questa è la copia della lettera inviata dall'Imperatore di Costantinopoli a tutte le Chiese d'Occidente, ma in particolare al Conte Roberto di Fiandra, nel quarto anno prima della gloriosa spedizione a Gerusalemme. Il detto Conte, comunque, era a quel tempo già ritornato in bisaccia e bordone dal Sepolcro del Signore, dopo aver incontrato [l'imperatore] durante il viaggio, e avendogli parlato affabilmente e amichevolmente. Il detto Imperatore, come lui stesso lamenta in questa lettera, era stato oppresso da un esecrabile popolo pagano, il cui sovrano era Solimano il vecchio, padre del giovane Solimano che i nostri uomini (come detto in quel libro) successivamente sconfissero in guerra, costringendolo a una ignominiosa fuga. Pertanto ci meravigliamo non poco del perché il sovente citato Imperatore sia sempre stato così velenoso nei nostri confronti, tanto da rendere il male per il bene ricevuto. L'argomento finisce; la lettera inizia » « A Roberto, signore e glorioso Conte dei Fiamminghi, e a tutti i principi dell'intero regno, amanti della fede Cristiana, laici e chierici, l'Imperatore di Costantinopoli dà il suo saluto e la pace nello stesso Signore Gesù Cristo e in Suo Padre e nello Spirito Santo.
O illustrissimo Conte e speciale consolatore della fede Cristiana! Voglio rendere nota alla tua prudenza come il sacro Impero dei Cristiani Greci sia penosamente angosciato dai Peceneghi e dai Turchi, che giornalmente devastano e ininterrottamente saccheggiano il suo territorio; e che vi sono massacro indiscriminato e uccisioni indescrivibili e derisione dei Cristiani. Ma siccome i mali che essi compiono sono molti e, come abbiamo detto, indescrivibili, dei molti ne diremo alcuni, che tuttavia sono orribili a udirsi, e disturbano persino l'aria stessa. Poiché essi circoncidono i ragazzi e i giovani dei Cristiani sui battisteri dei Cristiani, e in disprezzo di Cristo versano il sangue della circoncisione negli stessi battisteri, e poi li costringono a urinare negli stessi; e poi li trascinano nelle chiese e li costringono a bestemmiare il nome e la fede della santa Trinità. Coloro che si rifiutano li affliggono con innumerevoli pene e alla fine li uccidono. Nobili matrone e le loro figlie, che hanno depredato [delle loro proprietà] disonorano nell'adulterio, succedendosi uno dopo l'altro come gli animali. Altri corrompono turpemente le vergini, ponendole in faccia alle loro madri, e le costringono a cantare canzoni viziose e oscene, finché non hanno terminato i loro vizi. Così leggiamo che venne fatto al popolo di Dio nell'antichità, ai quali gli empi Babilonesi, dopo essersi fatti beffe di loro in vari modi, dissero:"Cantateci gli inni e i canti di Sion" (Sal 136,3). Allo stesso modo, dopo avere disonorato le loro figlie, le madri a loro volta sono costrette a cantare canzoni viziose, le cui voci assomigliano non a un canto, ma a un pianto, come sta scritto della morte degli Innocenti: "Una voce si ode in Rama, pianto e lamento grande, Rachele piange i suoi figli; e non sarà confortata, perché essi non sono più" (Mt 2,18). Tuttavia, anche se le madri degli Innocenti, raffigurate da Rachele, non poterono essere consolate della morte dei loro figli, tuttavia poterono ottenere conforto dalla salvezza delle loro anime; ma queste [madri], ciò che è peggio, non possono essere confortate per nulla, perché quelle [le loro figlie] periscono nell'anima e nel corpo.
Ma che di più? Veniamo a cose peggiori: uomini di ogni età e ordine, ragazzi, adolescenti, giovani, vecchi, nobili, servi, e, ciò che è peggio e più vergognoso, chierici e monaci, e -che dolore!- ciò che dall'inizio dei tempi non è stato mai detto o sentito, vescovi, sono oltraggiati con il peccato di Sodoma, e un vescovo sotto questo osceno peccato perì. Contaminano e distruggono i luoghi sacri in innumerevoli modi, e ne minacciano altri di peggiore trattamento. E chi non piange di fronte a ciò? Chi non prova compassione? Chi non ne prova orrore? Chi non prega? Perché quasi l'intera terra da Gerusalemme alla Grecia, e tutta la Grecia con le sue regioni superiori, che sono la Cappadocia Minore, la Cappadocia Maggiore, la Frigia, la Bitinia, la Frigia Minore (cioè, la Troade), il Ponto, la Galazia, la Lidia, la Panfilia, l'Isauria, la Licia, e le isole maggiori Chio e Mitilene, e molte altre regioni e isole che non possiamo nemmeno enumerare, fino alla Tracia, sono state già invase da costoro, e adesso quasi nulla rimane eccetto Costantinopoli, che minacciano di strapparci prestissimo, a meno che l'aiuto di Dio e dei fedeli Cristiani Latini ci giunga velocemente. Poiché persino la Propontide, che viene anche chiamata Abido e che scorre giù dal Ponto nel Gran Mare proprio attaccato a Costantinopoli, hanno invaso con duecento navi, costruite da Greci che essi hanno derubato e costretto volenti o nolenti a diventarne rematori, minacciando di prendere presto Costantinopoli, minacciandola per terra e per mare, nella Propontide.
Queste poche cose, degli innumerevoli mali che questa empissima gente commette, ti abbiamo menzionato per iscritto, o conte delle Fiandre! O amante della fede Cristiana! Il resto omettiamo per non dare fastidio a chi legge. Pertanto, per l'amore di Dio e per la pietà verso tutti i Cristiani Greci, ti preghiamo che tu invii qui in aiuto mio e dei Cristiani Greci qualunque combattente fedele a Cristo tu sia in grado di reclutare nelle tue terre - di condizione elevata o media o bassa; e come essi nell'anno passato liberarono la Galizia e altri regni d'Occidente dal giogo dei pagani, così lo possano ora, per la salvezza delle loro anime, liberare il regno dei Greci; poiché io, benché imperatore, non riesco a trovare alcun consiglio o rimedio, ma sono costretto sempre a fuggire dalla faccia dei Turchi e dei Peceneghi, e rimango in una città solo fino a che mi rendo conto che il loro arrivo sia imminente. E giudico sia meglio essere soggetti a voi Latini che alle abominazioni dei pagani. Pertanto, prima che Costantinopoli sia presa da loro, dovete combattere con tutta la vostra forza, in modo da ottenere in cielo un glorioso e ineffabile premio.
Poiché è meglio che voi possediate Costantinopoli piuttosto che i pagani, perché in questa [città] vi sono le più preziose reliquie del Signore, cioè: la colonna a cui fu legato; il flagello con cui fu flagellato; la corona di spine con cui fu incoronato; la canna che tenne in mano, al posto dello scettro; le vesti di cui fu spogliato davanti alla croce; la maggior parte del legno della croce sulla quale fu crocefisso; i chiodi con cui fu inchiodato [alla croce]; le bende di lino trovate nel sepolcro dopo la sua resurrezione; le dodici ceste dei resti dei cinque pani e dei due pesci; l'intera testa di San Giovanni il Battista con i capelli e la barba; le reliquie dei corpi di molti dei santi Innocenti, di alcuni profeti e apostoli, di martiri, e, soprattutto, del protomartire Santo Stefano, e di confessori e vergini, questi ultimi in così gran numero che abbiamo omesso di scrivere di ciascuno individualmente. Tuttavia, tutto ciò i Cristiani dovrebbero possedere, invece dei pagani; a sarà un grande atto per tutti i Cristiani se essi manterranno il possesso di tutte queste cose, ma sarà a loro rovina e dannazione se dovessero perderlo.
Comunque, se essi [i Cristiani] non volessero combattere per queste reliquie, e se il loro amore dell'oro dovesse essere maggiore, ne troveranno di più di quanto ne è contenuto nel resto del mondo, poiché le volte delle chiese di Costantinopoli abbondano di argento, oro, gemme e pietre preziose, e di paramenti di seta, che potrebbero essere sufficienti per tutte le chiese del mondo; ma il tesoro inestimabile della chiesa madre, cioè Santa Sofia, cioè, la Sapienza di Dio, supera i tesori di tutte le altre chiese e, senza dubbio, eguaglia i tesori del Tempio di Salomone. Ancora, cosa dovrei dire delle ricchezze infinite dei nobili, quando nessuno può stimare le ricchezze dei comuni mercanti? Posso dire con certezza che nessuna lingua lo può dire; poiché non solo i tesori degli imperatori di Costantinopoli, ma i tesori di tutti gli antichi imperatori di Roma sono stati portati colà e nascosti nei palazzi. Che dire di più? Certamente, ciò che è esposto agli occhi degli uomini è nulla paragonato con ciò che giace nascosto.
Affrettati pertanto con il tuo intero popolo e combatti con tutta la tua forza, affinché tutto questo tesoro non cada nelle mani dei Turchi e dei Peceneghi; perché, mentre essi sono infiniti (proprio oggi ne sono attesi sessantamila), temo che, in virtù di questo tesoro essi sedurranno i nostri avidi soldati, come fece un tempo Giulio Cesare che invase il regno dei Franchi grazie alla cupidigia, e come farà l'Anticristo alla fine del mondo, quando avrà conquistato l'intero mondo (Ap 13,7). Agite pertanto finché avete tempo, per non perdere il regno dei Cristiani e, ciò che è più grande, il Sepolcro del Signore, e quindi abbiate non il giudizio eterno, ma la giusta ricompensa nei cieli. Amen. la lettera finisce »

venerdì 12 settembre 2014

LA BATTAGLIA DI MURET

Miniatura che raffigura la battaglia, ripresa da 'Grandes Chroniques de France.

La Battaglia di Muret fu la più importante e soprattutto decisiva battaglie della Crociata Albigese avvenuta il 12 settembre 1213 nei pressi di Muret non lontano dalla città francese di Tolosa. La battaglia fu vinta da Filippo II di Francia che, per mano di Simone IV di Monfort, sconfisse la Corona di Aragnoa alleatasi con Tolosa, Cominges, Foix e Carcassonne. Con la battaglia, tramontò l'eresia catara e il seguente espansionismo aragonese in Occitania. 

