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La Grande Storia dei Cavalieri Templari

Creati per difendere la Terrasanta a seguito della Prima Crociata i Cavalieri Templari destano ancora molto interesse: scopriamo insieme chi erano e come vivevano i Cavalieri del Tempio

La Grande Leggenda dei Cavalieri della Tavola Rotonda

I personaggi e i fatti più importanti del ciclo arturiano e della Tavola Rotonda

Le Leggende Medioevali

Personaggi, luoghi e fatti che hanno contribuito a conferire al Medioevo un alone di mistero che lo rende ancora più affascinante ed amato. Dal Ponte del Diavolo ai Cavalieri della Tavola Rotonda passando per Durlindana, la leggendaria spada di Orlando e i misteriosi draghi...

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sabato 7 marzo 2015

AMORE E MORTE NELLA FIRENZE DE' MEDICI E DI SAVONAROLA

"Non temere il mio mistero, e ascoltami. Nel lungo tempo della mia attesa, cieca e muta, mi sono nutrita soltanto di parole, parole pronte ora a sciogliere quel silenzio che fu la mia condanna. Non ho altre frecce al mio arco... ma se una sola di esse, una sola, scoccata con mira sicura, trapasserà il tuo cuore, allora non ti avrò atteso invano."

Con queste parole la misteriosa Donna dell'Affresco invita il Visitatore ad ascoltare la storia che si accinge a raccontare. L'anno è il 1486, il luogo di una Firenze scarna, appena accennata con pochi, inconfondibili elementi - l'Arno, piazza della Signoria, San Lorenzo. Si tratta di una Firenze autentica, e al tempo stesso pervasa da un'atmosfera magica in sintonia con la storia narrata. L'amore tra la nobildonna Bianca e l'irrequieto Guido nasce nello splendore della Signoria medicea, e s'intreccia poi con l'eresia, quella del Savonarola. Egli è l'inquietante protagonista di un momento di storia fiorentina, che fa da sfondo alle vicende dei due amanti e ne costituisce l'elemento risolutore. Ma non è ancora finita... e al Visitatore-lettore sarà riservata la più incredibile delle sorprese. Una storia fiorentina fu il mio primo romanzo breve a carattere storico, pubblicato nel 1990 dalla casa editrice Firenze Libri in seguito alla vincita di un concorso a carattere nazionale. Nell'ambito del mio blog è stato poi ripubblicato come storia a puntate. Domani è l'8 marzo Giornata Internazionale della Donna, una ricorrenza che, progressivamente, è stata svuotata del suo significato originario per diventare una festa commerciale come tante altre, dove regalare alle donne mimose e cioccolatini, e mettersi la coscienza a posto. La stessa origine della ricorrenza è incerta: l'8 marzo ricorderebbe la morte di centinaia di operaie nel rogo di una fabbrica di camicie Cotton o Cottons avvenuto nel 1908 a New York, o, molto più probabilmente, la giornata sarebbe collegata alla tragedia del 25 marzo 1911, cioè l'incendio della fabbrica Triangle nella quale morirono 146 lavoratori (123 donne e 23 uomini), in gran parte giovani immigrate di origine italiana ed ebraica. Ho pensato di fare la mia parte e, come omaggio per tutte le mie lettrici, ma anche i miei lettori, di ripubblicare l'opera nella sua interezza come pdf gratuito. Non è un caso se ho scelto l'immagine della Muta di Raffaello come copertina del romanzo. Dedico infatti questa storia d'amore e di morte anche a tutte le donne che, nei secoli, non ebbero voce alcuna, e che costituiscono la stragrande maggioranza: donne vessate sia fisicamente che spiritualmente, stuprate e vendute sotto le forme più varie, costrette a partorire figli su figli, a morire di fatica nei campi e nelle fabbriche, e che mai ebbero la possibilità di scegliere veramente il loro destino e dar voce alle loro emozioni più profonde. Tutte realtà ancora tragicamente presenti in moltissimi luoghi della terra, spesso a due passi da casa nostra. Oppure donne che, a volte, scambiarono la gelosia e la brutale forza dell'uomo per amore: un equivoco che, come le cronache testimoniano, è ancora oggi di drammatica attualità.

Potete dunque scaricare il romanzo come pdf gratuito accedendo al seguente link su lulu.com.

Articolo di Maria Cristina Cavaliere del sito Il Manoscritto Medievale. Diritti Riservati.

lunedì 16 febbraio 2015

"LA COLOMBA E I LEONI - LA TERRA DEL TRAMONTO" LIBRO DI MARIA CRISTINA CAVALIERE

Si è svolta venerdì 16 gennaio presso l'Enoteca Letteraria Archeologica e Barocca di via delle Quattro Fontane a Roma, la presentazione del libro di Maria Cristina Cavaliere intitolato "La Colomba e i Leoni - La Terra del Tramonto". Ha moderato la discussione Emiliano Amici di Sguardo Sul Medioevo. La serata è stata molto piacevole anche perchè il testo di Maria Cristina Cavaliere è estremamente attuale; abbiamo fatto un rapido accenno ai templari e al contesto storico e culturale in cui il testo è ambientato.

Quarta di copertina

Nell’anno di Nostro Signore 1095, corrispondente all’anno dell’Egira 488, e dopo l’appello di papa Urbano II, gli eserciti dei principi cristiani si preparano a fluire da ogni parte d’Europa per mettere a ferro e fuoco il Vicino Oriente in nome della fede. Le esistenze di diversi personaggi, nemici per razza e religione, sono così destinate a intrecciarsi in maniera indissolubile. Un vecchio medico e seguace sufi parte dai pressi di Damasco per recarsi nella “terra dove il sole tramonta”, il lontano Marocco, e iniziarvi una missione singolarissima. Il cavaliere fiammingo Geoffroy de Saint-Omer è costretto ad abbandonare tra i normanni di Sicilia il suo unico, adorato figlio. Un irrequieto principe e cacciatore di leoni chiede allo zio, sovrano dell’impero musulmano almoravide, una nave per assaltare e saccheggiare le coste dei cristiani nel Mediterraneo. Passato, presente e futuro di popoli e individui scorrono in un unicum inscindibile, sotto lo sguardo sofferente di un giovane schiavo con una maschera d’oro sul volto. Pur tormentato dalle visioni, anch’egli si prepara ad affrontare il suo orgoglioso Amir. Sarà uno scontro dove combatteranno fra loro l’ultima, la più dolorosa delle battaglie; e dove sarà rivelato il più terribile dei segreti.



Estratto dal romanzo – Dopo la presa di Gerusalemme avvenuta nel 15 luglio 1099 da parte degli eserciti crociati, i musulmani cercano di riorganizzarsi. Tra loro, è il principe maghrebino Ghassan ibn Rashid. Sulla piana di Ascalona, all’alba l’accampamento musulmano è colto di sorpresa da un attacco improvviso.


La terra del tramonto. La colomba e i leoni. Vol. 1D’un tratto, dalla nuvola di polvere grigiastra da cui erano emersi gli arcieri, dissoltisi nel frattempo, cominciarono a provenire sordi grugniti d’animali e, prima che il giovane potesse rendersi conto di quel che accadeva, una nuova compagine, stavolta armata di corna e zoccoli, ne emerse come una valanga. Mandrie di cavalli, bovini, greggi di pecore e capre, in un concerto assordante di muggiti, grugniti, belati, in uno scalpitio infernale di zoccoli, si precipitarono a testa bassa contro i musulmani. Il giovane guerriero comprese al volo l’astuzia dei cristiani, che avevano liberato contro di loro il frutto di razzie precedenti: mandrie di cui avevano massacrato, o preso prigionieri, i pastori. Ghassan si vide sfilare ai lati tori e capre, che galoppavano come impazziti, e prese a mulinare la spada a destra e a sinistra per allontanare i capi più grossi e possenti, quelli che minacciavano di infilzare con le corna la pancia del suo cavallo, per rovesciarlo e calpestarlo insieme con lui. Aveva, nondimeno, l’occhio fisso su quella nuvola torbida e opaca, come in attesa d’una rivelazione: l’esercito nemico era ormai vicinissimo e l’impatto imminente. Il destriero scartò di lato, e il giovane lo trattenne, stringendo la briglia al petto, mentre, all’intorno, i compagni ancora erano intenti a schivare la mandria impazzita. Molti erano già appiedati, e si stringevano tra loro, spalla a spalla, a reggere l’urto di quella furia, i piedi invischiati nell’impasto di polvere mista a sangue degli animali caduti, le spade levate a compierne scempio. Furono quindi i suoi occhi a scorgere per primi l’esercito invasore. Lo vide emergere come da una visione, indistinto nella nuvola di polvere e calore, le armature opache, coperte da quel velo impalpabile, mentre a tratti, dagli scudi, bagliori si levavano, accecandolo. Li scorse mentre avanzavano compatti, i fanti innanzi a tutti, la cavalleria ai lati; e, in lontananza, due ali si disegnavano indistinte, rivelate solo da fiochi baluginii. Levò la mano ad allontanare il riverbero, il cavallo che s’impennava, furente. Poi il suo sguardo spazzò la piana e, finalmente, li scorse con chiarezza. Vide lunghe chiome fluenti, barbe dorate, carnagioni color latte o arrossate dal sole; e lo scintillio delle lame, le croci cucite sul petto e sui mantelli. Cavalcavano al seguito di quelle mandrie di animali, da essi stessi liberati, con moto leggero, quasi elegante, come se, a causa di quella nuvola di polvere cinerina, essi non poggiassero gli zoccoli dei cavalli, o dei calzari, sulla terra, ma avanzassero sopra un tappeto invisibile e compatto che li sosteneva a un palmo dal suolo. Sembravano aerei, allegri, come impazienti di partecipare a una danza, e Ghassan intravide i loro occhi chiari, sotto gli elmi, e gli parvero appartenere a creature ultraterrene. Lo sgomento lo attraversò con un lungo brivido… e in quel momento avvenne l’impatto, con il fragore di mille fulmini e tuoni che si abbattono tra le foreste e contro il fianco di una montagna.