Bibliografia Consigliata
  • (ES) Martín Alvira-Cabrer, El Jueves de Muret. 12 de Septiembre de 1213, Universitat de Barcelona, Barcelona, 2002. ISBN 84-477-0796-2
  • (ES) Martín Alvira-Cabrer, Muret 1213. La batalla decisiva de la Cruzada contra los Cátaros, Ariel, Barcelona, 2008. ISBN 978-84-344-5255-8
  • Anne Brenon, Les cathares, Ed. J. Grandcher, Parigi, 1996, ISBN 2-07-053403-0
  • Domenico Dante, Il tempo interrotto. Breve storia dei catari in Occidente, Palomar, Bari 2009.
  • Marcel Auguste Dieulafoy, La bataille de Muret, Parigi, 1899
  • Paul Labal, Los Cátaros, herejía y crisis social, Barcelona, Editorial Crítica, 1988, ISBN 84-7423-234-1
  • Dominique Paladilhe, Simon de Montfort et le drame cathare, Parigi, Ed. Perrin, 1998, ISBN 2-262-01291-1



mercoledì 2 luglio 2014

RICCARDO CUOR DI LEONE CONTRO SALADINO: STORIA DELLO SCONTRO POLITICO E MILITARE PIU' AVVINCENTE DEL MEDIOEVO

I due eserciti si incontrarono nella mattina del 7 settembre del 1191, ad Arsuf, situata 25 km a nord di Giaffa. In realtà da giorni Saladino, sultano d'Egitto, era perfettamente a conoscenza degli spostamenti dei crociati e di quel loro re, noto per il suo estro militare e l'avventatezza impavida sul campo di battaglia, che sembrava combattere più per sua vanità, amante com'era di storie di cavalieri erranti (diffuse proprio a partire dal XII secolo), invece che per la Croce o per il papa. D'altro canto la natura di Riccardo Cuor di Leone era ben nota in Europa: lo chiamavano Oc e No (“Si e No”), tanto era volubile, sempre alla ricerca di nuove gesta eroiche da compiere. Ad ogni modo, dopo una marcia estenuante di due settimane con la costa sul fianco destro, scandita peraltro da continue soste presso fonti d'acqua, dagli aiuti forniti dalla flotta cristiana e da sporadici attacchi musulmani volti a scompigliare la compattezza dell'esercito, finalmente era stata raggiunta la vera destinazione dai guerrieri di Cristo: il nemico, condotto dal “pagano nobile”, era lì, a portata di mano, e in forze. Adesso l'obiettivo non era più raggiungere Giaffa, ma vincere in una battaglia campale l'invincibile Saladino, concludere la Terza Crociata e trionfare nel nome di Cristo. Alla fine, dunque, l'epilogo del duello tra i due più grandi uomini d'armi del secolo era giunto, e là, su quella pianura costiera costellata di colline boscose, scaldata dal sole settembrino della Terrasanta, gli interessi contrapposti di Oriente e Occidente erano prossimi alla resa dei conti definitiva.

IL CAVALIERE ERRANTE

Occorre tuttavia compiere alcuni passi indietro, onde avere una profonda comprensione del percorso attraverso il quale si giunse a una simile (e drammatica) conclusione, e degli uomini che lo hanno tracciato.
Di questi ultimi, uno è Riccardo I, re d'Inghilterra, noto ai posteri con il celeberrimo appellativo di “Cuor di Leone”. Ad alcuni sarà già balzato alla mente il ritratto che ne fa Walter Scott, in Ivanhoe, dove Riccardo appare quale quello che sempre sognò di essere: un cavaliere senza macchia, che ode solo le richieste del suo popolo, e le esaudisce prontamente, o, si potrebbe dire, un eroe delle Chansons de geste. Ritratto tanto indimenticabile quanto storicamente impreciso e fuorviante (d'altro canto è un romanzo storico), come cercheremo di dimostrare, pur avendo la costante consapevolezza dell'intrinseca difficoltà di cogliere la figura storica del Cuor di Leone, inscindibile com'è dall'alone della leggenda che l'ha sempre contraddistinta, già tra i contemporanei. Riccardo nacque a Oxford, l'8 settembre 1157, figlio terzogenito del re Enrico II Plantageneto e di Eleonora di Aquitania. In quegli anni, l'Europa stava vivendo l'inizio di un mutamento radicale, poiché, sotto un profilo geopolitico, il continente assisteva, immobile, a quella che, con somma efficacia e sintesi, Pirenne ha definito “la nascita degli Stati occidentali” (Henri Pirenne, “Storia d'Europa dalla invasioni al XVI secolo”), volendosi riferire, nella generalità della definizione, soprattutto alla Francia e, ancor di più, all'Inghilterra, due Stati, questi, indissolubilmente legati da un filo fatale durante tutto il corso della Storia medievale (il culmine sarà raggiunto con la Guerra dei Cent'Anni). Il regno inglese, in particolare, ancora godeva ai tempi di Riccardo di una stabilità interna da ricondursi in larga parte a Guglielmo il Conquistatore, un re su cui fin troppo si è speculato. Infatti, sebbene alcuni ambienti della storiografia britannica sprechino quantità abnormi di inchiostro per tessere encomi storicamente insensati (oltre che nauseanti), la primissima fase della nuova monarchia fu essenzialmente una dominazione straniera, mantenuta con la spada e, spesso, la barbarie. La vera forza del nuovo Stato dunque non fu assolutamente l'ingegnoso estro politico di Guglielmo, ma, al contrario, il suo istintivo modus operandi da principe feudale (ricordiamo che prima di tutto egli era duca di Normandia, vassallo della corona francese): i re, come tradizionalmente concepiti dall'epoca carolingia, dipendevano in larga misura dall'appoggio dei grandi vassalli, viceversa questi ultimi godevano di autonomia, enorme peso politico e, soprattutto, erano ereditari, non essendo condizionata la loro elezione a scelte compiute da altri potentati. La differenza, se ben la si considera, non è da poco, in quanto è sufficiente a palesare le cause del successo sempre mal spiegato di Guglielmo e la modernità straordinaria della monarchia inglese. Per farla breve, il re inglese godeva, ed è l'unico di cui si può affermare, di un potere integro, mentre, a titolo di esempio, il monarca capetingio in Francia, almeno fino a Filippo II detto, da Rigord, Augusto, ovvero fino al 1179, si trastullava nella disgregazione politica, potendo al massimo  tentare di atteggiarsi sommessamente onde non essere spodestato. Sulla scia di questo modello di governo invidiabile per qualunque monarca europeo, i successori di Guglielmo, ovvero Guglielmo II ed Enrico I, non ebbero alcuna difficoltà nella gestione statale, né opposizioni o lagnanze vagamente rilevanti. Dopo una breve fase di transizione segnata dalla morte senza eredi di Enrico I (1135) e dal regno di Stefano di Blois, fu incoronato, nel 1154, il padre di Riccardo, Enrico II, il primo dei Plantageneto (che discendeva dal Conquistatore solo per la madre Matilde, figlia di Enrico I). Durante il lungo regno di colui che diede i natali al Cuor di Leone, la tendenza centralista della monarchia inglese si accentuò al punto da aver fatto parlare alcuni storici di assolutismo. E, naturalmente, con l'esasperazione del carattere autoritario del potere del re, sorsero i primi malcontenti. L'Inghilterra, per la prima volta, doveva fare i conti con i problemi quotidiani di tutti i sovrani dell'epoca (sebbene vi fossero situazioni ben peggiori: l'Impero, per dirne una, era lacerato dalla lotta dinastica tra Hohenstaufen e la casata di Baviera). Ad ogni modo, Enrico II seppe mantenere le sue pretese intatte fino alla morte, avvenuta nel 1189, senza tuttavia rimuovere lo strisciante malcontento nelle classi più agiate. Fu con la morte del padre, in un ventre di discordie, che al trono inglese ascese Riccardo. In realtà, fino a sei anni prima, tale successione non era affatto scontata: l'erede designato, dopo la morte a soli tre anni del primogenito di Enrico II e Eleonora d'Aquitania, Guglielmo di Poitiers, era il secondo figlio, Enrico. A Riccardo, come si era soliti fare per garantire una successione senza traumi, furono attribuiti due ducati: quello di Aquitania (confluita tra i domini inglesi grazie al matrimonio di Enrico II con Eleonora) e quello di Poitiers. La svolta inattesa per il giovane Riccardo fu la morte del fratello, Enrico, nel 1183. Il fato, e nessun altro, lo volle sul trono, e così fu. Il 3 settembre 1189 fu incoronato a Westminster. 
Figlio prediletto di una madre raffinata come Eleonora d'Aquitania, per tutta la giovinezza il nuovo re aveva vissuto tra trovatori e letteratura, dilettandosi egli stesso nel comporre poesie. A dir la verità, Riccardo parlava e scriveva in lingua d'oc, ed era noto a qualunque suo suddito quanto egli si sentisse più francese che inglese. La spiegazione di quanto appena detto non è da rinvenirsi tanto in una sua inclinazione all'alto tradimento, quanto piuttosto nel fatto che i re inglesi, e suo padre in particolare, avevano sempre prestato gran parte della loro attenzione ai possedimenti in territorio francese, sia per interesse strategico sia, ovviamente, economico; perciò passavano là gran parte del loro tempo. Riccardo, per via della madre, portò all'estremo suddetta tendenza. All'uomo colto, raffinato, sempre ben vestito, come dicono le fonti, si affiancava la sua indole più profonda: quella di cavaliere, guerriero instancabile, temerario combattente. Qualcuno ha definito Riccardo “il re che preferì la guerra al trono”, e non a torto: come re, antepose qualunque guerra, anche la più insignificante, alla situazione interna, per quanto inquietante stesse divenendo. Ciò va ricondotto in larga parte al fatto che fosse cresciuto in mezzo al sangue, le armi, il fango, la morte, impegnato come fu fin dalla giovinezza in ogni sorta di affare bellico, dalle lotte insieme ai fratelli contro il padre, alla cruenta guerra contro i riottosi baroni del Limosino e dell'Angoumois. I cronisti ce lo ritraggono sempre in mezzo al campo di battaglia, intento a colpire, parare, schivare, condurre ardite cariche. E vinceva, praticamente sempre. Il popolo inglese, nonostante i fulgidi successi militari, lo odiava: d'altro canto le sue continue guerre (che nella gran parte dei casi erano poco più che scaramucce), la crociata e la rivalità interminabile contro Filippo II Augusto di Francia richiedevano cospicue somme di denaro, che Riccardo non esitò a tirar fuori direttamente dalle tasche dei sudditi. La sua rigida politica fiscale abbatte la base argomentativa dei moltissimi che hanno idealizzato il confronto tra Riccardo e il fratello minore, suo successore, Giovanni (il famoso “Senzaterra”), vedendo nell'uno il nobile re di animo gentile e nell'altro il sovrano crudele, incapace e spietato. Solo al di fuori dei territori del regno inglese infatti Riccardo fu realmente venerato: una cosa era ammirarne il coraggio dall'esterno, un'altra era averlo come re e conoscere cosa significasse vivere sotto il suo regime fiscale e le continue assenze. In effetti, almeno in Inghilterra, fu un sollievo per molti quando Riccardo Cuor di Leone lasciò l'Europa nell'estate del 1190, con un poderoso esercito, diretto verso la Terrasanta. Gregorio VIII, meno di tre anni prima (il 29 ottobre 1187) aveva infatti bandito una nuova crociata, la terza, con la bolla Audita Tremendi: motivo scatenante era stata l'inarrestabile avanzata del Saladino e la caduta di Gerusalemme nelle mani dell'infedele, su cui, più avanti, ritorneremo. Federico Barbarossa, Filippo Augusto e Enrico II avevano deciso di rispondere all'appello, sebbene non molto dopo il re d'Inghilterra perì. Cosa avrebbe deciso il successore? La risposta vien da sé: la crociata era l'occasione che Riccardo aspettava da una vita. Argutamente come sempre, il Barbero scrive: “Chi in patria si è macchiato le mani di sangue e andrebbe all'inferno, quando fa la stessa cosa oltremare è un eroe” (Alessandro Barbero, “Benedette Guerre. Crociate e Jihad”). Oltretutto non si trattava di una crociata qualunque, poiché l'obiettivo era quanto di più religiosamente puro potesse esservi per un guerriero di Cristo: riconquistare il Santo Sepolcro e liberare la Città Santa. Un'eventuale vittoria avrebbe arrecato una gloria tale da elevarsi al livello dei più grandi eroi della Cristianità, i nobili principi della prima crociata, come Goffredo di Buglione, Raimondo di Saint-Gilles, Boemondo di Taranto, Tancredi... 
Possiamo immaginare la suggestione che tali prospettive erano in grado di suscitare nell'animo vanaglorioso di Riccardo, unitamente all'opportunità, in caso di vittoria, di consolidare in tempi contenuti la propria posizione politica, sia internamente che esternamente. Il nuovo sovrano inglese, perciò, si era immediatamente fatto crociato. Si racconta addirittura che al momento della sua incoronazione si vollero le donne e gli ebrei esclusi dalla cerimonia, poiché si trattava dell'incoronazione di un vero guerriero di Dio. 
Fu il Barbarossa a mettersi per primo alla testa della Cristianità, spinto, o, si potrebbe dire, costretto dall'imperante necessità di ristabilire la sua minacciata autorità con un conflitto estero. Il suo destino di crociato fu tanto crudele quanto quello di re: annegò durante traversata del fiume Salef, in Cilicia. Dei 100000 uomini che componevano il suo esercito, solo 300/400 giunsero in Terrasanta. Riccardo e l'eterno nemico dei Plantageneti, Filippo II di Francia, partirono solo nel luglio 1190, mettendo da parte, ma solo momentaneamente, le annose questioni insolute in territorio europeo. I due re si incontrarono a Vézelay, luogo non casuale, considerato che, come nota il Meschini, fu lì che Bernardo di Clairvaux predicò la seconda crociata; dopo i loro sentieri si separarono: il re di Francia, col suo esercito, marciò su Genova, da cui poi, sempre via mare, raggiunse Messina, per l'ultima traversata, mentre Riccardo si imbarcò, con destinazione il medesimo porto siciliano, a Marsiglia. Nel 1191, in primavera, le flotte cristiane, da Messina, fecero rotta per l'oltremare. Possiamo tuttavia azzardarci a formulare l'ipotesi che la destinazione di Riccardo fosse, almeno nei suoi piani, un'altra: l'immortalità. 

IL PAGANO NOBILE

L'altra figura di cui andiamo a trattare, il Saladino appunto, non è da meno, rispetto a Riccardo Cuor di Leone, né per fama né per il tratto leggendario. Se volessimo iniziare anche qui dai riferimenti letterari, vi sarebbe al primo posto Dante, che colloca il sultano tra gli “spiriti magni”, quando scrive: “Vidi quel Bruto che cacciò Tarquinio, / Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia; / e solo, in parte, vidi 'l Saladino” (Dante, “Divina Commedia”, Inferno, Canto IV, vv. 127-129). Ulteriori citazioni d'onore si ritroverebbero nel “Novellino”, nel “Decameron” del Boccaccio, e molti altri sarebbero gli esempi. Pur avendo il Saladino cacciato i cristiani da Gerusalemme, mietuto vittime e fatto prigionieri tra i crociati, sparso il sangue dei fedeli in Cristo, l'immaginario collettivo europeo ne rimase tanto segnato da attribuirgli l'appellativo di “pagano nobile”. Nell'entusiasmo rivolto in Occidente per questa cavalleresca figura, addirittura iniziarono circolare storie sul fatto che da giovane Saladino fosse stato ordinato cavaliere da un barone del regno di Gerusalemme, o che la madre fosse cristiana. In fondo, almeno per quanto concerne la mitizzazione, non fu diverso dal suo antagonista, di cui fino a poco fa parlavamo. Una fama di tal genere per un musulmano, in Europa, era cosa straordinaria, ma nel caso di Saladino una giustificazione c'era: mai si trovò condottiero nemico tanto rispettoso della parola data, tanto degno di fiducia, tanto probo. In alcune occasioni arrivò addirittura a mostrare doti consone alla più pura morale dei Vangeli: dopo l'armistizio del 1192 con i crociati, si rifiutò di vendicarsi su dei cavalieri cristiani in pellegrinaggio a Gerusalemme, nonostante molti suoi sottoposti gli ricordassero il massacro di 3000 musulmani compiuto dal Cuor di Leone dopo la riconquista di Acri.
Oltre alla virtù interiore, maturata a fondo anche attraverso gli studi di teologia portati a termine a Damasco, Yusuf ibn-Ayyub, noto come Salah ed-Din (“Integrità della religione”), godeva di un'intraprendenza politica senza eguali. Nato a Baalbek, in Siria, nel 1138, la carriera del Saladino, dopo l'infanzia, fu una continua ascensione verso la vetta, un incessante susseguirsi di successi. Oggi si direbbe che “è uno che si è fatto da solo”. Se il suo cammino poté raggiungere risultati tanto grandiosi da essere oggi considerato la figura più importante dell'Oriente arabo nel Medioevo, fu prima di tutto grazie ad un potente degli zengidi, dinastia di origine turco-selgiuchida, che lo prese sotto la sua ala: il suo nome era Nur al-Din (per gli Europei, Norandino). Questi fu atabeg (termine che identificava i governatori selgiuchidi cui veniva affidata la gestione dei territori del sultano) prima ad Aleppo, nel 1146, poi a Damasco, che conquistò nel 1154. In Siria la sua politica fu incentrata sull'eliminare l'irritante presenza dei crociati, o, per dirla alla turca, dei “franchi” (in arabo ifranj o faranj). A tal fine, indisse numerosi jihad, strumenti di indiscutibile utilità, sia perché davano un senso più profondo alla lotta armata, avvertito anche dall'esercito, sia perché  ingrossavano i ranghi di volontari. L'intelligenza non mancava neanche a lui, insomma. Dopo anni di guerre (peraltro inconcludenti) con i crociati, e in particolare con il regno di Gerusalemme di Baldovino III, la sorte volle che Nur al-Din imprimesse con forza sovrumana il suo nome nella storia araba (e non solo). L'occasione si presentò allorquando nell'Egitto dei Fatimidi sorse l'ennesima contesa per la carica di visir, posizione chiave, anche se formalmente secondaria a quella di califfo: Norandino, attraverso una serie di vicissitudini che, per ragioni di spazio, dobbiamo tralasciare, arrivò a far attribuire la carica a Shirkuh, suo generale, nonché zio di Saladino, che tuttavia perì pochi mesi dopo. La scelta del successore alla carica di visir del califfato fatimide ricadde, in quel 1169, proprio su Yusuf ibn-Ayyub. Saladino aveva solo trentuno anni. A dir la verità, per quella prestigiosa posizione, altri quattro emiri più anziani erano candidati, ma l'ambizioso giovane generale ebbe la meglio. Già all'epoca in effetti vantava un “curriculum” di tutto rispetto: era stato vicegovernatore di Damasco e aveva militato, facendosi già notare per la scaltrezza, il buonsenso e, tra le altre cose, la spregiudicatezza, proprio sotto Shirkuh, suo zio, tanto influente da raggiungere la carica di visir d'Egitto, come prima si accennava. Nel 1171 un'altra morte portò enorme fortuna a Saladino: Al-Adid, colui che deteneva la sovranità nominale del califfato, morì, appena ventenne. Alcuni hanno avanzato l'ipotesi che la prematura dipartita sia da attribuirsi ad un avvelenamento dello stesso Saladino, senza tuttavia rinvenire prove irrefutabili. Il califfo abbaside di Baghdad, comunque, non esitò a investire Nur al-Din della sovranità sulla Siria e l'Egitto. Quanto a Saladino, in conseguenza di suddetto decesso, oramai deteneva un'autorità senza eguali nella terra dei Faraoni, pur rimanendo sempre subordinato a Norandino. Governò l'Egitto, a detta di certuni, in maniera irreprensibile, non solo riordinando le istituzioni e l'esercito, ma promuovendo anche centri culturali. In particolare, al Saladino è da attribuirsi la fondazione di scuole teologico-giuridiche (in arabo madrasa) al Cairo e in svariati altri insediamenti. Tentando di evitare le semplificazioni, dobbiamo esser consci che una promozione del sapere su vasta scala doveva servire, nei piani del Saladino, anche a diffondere la sunna in un territorio, come l'Egitto, a quei tempi di tradizione sciita. Dopo soli tre anni, nel 1174, la morte di Nur al-Din dovette risultare una notizia più fausta, che dolorosa. “Mors tua vita mea”, per dirla alla latina. Ancora una volta, Saladino, con l'usuale pazienza, aveva saputo attendere, ed ora poteva finalmente coronare le sue ambizioni smisurate. Senza esitazione alcuna, da rapace qual era, si proclamò “tutore” dell'erede di Nur al-Din, che aveva appena undici anni, e provvide a impossessarsi dei domini siriani, sgominando qualunque forma di opposizione. Di certo condotte come questa stridono con la sua nomea di “pagano nobile”, inducendo a dar ragione a svariati storici, come David Nicolle, che recentemente hanno voluto ridimensionare le tradizionali virtù attribuite a Saladino. Per quanto arduo sia azzardare una teoria sulla vera natura del condottiero islamico, si deve costantemente tenere presente che in quest'ultimo era presente, accanto alla parte di lui incline ad una clemenza “cesariana”, alla tolleranza, il lato di politico consumato, in grado di colpire con viva violenza per perseguire il proprio interesse. Al di là delle questioni sollevate dalla complessità della sua figura, Saladino completò l'opera di unificazione dell'universo musulmano, già iniziata da Nur al-Din. Ora sedeva sulla vetta del mondo islamico. A questo punto, restava ancora un obiettivo, il più spinoso: la cacciata dei crociati, geograficamente circondati dai suoi vasti territori. Iniziò l'attacco dal regno di Gerusalemme, dove governava un re, di cui era molto più logico prospettare la debolezza, che non la forza: egli era Baldovino IV, lebbroso e sedicenne. 