BookTrailer



domenica 15 febbraio 2015

"IL PITTORE DEGLI ANGELI" - NUOVO LIBRO DI MARIA CRISTINA CAVALIERE

Il Pittore degli AngeliL’azione inizia a Venezia nel 1560, sul finire di un secolo devastato da guerre e grandi cambiamenti storici e religiosi. In quel tramonto, il pittore veneziano Tiziano Vecellio è colto nel suo studio, davanti all’abbozzo di una tela, “intento ad osservare, con gli occhi del viso e della mente, in piedi e con le braccia incrociate sul petto, ciò che aveva steso a gran colpi di pennello, come se avesse un nemico capitale dinnanzi”. L’autoritario, disincantato Maestro, ormai settantenne, attende la visita di un misterioso artista di nome Lorenzo che, appena giunto a Venezia, ha già molto fatto parlare di sé ed è stato soprannominato il pittore degli angeli per la maestria con cui dipinge le creature ultraterrene. In lui Tiziano percepisce un pericolo per la sua fama e, di conseguenza, la sua ricchezza, così faticosamente conquistate al servizio di principi, papi, nobili. Oltre ad eccellere nel suo campo, egli è soprattutto un uomo di potere, che esercita in maniera occhiuta grazie ad una rete di relazioni sociali e politiche intessute nella sua città d’adozione. Il pittore degli angeli si presenta, rivelandosi come un giovane talentuoso, ma povero, illetterato, ingenuo. Non sembra essere, Lorenzo, il rivale tanto temuto. Il potente Tiziano s’affeziona, lo prende sotto la sua ala protettrice: gli schiude numerose porte, gli fa avere importanti commesse, agevola il suo sentimento per Caterina, la fanciulla muta figlia di un mercante. Lorenzo, difatti, non possiede solo l’eterea dolcezza degli angeli che dipinge, ma è anche bellissimo come loro, e l’affetto paterno del Maestro si colora di venature erotiche. Lorenzo il pittore degli angeli non è, però, ciò che sembra… ed è il custode di segreti sconvolgenti e di un passato terribile, rimosso nelle profondità della sua mente. Così, ancora una volta l’infallibile intuito di Tiziano ha colto nel segno: l’arrivo del giovane, difatti, sarà destinato a stravolgere la vita artistica ed affettiva del pittore e dell’uomo e ne ribalterà le acquisite certezze. In un crescendo drammatico a colpi d’arte suprema, accanita rivalità, irruzioni del trascendente, il duello tra Tiziano e Lorenzo si sposterà da Venezia a Bergamo, e poi ancora a Venezia, fino all’inatteso, doppio finale che concluderà la partita.




Estratto del testo - Tiziano vede la Perfezione. L’ira del Maestro.

S’era recato alla chiesa dei Crociferi, vicinissima a casa sua, di proposito, poiché aveva appreso per bocca dello stesso Lorenzo che il Priore del monastero gli aveva commissionato una pala d’altare, e che egli stava ultimandola. “Sarebbe la prima volta che lo vedo dipingere sul luogo,” aveva pensato il Maestro, “e, a voler esser sinceri, delle sue tele vidi solo quella piccola Natività che mi portò quando venne a San Canciano. Vediamolo, dunque, all’opera,” e il fatto che, fra qualche giorno, la pala sarebbe stata terminata, e l’occasione sarebbe dunque sfumata, lo aveva portato ad uscir di casa senza altri indugi.
“V’è qui il giovane che chiamano il ‘pittore degli angeli’,” gli disse, infatti, il Priore, che, saputo del suo arrivo, si era fatto incontro con sollecitudine nella penombra della chiesa. “Si trova in sagrestia, a terminare una pala d’altare che gli abbiamo commissionato,” confermò, e Tiziano si dispose, lietamente, a far visita a Lorenzo, per osservarlo mentre lavorava, ma anche colmarlo delle sue attenzioni. Avanzò in solitudine lungo la navata di sinistra, passando di penombra in penombra, fino ad arrivare alla soglia della sagrestia e, là, arrestarsi dinnanzi alla scena che gli si presentava. Davanti ai suoi occhi e al centro della stanza, erano il pittore e la sua tela, e la luce, che spioveva dalla finestra della sagrestia, tagliando nettamente l’ombra, li eleggeva entrambi. Non visto, Tiziano osservò a lungo il profilo del giovane pittore e notò ch’egli dipingeva con gesti lenti, rallentati, eppure sicuri, soffermandosi con lo sguardo sull’immagine sacra che andava dipingendo, con amorosa attenzione, poi abbassandolo sulla tavolozza che reggeva con la mano sinistra, e qui immergeva il pennello nel colore ed il suo capo si chinava, sostava come fosse assorto, indorato dalla luce, posata su di lui come una carezza, poi lo rialzava verso la tela: dipingeva come se pregasse. Della tela non riusciva a scorgere che una chiazza di colore, posta com’era di sghembo rispetto a lui, e qui Tiziano mise un piede avanti per entrare ed esaminarla da vicino… e per un attimo, un attimo soltanto, Lorenzo volse il capo in direzione della soglia, forse a causa d’un rumore che l’inatteso visitatore aveva prodotto; ma, fosse stato per l’ombra densa in cui la navata era immersa, o per la luminosità della sagrestia, gli occhi celesti del giovane, abbagliati, sembrarono non scorgere il vecchio Maestro, e si volsero, nuovamente, al lavoro.
Tiziano varcò la soglia, fece pochi passi, ancora inavvertito, andò a mettersi alle spalle di Lorenzo... e rimase pietrificato. Davanti a lui, s’ergeva un’enorme pala d’altare – con una Madonna assisa in trono e il Bambino in grembo, circondata da vescovi e da santi, tutti in grandezza naturale – e, in un lampo, il Maestro incontrò gli occhi della Vergine, neri come un pozzo senza fondo, e tremò da capo a piedi... quegli occhi sembrava possedessero la scintilla della vita, anzi, la Madonna guardava proprio lui, ella respirava... viveva... ! Dio mio, che orrore! Con un urlo strozzato si strappò da quella vista, corse fuori dalla sagrestia, si rifugiò, tremante, dietro un pilastro. Subito, sentì accanto a lui la presenza di Lorenzo, che, accortosi di lui e della sua fuga, aveva posato tavolozza e pennello e gli era andato dietro. “Avete fatto voi quello?” gli sussurrò, sconvolto, Tiziano e, così chiedendo, concitato, gli aveva afferrato il braccio destro e l’aveva stretto con vigore. “Non vi piace?” gli chiese il giovane, invece di rispondergli. “Non v’ha aiutato nessuno? È tutta opera vostra?” chiese ancora, il vecchio Maestro, e sembrando, così, la conversazione, un rimbalzare di domande che si rispondevano. “Sì, è opera mia,” rispose, finalmente, Lorenzo. “La Natività che mi avevate portato era cosa ben diversa. M’avete ingannato!” proruppe d’un tratto, furente, Tiziano. “Vi dissi che era opera di bottega, e che l’avevo fatta quando ero poco più che un bambino,” replicò, stavolta, Lorenzo, “e, nel frattempo, non ebbi modo di mostrarvi altro. V’avevo invitato più volte a venire a casa mia, ma mi diceste che raramente lasciate San Canciano.” Le voci risuonavano, nel silenzio della chiesa, come brevi colpi d’arma da fuoco soffocati, fra l’ombra e la luce delle colonne, l’una concitata e furente, l’altra sbigottita e addolorata, fino a quando, senza più fiato per la collera, il vecchio Maestro volse le spalle al giovane pittore e, con passo incerto, andò verso l’uscita. 
Sentì Lorenzo dire, a voce appena più alta: “Comprendo che non vi piace quel che dipingo, o la maniera con cui dipingo.” In due falcate, allora, il Maestro gli fu di nuovo accanto, e gli afferrò la testa fra le mani, con una violenza ch’era quasi brutalità, come se avesse voluto stritolarla, e avvicinò il volto giovane e dolce al suo viso, che in quel momento era stravolto di rughe e d’ira; poi, con altrettanta violenza, lo lasciò, mandando Lorenzo ad urtare, con la schiena, contro il pilastro, e uscì in fretta dalla chiesa.