Battaglia di Montgisard
Il 25 novembre 1177 i due eserciti si incontrarono a Montgisard, presso Ramla, e là avvenne il miracolo, per i cristiani però: le fonti parlano di “una grande luce che si alzò dall'Oriente” e che abbagliò i combattenti musulmani dando la vittoria ai guerrieri di Cristo, che peraltro si trovavano in inferiorità numerica. In concreto, la vittoria sembrerebbe da attribuirsi più al disordine organizzativo in cui si fece cogliere il Saladino che non a grandi manovre tattiche. Quel che è certo, comunque, è che quel giorno l'uomo più potente del mondo musulmano fu sconfitto da un ragazzo, e dovette ripiegare. Saladino programmò una nuova offensiva solo 10 anni dopo, attendendo con la sua usuale tempistica il momento propizio. Baldovino IV infatti era morto nel 1185, lasciando sul trono Baldovino V, ancora bambino, figlio di sua sorella Sibilla. Cagionevole di salute, morì anch'egli poco meno di un anno dopo. Chi incoronare dunque? Per superare l'empasse la scelta cadde, per ovvie ragioni, su Sibilla, con l'intesa di far nominare alla nuova regina anche il nuovo re. E questa, a sua volta, scelse suo marito, Guido di Lusignano. Pare lo abbia fatto per amore, e in effetti ne dovette essere accecata: il marito, un Amleto ante litteram, tentennò quando ci voleva celerità e fu affrettato quando era richiesta ponderazione. Mentre ci si spendeva in tali questioni dinastiche, a Saladino fu offerta la perfetta occasione per prendersi la rivincita. Rinaldo di Chatillon, uomo fascinoso ma indisciplinato, signore di Kerak, attaccò, per l'ennesima volta, una carovana musulmana, facendo prigionieri i viaggiatori. La mancata liberazione di questi, tra i quali, va detto, non c'erano, come si disse, una sorella e il figlio di Saladino, diede al sultano il casus belli perfetto per riprendere il conflitto in Palestina. Era il 1187. Stavolta agì in grande, e rilanciò il jihad. Era il momento di spargere sangue nel dar al-harb, il “territorio della guerra”. La mobilitazione fu generale. Tuttavia mutò strategia: l'obiettivo non era più quello di puntare direttamente su Gerusalemme, ma anzitutto bisognava attirare in una battaglia campale i cristiani, e spazzarli via in un sol colpo. La campagna iniziò sotto il segno del trionfo, grazie alla schiacciante vittoria, alle sorgenti del Cresson, che le forze musulmane ottennero sui cristiani condotti dal gran maestro templare Girardo di Ridefort. Si comprese fin da subito, tra i crociati, che la situazione rischiava di divenire drammatica. Guido di Lusignano ordinò la chiamata alle armi per tutti coloro che nel regno potevano impugnarle. La poderosa armata cristiana che ne venne fuori si riunì a Seforia, e comprendeva 1200 cavalieri, 4000 unità di cavalleria leggera e 15-18000 fanti, tra militari di professione e persone totalmente prive di esperienza. Intanto si venne a sapere che Saladino aveva attaccato la città di Tiberiade. A questo punto la scelta per i cristiani fu tra uscire in campo aperto, come voleva il Saladino stesso, o rimanere a Seforia, ricca peraltro d'acqua. Dopo giorni di inutili esitazioni, Guido prese la decisione di cui più si sarebbe pentito: il 3 luglio 1187 i crociati si muovono verso il deserto. 

Battaglia di Hattin
Le colonne marciano scoperte, esposte a qualunque minaccia, non somigliando neanche lontanamente ad un esercito. La trappola era scattata. L'epilogo non poté che essere una tragedia, tra le più grandi dell'intera Storia medievale: il 4 luglio, presso Hattin, i cristiani, già logorati dal caldo torrido e la sete, si ritrovarono accerchiati dalle forze di Saladino. E fu un massacro. Come Canne scosse profondamente la coscienza collettiva della Roma repubblicana, come Lipsia sconvolse la Francia napoleonica, così Hattin turbò l'Occidente cristiano più di ogni altra sconfitta. Che fu di quello sciocco di Guido di Lusignano? Sopravvisse, ma cadde prigioniero nelle mani del vincitore, che peraltro, sfoggiando l'usuale clemenza verso il nemico, lo liberò ottenendo in cambio alcune piazzeforti. Poco dopo, cadde anche Gerusalemme, indifesa. La notizia della disfatta arrivò in Europa su un vascello dalle vele nere, che per definizione indicano lutto. L'impatto emotivo fu tanto forte, che papa Urbano III morì di dolore. La reazione, ad ogni modo, seppe essere energica nel mondo cristiano, per non dire addirittura violenta. Come sappiamo, Gregorio VIII indisse immediatamente la crociata, cui aderirono monarchie ora abbastanza solide da sostenere lunghi conflitti esteri.  Saladino era al massimo del suo prestigio. Aveva pazientato, atteso, faticato, perfino perduto ma, alla fine, era giunto al termine del suo cammino. Da semplice soldato, seppur con buoni agganci, adesso guardava se stesso e vedeva il paradigma del sovrano, del generale, del politico. Eppure l'ambizione in lui non si arrestava mai e, senza neanche aver concluso del tutto la cacciata dei cristiani dall'Oriente, già sognava, scrutando il Mediterraneo, di “vendere tutti i beni e tutte le sostanze, raccogliere l'esercito più grande che si sia mai visto sulla faccia della terra, attraversare il mare e conquistare le terre dei cristiani che si trovano al di là del mare”.