Ringraziamo per la condivisione l'autrice Maria Cristina Cavaliere



sabato 14 febbraio 2015

TUTTI A TAVOLA CON I CAVALIERI TEMPLARI

I cavalieri templari sono uno degli ordini cavallereschi più controversi e misteriosi della Storia, e fiumi d’inchiostro sono stati sparsi sia sulla loro irresistibile ascesa in potenza e ricchezza, sia sulla tragicità con cui furono annientati ad opera di Filippo il Bello di Francia. La loro leggenda si mantiene inalterata generando nuovi miti, con altrettanti romanzi e film di vario spessore. Dopo la conquista di Gerusalemme ad opera dei crociati, avvenuta nel 1099, il flusso dei pellegrini cristiani si era molto intensificato. Si necessitava quindi la presenza di un corpo armato che li proteggesse lungo i pericolosi itinerari del tempo. È pur vero che all'epoca della fondazione dell’ordine esistevano altri ordini cavallereschi, ma l'assoluta novità nei templari derivava dal connubio tra due figure contrastanti: quella del religioso che seguiva una regola monastica e contemplativa, e quella del combattente. Il Tacuinum templare redatto da Alex Revelli Sorini e Susanna Cutini, e pubblicato dalla casa editrice Ali&No ci permette di gettare uno sguardo interessantissimo sulla loro alimentazione, quanto mai sana ed equilibrata in un’epoca in cui le classi alte della società feudale si cibavano prevalentemente di carne ed erano sregolate a tavola nel mangiare e nel bere, e ci restituisce il ritratto non solo di rudi guerrieri, ma anche di attenti commensali che seguivano un galateo ante litteram. Il libro si apre con una breve storia dell'ordine, e riprende i punti della Regola relativi all'alimentazione. Suddivise non solo secondo la tipologia di portate, ma anche nelle sezioni dedicate alle precettorie d'Occidente e d'Oriente, le numerose ricette proposte nel libro sono state ricostruite dagli autori sulla base dei punti che si occupavano dell’alimentazione, e degli inventari redatti dai delegati di Filippo il Bello durante l’annientamento dell’ordine. In quanto monaci, i templari mangiavano riuniti nel refettorio della commenda (o casa templare principale), davanti a tavole apparecchiate con una tovaglia bianca, tranne il Venerdì Santo quando mangiavano sul nudo legno in segno di devozione e rispetto. Usavano il cucchiaio per zuppe e minestre, e il coltello per le carni, e prendevano i loro pasti in silenzio, o rivolgendosi l’uno all'altro sottovoce, se necessario, e ascoltando le Sacre Scritture. Anche quando erano in viaggio, dopo aver montato l’accampamento, si recavano alla tenda per la distribuzione dei pasti mantenendo grande ordine. Del resto non è un mistero che i cavalieri templari fossero delle micidiali macchine belliche per compattezza e disciplina, e non fa quindi meraviglia che applicassero la stessa precisione anche nel loro modo di regolare i pasti. A tavola il posto d’onore era destinato al pane, e i templari consumavano legumi come fornitura proteica, pesce d’allevamento se la commenda non sorgeva vicino a corsi d’acqua, verdure fresche dell’orto, frutta dal frutteto o dal bosco, uova dal pollaio, latte e formaggi di loro pecore e capre. Il maiale era tenuto in gran conto, pur limitando al consumo di carne a tre volte alla settimana (in quanto monaci, ma anche guerrieri, la carne era essenziale per la loro dieta). Una curiosità: la caccia era proibita, come da regola monastica. Il vino derivava dai numerosi vigneti dell’ordine. Molto prima di noi, si può ben dire che i cavalieri templari applicassero la sana abitudine del cibo “a chilometro zero”, visto che ogni commenda si sostentava con i prodotti della terra e delle fattorie ad essa sottoposte. Nelle precettorie o commanderie d’Oriente, i piatti erano inoltre insaporiti con le spezie, vero e proprio “oro” gastronomico in Occidente, ma anche con fiori e frutta secca, e risentivano delle influenze della cucina araba. Sembra che l’invenzione della pasta secca, ad esempio, fosse di derivazione islamica per poter conservare la pasta in un clima dove gli alimenti si deteriorano molto rapidamente. Un altro esempio consiste nella ricetta del marzapane per confezionare quei dolci coloratissimi così popolari in Sicilia e la cui parola parrebbe originata dal termine arabo “marzaban” per indicare la scatola di legno contenente il dolce. In conclusione, le ricette proposte sono tutte facilmente sperimentabili e, in questo modo, avremo davvero la sensazione di sederci a tavola con dei commensali vestiti di bianco, la croce rossa sul petto e sulla spalla sinistra del mantello, e la spada al fianco. Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam.  

Buon appetito a tutti!

Articolo di Maria Cristina Cavaliere del blog http://ilmanoscrittodelcavaliere.blogspot.it/
Immagine di copertina tratta dal sito www.alienoeditrice.net

sabato 13 dicembre 2014

SAN BERNARDO, IL GIGANTE DEL XII SECOLO

Autore del libro “Bernardo renovator seculi”, il professor Marco Meschini dell’Università della Svizzera Italiana ha tenuto un'affascinante conferenza il 18 novembre presso il Museo Archeologico di Milano con la collaborazione dell’Associazione Culturale Italia Medievale. Nel corso dell'appuntamento, egli ha invitato il pubblico ad accostarsi alla figura di san Bernardo di Clairvaux, riformatore dell’ordine cistercense, come quella di un autentico gigante del suo tempo. Per convenzione, infatti, il Medioevo è suddiviso dagli storici in Alto e Basso Medioevo, situando l’Alto Medioevo nel segmento temporale che va dal 476 all’anno 1000, o anno cerniera, e il Basso Medioevo dall’anno 1000 al 1492, anno della scoperta dell’America. C’è però la possibilità di tripartire il Medioevo in segmenti di tempo ancora diversi, idea che Meschini fa propria in modo particolare a riguardo della vera “età di mezzo” o Pieno Medioevo, come culmine dell'intero periodo. Avremo dunque:

l’Alto Medioevo                               il Pieno Medioevo                            il Basso Medioevo
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Dal 476 al 1000                                 Dal 1000 al 1300 *                        Dal 1300 al 1492

(*Nel 1300 Bonifacio VIII indice il primo Giubileo.)

Nel Pieno Medioevo accadono fatti cruciali, innanzitutto a livello politico e storico: proprio in Italia assistiamo alla nascita dei Comuni, cioè a quella forma di governo locale che costituisce la prima sperimentazione di autonomia popolare tesa a superare la monarchia – fatto salvo le democrazie greche – e l’avvio delle Crociate di Terrasanta, cioè quei flussi di eserciti che, sulla spinta dei proclami papali, si recavano oltremare per conquistare ampie porzioni di territorio, e che continuano fino al 1291. In questo periodo si sviluppano le realizzazioni più alte dell’ingegno umano, a maturazione di un processo artistico irresistibile: in architettura c’è l’avvento della solida arte romanica prima, e poi la fioritura dell’arte gotica. Nel campo dell’insegnamento e dell’apprendimento, prendono una fisionomia più definita le grandi università europee, come la prestigiosa Schola medica salernitana. Tra le maggiori figure che hanno campeggiato a vario titolo nell'epoca in cui vissero, e che guarda caso nacquero ancora in Italia, sono Francesco d’Assisi a livello religioso e spirituale e Dante Alighieri a livello letterario, politico e poetico. 

Eppure il XII secolo è stato indicato come “il secolo di Bernard di Clairvaux”, meglio noto, anche se in maniera imprecisa, come Bernardo di Chiaravalle. Non quindi Abelardo o Federico Barbarossa, Francesco d’Assisi o Dante Alighieri… ma Bernardo. Chi era veramente Bernardo e perché la sua vita è considerata così straordinaria al punto da intitolargli un secolo?

LA DESCRIZIONE FISICA

Marco Meschini parte dal dato più semplice, cioè la descrizione fisica fornita dai suoi contemporanei, e in particolare osservando il ritratto in una lunetta dell’abbazia di Viboldone riprodotta nella copertina del libro Bernardo renovator seculi. Le testimonianze dei suoi contemporanei raccontano che aveva i capelli rossicci e gli occhi molto azzurri e che era piuttosto basso di statura. Nell’affresco di Viboldone, egli è vestito di bianco, mentre i monaci solitamente vestivano di scuro. Il colore scuro ricorda la terra, che porta con sé l’idea dell’umiltà ma anche della sporcizia. Obiettivo di Bernardo è, invece, evocare con il colore bianco la purezza e la perfezione, come obiettivi del percorso religioso. L’ordine cistercense riformato da Bernardo ci presenta monaci che, per primi, vestono audacemente di bianco. Nella stessa immagine egli impugna il pastorale, nonostante il fatto che non fosse nemmeno un vescovo, ma un abate, ovverosia il capo e il padre di una comunità monacale: un esponente del monachesimo, movimento di derivazione orientale. Il pastorale richiama il simbolo del Buon Pastore, cioè pastore del gregge comunitario. La parola abate deriva da “abbà”, cioè padre in lingua ebraica. Nell’altra mano regge un libro, a indicazione che egli abbia ricevuto il titolo di dottore della Chiesa (fatto avvenuto nel 1830). 

LA VITA

Bernardo nasce in Borgogna nel 1090 da Tescelino, vassallo del duca di Borgogna, ed Aletta, ed è terzo di sette figli, tutti maschi tranne l’ultima, Umbelina. A quattordici-quindici anni, età in cui si era già adulti nel Medioevo, Bernardo studia grammatica e retorica. A diciassette anni, comincia a soffrire di una malattia allo stomaco che lo affliggerà per tutta la vita, con tutta probabilità un tumore. Nel 1113 decide di farsi monaco e chiede di entrare presso il monastero di Cîteaux, fondato quindici anni prima da Roberto di Molesmes e allora retto da Stefano Harding. Roberto era stato il primo monaco della comunità ed era un riformatore, poiché aveva constatato un certo lassismo nella regola seguita dai monaci. Si è monaci, infatti, quando si rinuncia alla propria volontà obbedendo agli ordini, comunque e sempre, e indipendentemente dal livello spirituale del proprio superiore. Il fatto che Bernardo decida di farsi monaco non ha nulla di straordinario in sé, ma il fatto davvero fuori dal comune è che è riuscito a convincere, e quindi a portare con sé, una trentina di persone, tra cui amici, conoscenti, parenti, i suoi stessi fratelli. I monaci di Cîteaux erano pochissimi, così l’arrivo di queste persone diventa davvero provvidenziale. 