IL DUELLO: LA TERZA CROCIATA

Riccardo Cuor di Leone affronta in duello Saladino
Ma i sogni erano, e sono, solo sogni. Da quella placida distesa blu che Saladino osservava stava arrivando la rivincita europea, nonché l'unico avversario degno, militarmente parlando, del vincitore di Hattin. Abbiamo lasciato i crociati, e i re, proprio alla loro partenza dalla Sicilia. Verrebbe da porsi una domanda, apparentemente banale: dove erano diretti? Certamente in Terrasanta, ma, per essere precisi, ad Acri. Fu considerato il punto di partenza migliore perché là Guido di Lusignano, liberato, come sappiamo, da Saladino, cingeva d'assedio la città, che era caduta nuovamente in mano musulmana. Filippo II Augusto sbarcò il 20 aprile 1191, e, sebbene avesse trovato degli assedianti sfiniti, logori, dovette rimanere sorpreso della tenacia inaspettata di Guido e i suoi. Rinforzati, e fortificati nello spirito dalla vista di un re, i cristiani ripresero l'attacco con maggior vigore, ma fu solo con l'arrivo di Riccardo, giunto l'8 giugno, che la città finalmente cadde, il 12 luglio. Il momento, per la nostra storia, ha un certo rilievo, poiché Saladino e il Cuor di Leone hanno qui un loro primo incontro, seppur indiretto, in cui il primo fallì miseramente nell'esaudire le innumerevoli suppliche d'aiuto dei difensori, mentre il secondo in poco più di un mese concluse un assedio che pareva infinito. Come se ciò non bastasse, quando Saladino si disse impossibilitato a procurare il riscatto per i prigionieri entro il termine stabilito, Riccardo gli mise pressione: massacrò 3000 musulmani, a eccezione dei nobili. Infine il sultano cedette e fu costretto, tra le altre cose, a dargli la Vera Croce, trofeo recuperato dai musulmani nella battaglia di Hattin. Dobbiamo supporre che Riccardo la bramasse tanto per la spinta emotiva che poteva conferire alle truppe quanto per la palese valenza simbolica. In ogni caso tali calcoli politici non sono sufficienti a spiegare l'improvvisa crudeltà di Riccardo. Prenderemo per vero quel che, in proposito, dice una fonte araba: “Solo Dio ne sa di più”. Saladino dovette comprendere, e di questo possiamo pure esser certi, di trovarsi di fronte ad un nemico nuovo, in grado di essere deciso, sicuro, carismatico. Tra la sua gente si diffuse a macchia d'olio il terrore per quell'uomo feroce venuto dall'Occidente. Pare addirittura che le mamme musulmane, quando i loro bambini piangevano, minacciassero: “Guarda che viene re Riccardo!”. Nell'esercito dei cristiani, tuttavia, l'entusiasmo fu smorzato da un evento inatteso: Filippo II, il re francese, decise di lasciare la crociata, di tornare in Europa. Come spiegarlo? Si sono in proposito formulate molte teorie, la più probabile delle quali è che, siccome era morto il conte di Fiandra, di nome Filippo, il re di Francia voleva mettere le mani sui suoi strategici possedimenti. In ogni caso, quel che più a noi interessa è che la sua partenza dopo la presa di Acri ebbe come effetto principale quello di lasciare il teatro degli scontri ai due personaggi di cui ci siamo occupati. Il duello entrava nel vivo. Era chiaro che il re inglese, ottenuta una solida base a nord, avrebbe puntato ora direttamente su Gerusalemme. Le armate di Riccardo infatti, da Acri, iniziarono la marcia verso sud, puntando su Giaffa, il porto della Città Santa, con il mare sul fianco destro e lo schieramento compatto. Il Cuor di Leone esibì qui tutta la sua dote militare: nonostante la lentezza, e gli sporadici attacchi di Saladino volti a disgregare le truppe, con mano ferma, mantenne l'esercito compatto, facilitato anche dal fatto di avere solo la parte sinistra della colonna da difendere. Si procedette in questo modo fino a circa 25 km a nord di Giaffa, quando Saladino si decise a puntare tutto su una battaglia campale, nei pressi della città di Arsuf. Era la mattina di quel 7 settembre 1191 da cui la nostra narrazione è iniziata. Trovandosi la strada sbarrata, Riccardo capì che lo scontro decisivo era inevitabile. Il Cuor di Leone contava su numeri spaventosi per l'epoca: circa 40000 fanti, ivi compresi arcieri e balestrieri, e 9500 cavalieri. Se il numero poté essere tanto alto, fu anche grazie a Filippo II, il quale, nonostante il poco impegno dimostrato, lasciò parte delle sue truppe in Terrasanta, al comando di Ugo III di Borgogna. Al centro dello schieramento stavano i cavalieri crociati, direttamente al comando di Riccardo, supportati da reparti di arcieri e altre truppe appiedate; la destra era composta dai Templari, condotti dal loro Gran Maestro Robert de Sablé; sulla sinistra lo scontro fu affidato agli Ospedalieri e al loro Gran Maestro Garnier de Naplouse. Veniamo ora allo schieramento musulmano. Sebbene Saladino mettesse in campo un esercito pressappoco numeroso quanto quello cristiano, si è concordi nel ritenere che le sue forze fossero certamente più fresche di quelle crociate, e di conseguenza sensibilmente più avvantaggiate in partenza. Differenza vistosa rispetto alle truppe cristiane furono, inoltre, gli equipaggiamenti, in quanto i musulmani erano prevalentemente armati alla leggera. D'altro canto Saladino continuava ad impiegare l'antica tattica della razzia, tipica del Medio Oriente arabo, pertanto un ruolo fondamentale era rivestito dagli arcieri a cavallo, e, più in generale, dalla cavalleria. La logica militare musulmana non era mai quella di impegnarsi direttamente a fondo nello scontro, quanto piuttosto quella di separare le varie unità dell'esercito nemico tramite un tiro martellante di dardi e giavellotti e poi spazzare via ciò che restava con un assalto generale. Lo scontro ad Arsuf mise in luce i punti deboli di tale strategia. Già da dopo le nove del mattino, la colonna cristiana in marcia verso Giaffa iniziò ad essere logorata dalla pioggia furiosa di frecce, soprattutto sulla retroguardia, che, se girata verso i musulmani, era il fianco sinistro dell'esercito crociato, dunque quello degli Ospedalieri, come prima si è detto.  Dobbiamo immaginarci la fatica, il sudore, la paura di soldati che continuavano a marciare nonostante il caldo soffocante, i dardi, i giavellotti, le pietre, il peso insostenibile degli armamenti e le protezioni di ferro, le urla terrificanti di un nemico che appariva e scompariva, come un fantasma. Riccardo aveva dislocato tre coppie di trombe all'inizio, al centro e alla fine della colonna, di modo che contemporaneamente si potesse dare l'ordine di girarsi verso est e caricare simultaneamente il nemico. Solo che, a suo modo di vedere, il momento giusto non arrivava. La marcia della morte continuò per più di tre o quattro ore. I balestrieri e gli arcieri tentarono per tutto il tempo di rispondere alle salve della lesta cavalleria musulmana, ma la situazione non faceva che peggiorare. I crociati erano sempre più vicini a finire nella ragnatela di Saladino, inerti com'erano di fronte ai suoi ripetuti attacchi a distanza. Gli Ospedalieri, in particolare, erano prossimi a disgregarsi del tutto. Il Gran Maestro dell'Ordine, Garnier de Naplouse, fattosi coraggio, raggiunse a tutta velocità Riccardo, chiedendogli il permesso di interrompere la marcia verso sud e compiere una carica verso il nemico, al fine di allentare la pressione. “Pazientate, non è ancora il momento” gli rispose, lapidario, il re inglese. E altre tre volte la conversazione si ripeté. Davvero non si capiva perché un militare brillante come il Cuor di Leone esitasse a prendere una decisione tattica tanto ovvia. Infine, forse per disperazione, forse per rabbia, gli Ospedalieri, pur non avendo ricevuto alcun ordine, voltano i cavalli verso il nemico e si lanciano in una carica strabiliante. Riccardo, che non volle assolutamente quell'attacco, quando lo vide, incredibilmente, lo sostenne: le trombe risuonarono nella piana e l'intero schieramento cristiano si scagliò sugli avversari con una foga impressionante. Atterriti, i musulmani non riuscivano a reagire, incalzati com'erano dai cavalieri crociati, quindi iniziarono a indietreggiare. La ritirata per i reggimenti arabi rischiava di divenire una fuga disordinata. A meno che Saladino non volesse vedere l'esercito annientato interamente, urgeva la necessità di dare respiro alle sue truppe. A tal fine, il sultano radunò attorno a sé alcune centinaia di cavalieri e si scagliò sul fianco sinistro cristiano. Inutile dire che fu respinto facilmente, ma l'obiettivo fu ugualmente raggiunto, poiché Riccardo, visto il contrattacco, ritenne pericoloso proseguire nell'inseguimento e richiamò le truppe. Ad ogni modo, la vittoria dei crociati fu totale. Verrebbe da dire che il Cuor di Leone abbia trionfato grazie a un colpo di fortuna, o comunque per merito di una vera e propria disubbidienza ai suoi ordini. Ma questo è vero solo in parte, perché sulla faccia della Terra, quel giorno, nessuno avrebbe avuto la flessibilità, i riflessi, l'intuito che dimostrò Riccardo cambiando tanto repentinamente strategia. Detto in altri termini, la vittoria non avvenne solo grazie a lui, ma mai sarebbe avvenuta senza il suo genio militare.
Saladino era sconfitto, anche se non in maniera decisiva, come all'epoca si volle dire. Come vittoria, quella di Arsuf non è neanche paragonabile ad Hattin; le forze musulmane erano ancora consistenti, e pronte a difendere Gerusalemme. Intanto Riccardo poté concludere la sua marcia su Giaffa, riconquistata rapidamente. Svernò là, in attesa di compiere il passo finale, verso la gloria eterna. Si è più volte fatta notare, in ambito storiografico, l'inspiegabile lentezza del re d'Inghilterra in questo frangente. Sprecò molto tempo prezioso infatti per fortificare Giaffa, e, nel mentre, Saladino ebbe la possibilità di preparare con accuratezza le difese di Gerusalemme. Così i due attacchi che Riccardo sferrò alla Città Santa, a gennaio e a giugno del 1192, si conclusero con delle silenziose ritirate. La verità è che, con ogni probabilità, lo stesso Cuor di Leone non credette mai davvero nella riconquista di Gerusalemme, ma non tanto per la paura dell'assedio, che ben sapeva di poter vincere con un dispiegamento completo delle sue forze al momento giusto, quanto piuttosto per le prospettiva della gestione successiva della città, del territorio, dell'amministrazione. La mancanza di personale umano e politico, unitamente all'isolamento dall'Europa, furono dai tempi della Prima Crociata un problema insormontabile per l'Oltremare latino, tanto preso sul serio da Riccardo che decise di evitare di complicare senza motivo quella che ai suoi occhi era una chiara vittoria. Il ragionamento, se lo si analizza, non va a suffragare le tesi di chi ha visto nel re inglese un uomo schiavo del bisogno di gloria; anzi può aiutare a ridare complessità, umanità ad un personaggio privato della sua legittima dimensione storica.
Il piano del Cuor di Leone allora fu un altro: venire a trattative, stavolta da una posizione di forza, almeno secondo lui. Di fatto Saladino, convinto di avere ancora una notevole forza contrattuale, volle rivedere solo questioni politiche non inerenti alla sovranità su Gerusalemme. Il trattato di pace, siglato il 2 settembre 1192, andò molto diversamente dal modo in cui Riccardo aveva pianificato. Quest'ultimo era arrivato a prospettare perfino una coabitazione politica su Gerusalemme, ottenuta con un possibile matrimonio tra la sorella Giovanna d'Inghilterra e il fratello del sultano, che gli Europei chiamavano Safadino. L'ipotesi pare suggestiva, oltreché rivelatrice di una notevole apertura mentale di Riccardo, che, d'altro canto, non era certo un ignorante. Ad ogni modo, le idee del Cuor di Leone su Gerusalemme rimasero, appunto, solo idee, prima di tutto a causa del rifiuto della stessa Giovanna di sposare un islamico, e, secondariamente, perché Saladino si mostrò restio a cedere anche di poco sulla Città Santa. L'accordo che fu concluso pare più il risultato di una lotta senza un vero vincitore: fu statuita una tregua di 3 anni e 8 mesi; Gerusalemme rimase in mano a Saladino, con la possibilità però del libero accesso per i pellegrini cristiani; inoltre il sultano riconobbe le conquiste compiute dal Cuor di Leone, in particolare Acri e Giaffa; le città di Lydda e Ramla divennero territorio comune. Riccardo, richiamato da urgenti affari sul continente, dovette ripartire dalla Terrasanta il 9 ottobre 1192, senza peraltro visitare i luoghi sacri di Gerusalemme, sebbene ora gli fosse permesso. Certi storici si sono sbilanciati, volendo attribuire a siffatta condotta il valore di un atto dimostrativo, volto a far capire al nemico che si era pervenuti ad una tregua, non alla fine della guerra e che il suo era, come si direbbe oggi, un “arrivederci”, non un “addio”. Quale che fosse il senso del disinteresse di Riccardo per i luoghi sacri Gerusalemme, non tornò mai in Terrasanta. La sua vita si concluse nello stesso modo in cui era trascorsa: sul campo di battaglia, per una balestrata nell'assedio di Chalus, nel 1199. Quanto a Saladino, non visse a lungo dopo la terza crociata. Morì infatti solo alcuni mesi dopo la tregua con il Cuor di Leone. Nelle sue ultime ore gli furono letti alcuni passi del Corano. Si racconta che alle parole “Non c'è altro Dio che Lui, in Lui ho posto la mia fiducia” (IX, 129) sorrise, poi il suo grande cuore cessò di battere. Alla fine di tutta questa storia, non è agevole incoronare un vincitore. Forse neanche c'è stato. Quel che conta è lo spessore che lo scontro tra Saladino e Riccardo Cuor di Leone ha raggiunto, sia sul piano militare, sia sul piano politico. Una prova su tutte di quanto appena detto: la trattativa fu il più grande compromesso di tutta la storia delle crociate, potenzialmente in grado di conciliare permanentemente le esigenze di cristiani e musulmani. Nascosto, in questa storia,  appare allora il seme della concretizzazione di un principio utopistico, per cui ancora oggi si lotta: la tolleranza religiosa.

Articolo di Giulio Talini

Bibliografia

Steven Runciman, “Storia delle crociate”, Einaudi, Torino, 2005
Alain Demurger, “Crociate e crociati nel Medioevo”, Garzanti, Milano, 2012
Marco Meschini, “Le crociate di Terrasanta”, Sellerio, Palermo, 2007
Henri Pirenne, “Storia d'Europa dallle invasioni al XVI secolo”, Newton Compton Editori, Roma, 2010
Hannes Mohring, “Saladino”, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2007
Jean Flori, “Riccardo Cuor di Leone”, Einaudi, Torino, 2002
Andrea Frediani, “Le Grandi Battaglie del Medioevo”, Newton Compton Editori, Roma, 2009
David Nicolle, “La vittoria di Saladino”, Osprey Publishing, 2003
Ludovico Gatto, “Le crociate. Le guerre tra cristiani e musulmani nell'epoca dei cavalieri”, Newton Compton Editori, Roma 2012
Andrew May, “The Battle of Arsuf – 1191”, Bretwalda Books, 2012
Alessandro Barbero, “Benedette guerre. Crociate e jihad”, nella serie “I Libri del Festival della Mente”, 2009

lunedì 28 ottobre 2013

LA CROCIATA DEI PEZZENTI

La crociata dei poveri (i pauperes) fu un insieme di spedizioni non coordinate che presero parte alla prima crociata. Queste forze, tese allo scontro con i turchi selgiuchidi in Asia Minore, avevano risposto spontaneamente all'appello di Clermont di papa Urbano II del 1095. Alcuni storici (come Franco Cardini) parlano di "crociate" dei poveri a sottolineare come questo movimento fosse frammentato e molteplice.
La crociata "dei poveri" (in contrapposizione a quella "dei nobili", organizzati militarmente) fu effettivamente la prima crociata della storia anche se gli storici moderni, sia per lo scarso successo e sia perché non fu mai ufficializzata dalla Chiesa di allora, la considerano un'avanguardia della prima crociata. Visto che i componenti non avevano esperienza bellica adeguata, finì tragicamente. Questa crociata è anche famosa per il motto che il suo stesso promotore le aveva dato: Deus lo volt (Dio lo vuole). Infatti un religioso francese sosteneva che durante il suo precedente pellegrinaggio a Gerusalemme a lui, giovane scandalizzato dalla brutalità con cui i musulmani trattavano sia i luoghi sacri sia i Cristiani stessi, fosse apparso Dio, mentre era in preghiera nel Santo Sepolcro, e che gli avesse confidato la missione di tornare in occidente a predicare la liberazione dei luoghi sacri. In questo stesso periodo avvenne il primo pogrom ad opera di alcuni gruppi di crociati germanici che, dimenticate le loro benevole intenzioni, furono guidati dal conte Emich di Leisingen in una spedizione contro le comunità ebraiche del Reno. I pellegrini, spinti dalla penuria e dalla convinzione di una sorta di responsabilità ebraica nell'uccisione di Cristo, saccheggiarono e massacrarono gli israeliti nelle città di Spira, Worms, Treviri, Colonia e Magonza. Qualche vescovo locale si adoperò per salvare i malcapitati ma spesso la sua autorità veniva ignorata e addirittura, nella città di Magonza, i soldati di Emicho distrussero il palazzo vescovile dove erano stati ospitati gli ebrei. Tuttavia questi genocidi non ebbero nulla a che fare con la vera e propria Crociata dei Poveri, nessuna di queste spedizioni antiebraiche arrivò mai in Oriente: esse infatti svanirono non appena incontrarono una forte resistenza nelle città. Lo stesso conte Emich di Leiningen venne sconfitto in Ungheria. L'Europa dell'epoca era attraversata da predicatori itineranti e da agitatori religiosi (come i patarini) che avevano infiammato i ceti subalterni durante i decenni della riforma contro il clero simoniaco e concubinario. Con la vincita della fazione riformatrice e la stabilizzazione della situazione questi predicatori-agitatori erano diventati scomodi per il clero, anche perché essi erano rimasti delusi dagli esiti della riforma stessa, che aveva mancato di far nascere la Chiesa di "poveri e uguali" sul modello della supposta Chiesa delle origini. È probabile quindi che Urbano pensasse solo a una spedizione attuata dai signori feudali dell'Europa meridionale e continentale ma l'entusiasmo suscitato nell'opinione pubblica fu tale che a muoversi per prime furono proprio le componenti di pauperes, raccoltesi in modo spontaneo e informale intorno ad alcuni di questi predicatori (come Pietro l'Eremita) e ad alcuni cavalieri (come Gualtieri Senza Averi). Essi vedevano nella spedizione un ritorno alla Casa del Padre, alla Gerusalemme Celeste. Queste schiere di pellegrini erano armate sommariamente e prive di ogni disciplina militare; erano infatti composte prevalentemente da poveri, donne e bambini. La crociata attraversò l'Europa spinta dallo zelo religioso e dalla fede più semplice, tuttavia non mancarono atti di violenza. I pellegrini giunsero infatti con molto anticipo e non erano ancora stati allestiti i mercati per sfamare contingenti così numerosi: furti, saccheggi, sommosse e violenze furono l'inevitabile risultato. Pietro l'Eremita (Pietro d'Amiens) era un predicatore popolare che, per il fatto di girare coperto di stracci e in sella a un umile asino, s'era guadagnato la fama di "eremita". Giunse a Colonia il 12 aprile 1096, dopo aver percorso le terre centrali del Berry, il territorio di Orléans e di Chartres, la Normandia, il territorio di Beauvais, la Piccardia, la Champagne, la valle della Mosella e infine la Renania. Era un personaggio non inquadrato nel sistema ecclesiastico, ma dotato di grande carisma trascinatore ed esercitava un'influenza enorme sulla folla. Con un grosso seguito di francesi e preceduto dal suo motto tardo-latino Deus le volt ("Dio lo vuole"), Pietro giunse a Colonia nella speranza di convincere, in quella ricca città tedesca, qualche ricco signore feudale a unirsi al suo gruppo, mentre Gualtieri Senza Averi (lo stesso nome ricorda come fosse un cavaliere escluso dalla successione ereditaria poiché non primogenito) si mise alla testa di un gruppo alquanto più esiguo di contadini e di cavalieri senza risorse economiche, partendo subito dopo Pasqua alla volta di Costantinopoli. Affermava di essere stato mandato direttamente da Dio e assicurava che, durante un precedente pellegrinaggio, sarebbe rimasto scandalizzato dalla condizione in cui aveva trovato i luoghi sacri e dal dominio musulmano sui cristiani di Gerusalemme. Mentre pregava nel Santo Sepolcro gli sarebbe apparso Cristo per affidargli una missione: tornare in Occidente a predicare la liberazione dei luoghi sacri e dei cristiani d'Oriente. Nel maggio 1096, assai prima della data che il papa aveva previsto, gente d'ogni sorta (poveri, preti, monaci, donne, ma anche soldati, signori e perfino principi) si mise agli ordini di Pietro e si pose in viaggio: sarebbe arrivato a Costantinopoli il primo agosto, cioè 15 giorni prima della data fissata per la partenza da Le Puy della crociata ufficiale. Gualtieri Senza Averi, signore di Poissy, guidava l'avanguardia delle truppe di Pietro l'Eremita. Egli entrò nella valle del Reno per poi dirigersi verso quella del Danubio. La via di terra da lui prescelta comportava tempi lunghi e l'improvvisazione della spedizione mise subito in mostra l'inadeguatezza dell'apparato logistico predisposto. La mancanza di vettovagliamenti portò pertanto gli uomini di Gualtieri a razziare, armi in pugno, quelle contrade e inevitabile fu la reazione del comandante militare della piazzaforte di Belgrado che sanzionò duramente le violenze operate in città dagli uomini di Gualtieri che dovette registrare la morte di numerosi suoi seguaci. Un episodio minore, praticamente una scaramuccia, ebbe poi luogo a Zemun. I 20.000 uomini di Pietro seguirono la stessa via terrestre di Gualtieri. Passarono inizialmente senza troppi problemi attraverso i territori ungheresi di re Coloman, ma a Zemun un incidente si trasformò in scontro aperto fra i seguaci di Pietro e gli Ungheresi. Quattromila di questi ultimi furono trucidati dai Crociati di Pietro e Belgrado parzialmente data alle fiamme. Le autorità bizantine di Niš, guidate dal governatore Nicetas, trucidarono allora buona parte dei Crociati "popolari" che si ridussero alla cifra di 7.500 elementi che giunsero senza ulteriori problemi a Costantinopoli il 1º agosto 1096. Le forze congiunte di Gualtieri e di Pietro furono trasportate il 6 agosto, su ordine dell'Imperatore bizantino, in Asia Minore. Essi si stabilirono nel campo di Kibotos (dai Crociati francofoni chiamato Civetot) ma subito cominciarono a nascere violente divergenze sulle cose da fare. Alla fine i Crociati si divisero in due gruppi, uno composto da francesi, l'altro di germanici: invece di avanzare si diedero ai saccheggi. I soldati francesi attaccarono Nicea e tornarono con un grande bottino, suscitando le invidie dei germanici che vollero imitarli. Tuttavia questa volta i turchi di Rūm e il loro sultano Qilij Arslan ibn Sulayman non si fecero prendere di sorpresa e catturarono l'esercito crociato. Coloro che rinunciavano a Cristo convertendosi all'Islam venivano deportati, gli altri trucidati sul posto.
Alla notizia dell'accaduto si mossero da Civitot i restanti Crociati, malgrado il consiglio di Gualtieri che consigliava di attendere il ritorno da Costantinopoli di Pietro. Prevalse invece il parere di Goffredo Burel e il 21 ottobre i 20.000 Crociati caddero nelle imboscate che il sultano selgiuchide aveva con ampio anticipo con efficienza predisposto. La strage fu immensa -lo stesso Gualtieri cadde sul campo- e i pochi sopravvissuti furono salvati dalle truppe dell'Imperatore bizantino che indussero i Selgiuchidi a tornare nelle loro basi di partenza. Pietro l'Eremita scampò al massacro; egli infatti era ancora a Costantinopoli quando lo raggiunse la notizia del disastro. Decise quindi con i pochi sopravvissuti di attendere l'arrivo del grosso della crociata e si accordò nel 1096 con i crociati nobili.

Fonte: Wikipedia

"DIO LO VUOLE!"

Deus lo volt, o Deus le volt (storpiatura dell'espressione latina Deus vult! col significato di Dio lo vuole) fu il grido di battaglia usato da Pietro l'Eremita nelle sue predicazioni per arruolare crociati per la Crociata dei pezzenti. Con questo motto si invitavano i cristiani alla conquista della Terra Santa, allora sotto il potere dei Selgiuchidi, per liberare il Santo Sepolcro. Fu utilizzato anche in seguito dai guerrieri delle successive Crociate e leggenda vuole che persino Papa Urbano II, Pontefice promotore della prima Crociata, avesse utilizzato questo detto, dopo il celebre discorso tenuto a Clermont, in aiuto della Chiesa d'Oriente, privata della città di Gerusalemme. Deus lo vult è il motto dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.

Fonte: Wikipedia

mercoledì 2 ottobre 2013

RINALDO DI CHATILLON

Rinaldo di Chatillon (chiamato anche Reynald o Reginaldo di Chastillon) (circa 1125 – 4 luglio 1187) fu un cavaliere che partì per la seconda crociata e rimase in Terra Santa, dove divenne Principe consorte d'Antiochia dal 1153 al 1160 e Signore d'Oltregiordano dal 1176 alla morte. Nel 1177 comandò l'esercito del Regno di Gerusalemme che sconfisse Saladino a Montgisard. Nel 1181 depredò una carovana a Tayma nonostante una tregua tra cristiani e musilmani. Due anni dopo violò la tregua tra Saladino e Baldovino IV, il re lebbroso commettendo atti di pirateria sul Mar Rosso. L'esercito musulmano catturò molti soldati di Rinaldo condannandoli a morte. Baldovino riuscì a mediare ma la situazione era estremamente compressa. Entrambe le parti violarono sistematicamente e frequentemente le tregue pattuite tra il 1171 ed il 1187, nonostante Baldovino IV tentasse di porre fine ad uno stato di guerra che stava minando rapidamente la sicurezza del suo regno: infatti se da parte cristiana numerosi notabili, tra cui Rinaldo, si mostravano irrequieti verso i Saraceni e desideravano apertamente la guerra nei loro confronti, da parte musulmana Saladino si era impegnato pubblicamente più volte a distruggere la presenza cristiana in Terra Santa e non desiderava sicuramente una semplice convivenza, desiderio che aveva caratterizzato invece i suoi predecessori, gli ultimi califfi fatimidi. In questo contesto ambiguo non era infrequente che entrambe le parti, per rompere legittimamente agli occhi del popolo le tregue, prendessero a pretesto lo svolgersi di pratiche prima tollerate, per quanto deprecate, quali gli assalti e gli abusi alle carovane di pellegrini, di cui si erano resi protagonisti sistematicamente tanto i signori cristiani quando quelli musulmani nei rispettivi territori. Nel 1186 Reginaldo violò la tregua e si impadronì di una ricca carovana sulla via dell’Oltregiordano in direzione di Damasco. Saladino pretese la liberazione dei prigionieri e la restituzione delle merci. Rinaldo rifiutò tanto alla richiesta di Saladino tanto a quella di Guido di Lusignano, nuovo re di Gerusalemme, a cui Saladino si era rivolto, affermando che come Guido era padrone delle sue terre, così lui lo era delle sue. Saladino giurò che Rinaldo sarebbe stato giustiziato se fosse stato mai preso prigioniero. Nel 1187 Saladino invase nuovamente il regno, sconfiggendo i Crociati alla Battaglia di Hattin e facendo molti prigionieri. I più importanti fra questi erano Rinaldo ed il re Guido, che Saladino ordinò di condurre alla sua tenda. Secondo il racconto di al-Safadi in al-Wafi bi-l-wafayāt, Saladino offrì dell'acqua a Guido, che allora diede il bicchiere a Rinaldo. Saladino buttò via l'acqua, dicendo che non aveva offerto l'acqua a Rinaldo e non era quindi vincolato dalle regole musulmane sull'ospitalità. Saladino apostrofò Rinaldo:
« "Quante volte avete fatto un giuramento e lo avete violato? Quante volte firmato un accordo che non avete mai rispettato?" Rinaldo, tramite l'interprete, rispose: "I re hanno sempre agito così. Non ho fatto nulla di più." Durante questi momenti, il Re Guido stava male per la sete, la sua testa ondeggiava come fosse ubriaco, la sua faccia tradiva grande paura. Saladino gli indirizzò parole rassicuranti, fece portare dell'acqua fredda e gliela offrì. Il re bevve, dopodiché dette ciò che rimaneva a Rinaldo[...]. Il sultano allora disse a Guido: "non hai chiesto il permesso prima di dargli l'acqua. Pertanto non sono obbligato a garantire la sua salvezza". Dopo aver pronunciato queste parole, il sultano sorrise, montò a cavallo e si allontanò, lasciando i prigionieri nel terrore. Supervisionò il ritorno delle truppe e quindi ritornò alla sua tenda. Ordinò che Rinaldo fosse portato lì, quindi avanzò verso di lui con la spada in pugno e lo colpì tra il collo e lo spallaccio. Quando Rinaldo cadde, gli tagliò la testa e trascinò il corpo ai piedi del re, che cominciò a tremare. Vedendolo così sconvolto, Saladino gli disse in tono rassicurante: "Quest'uomo è stato ucciso solo a causa della sua malvagità e perfidia". »
Secondo alcuni autori e nella Storia dei patriarchi di Alessandria, il sultano avrebbe addirittura infierito sul cadavere, anche spalmandosene il sangue sul viso o usandolo per lavarsene le mani. La testa di Rinaldo fu fatta trascinare per ordine del Sultano per tutti i suoi territori dopo essere stata esposta a Damasco.