Nel 1115 Bernardo fonda Clairvaux, di cui rimarrà sempre abate. Tra il 1130 e il 1139 c’è uno scisma nella Chiesa, e a contrapposizione tra due Papi: Papa Innocenzo II e l’antipapa Anacleto. Bernardo sposa il partito di Innocenzo II e si mette in viaggio per arrivare in Italia, pur non amando allontanarsi da Clairvaux e, in genere, viaggiare. Si chiude lo scisma con la morte di Anacleto, tuttavia viene nominato un nuovo antipapa, Vittore IV. Bernardo va a Roma da Vittore, si chiude con lui per l’intera notte in una stanza e, il giorno dopo, Vittore si fa da parte e depone la tiara. Nel 1140 c’è lo scontro con Abelardo, che era un altro genio della dialettica, occupatosi del mistero trinitario ed accusato di eresia. Viene chiamato Bernardo perché l’unico in grado di affrontarne l’eloquenza, tuttavia Bernardo convoca i vescovi prima che lo scontro avvenga e fa condannare Abelardo abusando del suo potere (a riprova che anche i santi hanno le loro pecche!). Nel 1145 incomincia la Seconda Crociata dove però si arruolano poche centinaia di persone. Il Papa chiede allora a Bernardo di predicare, ed è tale il successo che ne partono in moltissimi. Tuttavia la crociata, dal punto di vista bellico, si rivelerà un insuccesso clamoroso.

Nel 1153 Bernardo muore a 63 anni, probabilmente a causa del male che lo ha afflitto per tutta la vita. Pochi anni dopo, cioè nel 1174, Bernardo viene canonizzato.

LE ABBAZIE CISTERCENSI


Dall’abbazia di Clairvaux gemmano in brevissimo tempo altre figlie, e impressionante è vedere come in poco tempo in tutta Europa sono fondate moltissime altre abbazie cistercensi. Alla morte di Bernardo nel 1113 si contano ben 345 abbazie (da tener conto che ogni abbazia doveva avere come minimo un abate e dodici monaci) per un totale di circa 10.000 monaci.

GLI SCRITTI DI BERNARDO

Bernardo è un autore molto prolifico e dotato di grande eloquenza al punto da essere chiamato “il dottore mellifluo” (che stilla, emana dolcezza, secondo l'etimologia) nell'enciclica di Papa Pio XII del 1953: "Il dottore mellifluo ultimo dei padri, ma non certo inferiore ai primi, si segnalò per tali doti di mente e di animo, cui Dio aggiunse abbondanza di doni celesti, da apparire dominatore sovrano nelle molteplici e troppo spesso turbolente vicende della sua epoca, per santità, saggezza e somma prudenza, consiglio nell'agire." Scrive ininterrottamente dal 1118 al 1154. 

Tra le sue opere più famose sono: Grazia e libero arbitrio, Le lettere contro Pietro Abelardo, Il dovere di amare Dio, Sermoni sul Cantico dei Cantici, Elogio della nuova cavalleria. De laude novae militiae (in cui prende le parti del nuovo ordine religioso-cavalleresco del Tempio, meglio noto come ordine templare), De cura rei familiaris.


In particolare, nel 1118 scrive Sermoni in lode della Vergine dove per la prima volta propone la Madonna come madre di Dio e quindi madre dell’umanità. Bernardo introduce il concetto che noi siamo fratelli e quindi figli di Dio, cioè della Madonna, con riferimento alla scena nel Vangelo di Giovanni in cui Cristo sulla croce indica Giovanni evangelista come figlio di Maria e Maria come madre di Giovanni. 

La Madonna è venerata da Bernardo perché ci porta Cristo e come intermediaria tra terra e cielo. Senza la sua intercessione, infatti, e con le sole forze umane poco o niente si può ottenere. Nel XXXIII canto del Paradiso di Dante, infatti, è lo stesso Bernardo a rivolgersi alla Vergine affinché interceda, e Dante possa cogliere la visione di Dio, con la bellissima preghiera che inizia con le parole: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creature, / termine fisso d’etterno consiglio. Tu se' colei che l'umana natura / nobilitasti sì, che 'l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura. / Nel ventre tuo si raccese l'amore, / per lo cui caldo ne l'etterna pace / così è germinato questo fiore.”

IL MISTICO

Nell’opera Sul dovere di amare Dio Bernardo prova a spiegare l’ineffabile esperienza mistica attraverso quattro fasi, ovvero i quattro gradi dell’amore. Nel pensiero medievale la scala è un simbolo importante, come del resto le gerarchie, che non venivano però vissute in senso oppressivo come nel pensiero moderno, ma come strumento per elevarsi. Meschini invita a cercare la parola “autorità” nell’enciclopedia Treccani, e a leggere la riflessione di Augusto del Noce, tra cui anche il fatto che “auctoritas derivi infatti da augere, ‛far crescere'. Per comune origine etimologica è connesso con i termini Augustus (colui che accresce), auxilium (aiuto che viene dato da una potenza superiore), augurium (termine anch'esso di origine religiosa: voto per una cooperazione divina all'accrescimento).” Molto interessante è anche leggerla per capire il tramonto del concetto di autorità nel Novecento, compresa quella paterna.