Fonte: Wikipedia

giovedì 8 agosto 2013

SCOPERTO UN ANTICO OSPEDALE A GERUSALEMME: RISALE AL TEMPO DELLE CROCIATE!

Dal giornale Spagnolo "El Pais" veniamo a conoscenza di una scoperta molto interessante ed importante. Durante degli scavi effettuati nella parte vecchia di Gerusalemme, è stata scoperta una enorme struttura che risale probabilmente all'epoca delle Crociate e quindi collocabili tra il 1099 (presa di Gerusalemme, peraltro estremamente sanguinosa) e il 1291 con la caduta di Acri, ultimo baluardo cristiano in Terra santa e che potrebbe essere un ospedale in grado di raccogliere, secondo Renee Forestany, direttore dello scavo dell'Israel Antiquities Authority (IAA), anche duemila pazienti per una superficie complessiva di oltre 14 mila metri quadrati. L'edificio si trova nel quartiere cristiano della Città Santa in una zona dove fino a pochi anni fa vi era un mercato. I responsabili dello scavo si sono trovati dinanzi ad una enorme struttura, con numerosi pilastri e archi e varie suddivisioni in zone più grandi e più piccole. 
"Abbiamo imparato a conoscere l'ospedale da documenti storici contemporanei, molti dei quali sono in latino," dicono, e spiegano inoltre che questi menzionano l'esistenza di un ospedale sofisticato costruito da un ordine militare cristiano chiamato "Ordine di San Giovanni dell'Ospedale a Gerusalemme. "
E ciò non è un caso: i membri dell'Ordine di San Giovanni giuravano di assistere i pellegrini che si recavano in Terra Santa ma anche di unirsi agli altri combattenti se ve ne fosse stato bisogno. La struttura dell'ambulatorio scoperto, ricalca la struttura degli ospedali moderni: vi sono ali e dipartimenti secondo le malattie dei pazienti e in caso di necessità la capacità massima era di ben duemila persone. I membri dell'Ordine di San Giovanni si occupavano anche di uomini, donne e bambini di altra religiose e anche dei figli abbandonati i quali venivano curati e mantenuti fino al loro ingresso nell'ordine. L'Israel Antiquities Authority (IAA),sottolineando che a quei tempi l'igiene non era certo all'ordine del giorno, riporta il caso di un medico che amputò la gamba di un cavaliere che morì dopo pochi giorni per infezione. Nello "staff medico" vi erano anche medici arabi già noti per le loro conoscenze in materia. Dopo la sconfitta dei Cristiani contro Saladino questi, appena preso possesso della città, si stabilì nei pressi dell'ospedale ristrutturandolo e permettendo ai membri dell'ordine di continuare la propria opera di assistenza. Nel 1457 l'edificio crollò e per tutto il medioevo l'ospedale fu usato come stalla di cavalli e cammelli: infatti oltre a ossa sono stati ritrovati anche elementi di ferro e metallo che servivano alla ferratura del cavallo. Secondo Monser Shwieki, direttore del progetto, parte dell'edificio diventerà un ristorante, e "i suoi clienti rimarranno impressionati dall'incantevole atmosfera medievale che vi si respira".

Fonte: cultura.elpais.com 

mercoledì 24 aprile 2013

CROCIATA CONTRO GLI ALBIGESI

La crociata contro gli albigesi ebbe luogo tra il 1209 e il 1229 contro i catari e fu bandita da papa Innocenzo III nel 1208 per estirpare il catarismo dai territori della Linguadoca. Il catarismo fu un movimento cristiano diffusosi poco dopo l'anno 1000 e soprattutto tra il 1100 e il 1200, nell'Europa meridionale, nei Balcani, in Italia e in Francia, nella Linguadoca, prevalentemente nella regione di Albi (da cui originò il nome albigesi), dove i signori di Provenza ed il conte di Tolosa (ed anche alcuni ecclesiastici come i vescovi di Tolosa e Carcassonne e l'arcivescovo di Narbona), verso la fine del XII secolo, permisero che i catari predicassero nei villaggi e ricevessero lasciti anche cospicui, accettando che catari fossero messi anche a capo dei conventi. Conseguenza ultima della crociata fu anche l'inizio del lungo declino della cultura e della lingua occitana in tutto il sud della Francia. Sino al 1204, papa Innocenzo III cercò di combattere la crescita di questo movimento attraverso gruppi di missionari cistercensi, guidati da Pietro di Castelnuovo (noto anche come Pierre de Castelnau) (?-1208). Accortosi che i missionari non ottenevano il risultato sperato, Innocenzo III, su suggerimento di Arnaud Amaury, abate di Cîteaux, confratello di Pietro di Castelnuovo, alla fine del 1204, invitò i suoi legati a fare pressione sui vari signori locali affinché i catari fossero espulsi da tutti i loro territori, mentre ai legati fu concessa l'autorità di deporre gli ecclesiastici sospetti (cosa che riuscirono a fare tra il 1204 ed il 1206). In quegli anni arrivò in Linguadoca come missionario anche Domenico di Guzmán, che si applicò subito in dispute e contraddittori con i catari, ma si convinse anche immediatamente che bisognava dare l'esempio e vivere in umiltà e povertà come gli albigesi, che lo portò dieci anni dopo alla fondazione dell'Ordine dei Frati Predicatori. Impresa più ardua invece si dimostrò imporre il rispetto del provvedimento di espulsione ai signori feudali, in modo particolare al conte di Tolosa, Raimondo VI. Per costringere Raimondo VI, Pietro di Castelnuovo promosse una lega di vassalli del conte di Tolosa disposti a ottemperare alle disposizioni papali e invitò Raimondo ad aderirvi. Al suo rifiuto Pietro scomunicò Raimondo VI, colpì con l'interdetto i suoi territori e lo minacciò di attacco da parte della lega dei suoi vassalli. Raimondo allora decise di sottomettersi e, nel 1207, promise di aderire alla lega. Nel gennaio del 1208, però Pietro di Castelnuovo venne assassinato da sconosciuti e Arnaud Amaury, molto abilmente, fece ricadere la colpa su Raimondo VI conte di Tolosa. Contemporaneamente alla pressione sui signori feudali, il papa, già dal 1204 e poi nel 1205, aveva richiesto al re di Francia Filippo Augusto di aiutarlo ad estirpare l'eresia nel Sud. Essendo le richieste cadute nel vuoto, Innocenzo III nel novembre del 1207 propose a Filippo Augusto una crociata, offrendo le stesse indulgenze concesse ai crociati della Terra Santa.
La Corona di Francia non aveva inizialmente alcun interesse a farsi coinvolgere direttamente nella crociata pontificia. Re Filippo II Augusto era troppo occupato a combattere il re d'Inghilterra, Giovanni Senza Terra, che si era alleato con suo nipote l'Imperatore Ottone IV, ma aveva comunque permesso ai suoi vassalli di partecipare alla crociata a titolo personale, senza coinvolgervi le truppe mercenarie che dovevano rimanere al servizio della Corona. Il monarca francese aveva però rivendicato con costanza i propri diritti su quelle terre, fino a che Filippo Augusto, sotto la pressione papale, non autorizzò suo figlio, Luigi, ad andare crociato, prima nel 1215, e poi nel 1219, e poi convocando gli stati generali per approvare la crociata, nel 1222, poco prima di morire, avendo anche compreso l'utilità economica che un'annessione dei ricchi territori del Sud avrebbe comportato. Dopo la morte di Pietro di Castelnau Innocenzo III scomunicò il conte di Tolosa, sciolse i suoi vassalli dal giuramento di fedeltà al proprio signore e fece diffondere il bando di chiamata alle armi in tutte le regioni del Nord della Francia, predicò la crociata facendo un ultimo, vano, tentativo con Filippo Augusto. Furono molti i signori e non pochi i prelati dell'Île-de-France, dell'Orleanese e della Piccardia che risposero all'appello, e intorno alla metà del 1209 circa 10.000 armati (50.000 secondo il cronista Pietro di les Vaux-de-Cernay) si erano radunati e accampati di fronte a Carcassonne, mentre altri soldati erano stati radunati a Lione dal capo della crociata, Arnaud Amaury, ed iniziarono a marciare verso Sud, verso la Linguadoca. In giugno Raimondo di Tolosa, riconoscendo l'impossibilità di dare vita ad una coalizione in grado di contrastare i crociati, avviò trattative con Roma e accettò di schierarsi con i crociati contro i catari, vedendo così ritirata la sua scomunica. Le truppe crociate, oltrepassata la città di Montpellier, mossero contro le comunità catare riunitesi intorno ad Albi e Carcassonne per debellarle. Raimondo Ruggero di Trencavel, visconte di Béziers e Carcassonne, così come già in precedenza Raimondo di Tolosa, cercò la via delle trattative, che però trovò sbarrata, e fu costretto a ritirarsi a Carcassonne per preparare le difese. In luglio i crociati assalirono il piccolo villaggio di Servian e mossero quindi verso Béziers, che raggiunsero il 21 luglio 1209. Dopo aver circondato la città, i crociati chiesero che i càtari venissero banditi oltre le mura cittadine, ma ricevettero un deciso rifiuto. La città cadde il giorno successivo, quando un fallito tentativo di sortita da parte degli assediati permise alle truppe crociate di penetrare nella città. Sebbene Béziers non contasse una cifra superiore alle 500 persone appartenenti alla religione càtara, l'intera popolazione venne massacrata; secondo lo stesso Amaury i morti furono circa ventimila. La notizia del massacro di Béziers si diffuse rapidamente, mettendo in allerta tutte le restanti comunità catare, e alcune città, come Narbona, si arresero. Il successivo obiettivo dei crociati fu la città di Carcassonne, che era sì ben fortificata, ma rimaneva tuttavia molto vulnerabile e sovraffollata di rifugiati. I crociati arrivarono sotto le mura cittadine il 1 agosto 1209, ma l'assedio non durò molto tempo, poiché il 7 agosto le truppe assedianti avevano tagliato ogni risorsa idrica alla città. Raimondo Ruggero di Trencavel cercò di trattare ma venne fatto prigioniero e la città fu costretta ad arrendersi il 15 agosto 1209; questa volta i suoi abitanti vennero risparmiati, ma furono costretti a lasciare la città, completamente nudi, secondo Pietro di les Vaux-de-Cernay, o solo con le braghe, secondo altre fonti.
Nel frattempo nell'agosto 1209, dopo il rifiuto del duca di Borgogna e dei conti di Nevers e Saint-Pol, Simone di Montfort fu nominato capitano generale dell'esercito Crociato contro gli albigesi e, dopo aver preso il comando delle truppe crociate, cercò di assicurarsi il controllo dell'area circostante Carcassonne, Albi e Béziers. Dopo Carcassonne molte altre città furono costrette alla resa senza opporre resistenza, tra le quali Albi, Castelnaudary, Castres, Fanjeaux, Limoux, Lombers e Montréal, che caddero rapidamente una dopo l'altra in autunno. Tuttavia alcune delle città recentemente conquistate presto si ribellarono nuovamente, anche perché i crociati prestavano servizio solo quaranta giorni. Lo sforzo successivo ebbe luogo verso il villaggio di Cabaret ed il sovrastante Castello di Lastours. Attaccato nel dicembre 1209, il castellano Pierre-Roger de Cabaret respinse gli assalitori. L'assedio subì un arresto durante l'inverno, ma nel frattempo i crociati ricevettero nuovi rinforzi. Nel marzo del 1210 venne catturata la cittadina di Bram dopo un breve assedio, e in giugno venne presa d'assalto la ben fortificata città di Minerve; dopo un pesante assalto alle sue mura, la città cadde il 22 giugno e i suoi cittadini furono costretti ad arrendersi. Ai càtari venne offerta la possibilità di convertirsi e i 140 che la rifiutarono furono messi al rogo. Quando, nel 1212, cadde anche Lavaur, i crociati erano giunti a circondare la contea di Tolosa, il cui conte Raimondo VI da oltre un anno non partecipava più alle operazioni della crociata. Allora Simone di Montfort e Arnaud Amaury, che operavano in buona armonia, gli chiesero di ottemperare alle promesse fatte a Saint-Gilles, cioè consegnare ai crociati alcuni tolosani sospetti di eresia; al suo rifiuto, Raimondo VI fu scomunicato, sulle sue terre cadde l'interdetto e cominciò l'invasione dei suoi territori. Raimondo VI ricorse allora al papa che, pur riconoscendone la mancanza, non se la sentì di spodestarlo, per cui fermò l'avanzata dei crociati e decise di sottoporre Raimondo ad un giudizio di una corte di tre membri (tra cui due legati pontifici). Nel frattempo intervenne nella contesa il cognato di Raimondo, il re d'Aragona Pietro II (già preoccupato che la crociata si stava interessando ai suoi sudditi, i conti di Foix e di Comminges) a perorare la causa del conte di Tolosa, per le usurpazioni che aveva dovuto subire. I legati convocarono a Lavaur un sinodo, dove Raimondo dovette discolparsi dell'omicidio di Pietro di Castelnuovo. Respinte tutte le giustificazioni di Raimondo, nonostante le proteste di Pietro d'Aragona e l'ordine di Innocenzo III ad Arnaud Amaury (divenuto vescovo di Narbona) di interrompere la crociata e dirottarla contro i Mori di al-Andalus, la conquista non poté essere fermata. Allora il re d'Aragona, Pietro II, minacciato di scomunica dai legati pontifici per aver difeso Raimondo VI a Lavaur, decise, dopo aver invano rivolto un appello a Papa Innocenzo III, di scendere in campo contro i Crociati, a capo di una coalizione formata dai conti di Tolosa di Foix e di Comminges e dal visconte di Béarn; il re d'Aragona dichiarò guerra a Simone di Montfort, ma il 12 settembre 1213, nella battaglia di Muret, non solo venne sconfitto, ma perse anche la vita. Non solo Tolosa fu conquistata da Simone, ma anche parte della Provenza. Il re di Francia Filippo Augusto intervenne per salvaguardare gli interessi, inclusa la signoria di Montpellier, dell'erede di Pietro II, Giacomo I d'Aragona, un bambino prigioniero di Simone. Di fatto, con il 1214 le operazioni militari di questa prima fase avevano avuto termine. Nel novembre 1215 Raimondo VI di Tolosa fu a Roma a perorare la propria causa davanti al Concilio Lateranense IV, che condannò l'eresia dei catari (inerente alla Trinità, alla malvagità del creato "prigione dello spirito" e sessualità e procreazione ritenute condizioni di immersione nell'impurità) ed appoggiò incondizionatamente la crociata. Simone di Montfort fu riconosciuto conte di Tolosa, mentre le pretese del re di Francia di rendere sua vassalla la contea di Tolosa andarono deluse. Inoltre, al Concilio Lateranense furono tolti a Raimondo VI anche i territori che egli possedeva entro i confini dell'Impero, che furono assegnati a colui che aveva guidato la crociata, Simone di Montfort, senza consultare l'Imperatore Ottone IV, che, dopo il disastro di Bouvines dell'anno prima, si era ritirato nei suoi feudi. L'Impero in Provenza subì un duro colpo, perché i feudi imperiali perduti da Raimondo VI nel 1215 vennero poi ceduti definitivamente alla Francia con il trattato di Parigi del 1229 fra la Corona francese e il nuovo conte di Tolosa Raimondo VII. Comunque a Raimondo VI, privato dei suoi possedimenti, fu assegnata una rendita annua di 400 marchi d'argento ed i territori non ancora conquistati dai crociati, sarebbero stati conservati dalla Chiesa e consegnati al figlio di Raimondo VI, anche lui di nome Raimondo, al raggiungimento della maggior età. Lo stesso trattamento fu riservato ai conti di Foix e di Comminges. Le terre conquistate in questo periodo furono perse ampiamente tra il 1215 e il 1225 in una serie di rivolte. Nel 1216 Raimondo VI di Tolosa rientrò nella Linguadoca-Rossiglione, fomentando una nuova rivolta contro le forze occupanti dei baroni crociati. Nel 1217 Raimondo VI rioccupò Tolosa, prontamente rimessa sotto assedio da Simone IV di Montfort, il quale però morì l'anno seguente sotto le mura della città, colpito da un proiettile lanciato da un mangano. A Simone succedette il giovane figlio, Amalrico (1195-1241), che non si dimostrò un avversario all'altezza del conte di Tolosa, Raimondo VI. Il fronte crociato cominciò a sfaldarsi e nel 1221 Fanjeaux e Montréal furono riprese, con molti cattolici costretti all'esilio. Raimondo VI morì l'anno seguente e nel 1223 anche il suo antagonista Filippo II scese nella tomba, così per un paio d'anni la situazione rimase stabile. La situazione mutò nuovamente a seguito della disponibilità all'intervento nella crociata, data, nel 1223, dal nuovo re di Francia, Luigi VIII, e che, dopo i grandi concili di Parigi e di Bourges, ottenne la scomunica del nuovo conte, Raimondo VII, figlio di Raimondo VI, e lanciò la crociata nel 1226, radunando l'esercito a Lione, si diresse a Tolosa passando da Avignone (assediata e conquistata), Béziers e Carcassonne e le aree prima perdute vennero riconquistate e tutta la regione fu ai suoi piedi. In ottobre a Pamiers, Luigi VIII dichiarò che tutte le terre conquistate agli eretici appartenevano di diritto alla corona di Francia e organizzò la Linguadoca come un dominio della Francia. A trarne però i frutti fu Luigi IX, succeduto al padre, morto prematuramente, nel 1226; Luigi VIII morì infatti nel novembre di quell'anno ed i suoi sforzi contro gli albigesi vennero proseguiti dal successivo sovrano, il figlio Luigi IX il Santo, che difese gli interessi della Francia nella contesa con la chiesa ed il conte di Tolosa. Nel 1228 vi fu l'ennesimo assedio di Tolosa, che si concluse con la presa della città e la distruzione delle sue fortificazioni. Nel 1229 i principali antagonisti giunsero ad un compromesso. La contea di Tolosa ed il marchesato di Provenza, privata dei territori del ducato di Narbona e della viscontea di Nimes, rimasero al conte Raimondo VII, però vassallo della Francia, con l'impegno di maritare la sua unica erede, Giovanna al fratello del re Luigi IX, Alfonso. Raimondo VII rimase neutrale quando Raimondo Trencavel, figlio del defunto visconte di Béziers e Carcassonne Raimondo Ruggero Trencavel, rifugiato in Aragona e scomunicato dal 1227, passati i Pirenei con una banda di Catalani, cercò di sollevare la Linguadoca contro il re di Francia, occupò Carcassonne, ma non conquistò la cittadella, che resistette ai suoi attacchi dal 17 settembre al 10 ottobre 1240, per poi fuggire alla notizia dell'arrivo dell'esercito reale. La reazione contro gli insorti anche cattolici fu molto dura. Quando invece, il 12 maggio 1242, Il re d'Inghilterra Enrico III sbarcò a Royan, Raimondo VII si affrettò ad occupare Narbona e Bèziers, ma dopo la ritirata di Enrico III da Saintes, i rivoltosi si demoralizzarono: il conte di Foix abbandonò la coalizione antifrancese e Raimondo, minacciato di scomunica, supplicò il re Luigi IX che gli concesse il perdono in cambio della promessa di combattere l'eresia e attenersi al trattato di Parigi del 1229. I nobili della provincia erano ridotti in miseria e di conseguenza il catarismo che da loro traeva risorse a poco a poco si spense. Ai baroni del Sud e ai càtari rimanevano due fortezze: l'imprendibile Montségur e Queribus. Successive operazioni portarono nelle mani regie la prima nel 1244 e la seconda nell'agosto del 1255, ponendo fine al catarismo e all'indipendenza dei baroni meridionali. Papa Gregorio IX, per sopprimere il catarismo, instaurò nella città l'Inquisizione, che operò fino al 1255 e, nel 1230, creò un'università (Studium Generale), sempre a Tolosa, come manovra per combattere l'eresia. Nel 1237, Gregorio IX conferì il diritto a chi avesse conseguito la laurea allo Studium Generale di Tolosa ad insegnare ovunque, senza altri esami.
Il conte Raimondo VII di Tolosa era personalmente favorevole ad una politica di tolleranza, ma i legati papali e i vescovi lo minacciavano di scomunica a ogni accenno di tiepidezza nelle questioni religiose e lo obbligavano a emanare editti contro l'eresia, obbligandolo ad accettare l'Inquisizione all'interno dei suoi stati; l'Inquisizione fu implacabile non solo con i Catari ma anche con i cattolici tolleranti. Gli abitanti del Sud della Francia oltre all'Inquisizione dovettero subire le angherie dei siniscalchi e dei loro vicari, soprattutto nelle zone di Beaucaire e Carcassonne.

Fonte: Wikipedia

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