Bernardo ci parla quindi dell’Amore, e nel Diligendo Deo al capitolo XV ci dice che:

1 L’uomo si ama per me stesso: "... bisogna che il nostro amore cominci dalla carne. Se poi è diretto secondo un giusto ordine, [...] sotto l'ispirazione della Grazia, sarà infine perfezionato dallo spirito. Infatti non viene prima lo spirituale, ma ciò che è animale precede ciò che è spirituale. [...] Perciò prima l'uomo ama se stesso per sé [...]. Vedendo poi che da solo non può sussistere, comincia a cercare Dio per mezzo della fede, come un essere necessario e Lo ama."

Questo è il grado più primitivo dell’amore, quello che tutti sperimentiamo, e che però porta al ripiegamento come fanno gli animali a quattro zampe con lo sguardo sempre fisso al suolo.

2 L’uomo ama Dio per sé: "Nel secondo grado, quindi, ama Dio, ma per sé, non per Lui. Cominciando però a frequentare Dio e ad onorarlo in rapporto alle proprie necessità, viene a conoscerlo a poco a poco con la lettura, con la riflessione, con la preghiera, con l'obbedienza; così gli si avvicina quasi insensibilmente attraverso una certa familiarità e gusta pura quanto sia soave."

Questo passaggio successivo chiama in causa Dio, cui però ci si rivolge perché accordi dei benefici, come fosse una sorta di mercato. Rimane un retrogusto egoistico in questo tipo di rapporto.

3 L’uomo ama Dio per Dio stesso: "Dopo aver assaporato questa soavità l'anima passa al terzo grado, amando Dio non per sé, ma per Lui. In questo grado ci si ferma a lungo, anzi, non so se in questa vita sia possibile raggiungere il quarto grado." 

Finalmente l’uomo ama Dio in quanto forza emanante puro amore, che dona gratuitamente. Ma non è ancora finita, c’è un passaggio ulteriore che chiude il cerchio e che, secondo lo stesso Bernardo, è molto difficile raggiungere in questa vita.

4 L’uomo ama se stesso per Dio: "Quello cioè in cui l'uomo ama se stesso solo per Dio. [...] Allora, sarà mirabilmente quasi dimentico di sé, quasi abbandonerà se stesso per tendere tutto a Dio, tanto da essere uno spirito solo con Lui. Io credo che provasse questo il profeta, quando diceva: "-Entrerò nella potenza del Signore e mi ricorderò solo della Tua giustizia-". [...]"

Poiché Dio è ovunque, anche nell'uomo, ne consegue che vivere questa esperienza d’amore è essere deificati.

Dopo questa affascinante conferenza di Marco Meschini, purtroppo interrotta sul più bello per tempo scaduto, rimane l'esigenza di approfondire la figura di questo santo, in special modo la sua opera Sul dovere di amare Dio e i gradi dell’amore mistico.

Articolo di Maria Cristina Cavaliere del blog Manoscritto Medievale

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Bibliografia e link: 
San Bernardo renovator seculi – a cura di Marco Meschini – ANCORA ITACA·
Lettere ai monaci dell’abbazia di St Bertin – Bernardo di Chiaravalle – MARIETTI 
La famiglia che raggiunse Cristo – La saga di Cîteaux – Padre M. Raymond – EDIZIONI SAN PAOLO
http://www.treccani.it/enciclopedia/autorita_%28Enciclopedia_del_Novecento%29/

venerdì 21 marzo 2014

LA MAGIA DEI BESTIARI MEDIEVALI TRA DRAGHI, CIVETTE ED UNICORNI

Anche se la moderna zoologia ha dissolto gran parte del loro mistero, gli animali rimangono le creature favolose per eccellenza, sia che essi siano compagni nelle nostre abitazioni, come il gattone domestico che si acciambella sui nostri piedi facendo le fusa, o la scimmia che ci scruta, curiosa, dopo essere stata immortalata dalle nostre videocamere nella foresta equatoriale. A maggior ragione ciò avviene per gli animali nel Medioevo, quel periodo che lo studioso francese Jacques Le Goff, in una recente intervista, considera come un lungo travaglio destinato al parto dell’uomo moderno, fino a inglobare il Rinascimento e arrivare alle soglie dell’Illuminismo e della Rivoluzione Francese. Nel Medioevo gli animali sono protagonisti dei cosiddetti  bestiari, opere che riscuotono grande successo nel XII e XIII secolo, specie in Francia e in Inghilterra. Si tratta di compilazioni spesso miniate, il cui scopo è descrivere le proprietà di un certo numero di bestie, secondo quel che si conosce o si immagina, onde trarne insegnamenti morali o religiosi. Il capostipite dei bestiari è il Physiologus del II secolo d.C. seguito da alcuni estratti della Storia naturale di Plinio (I secolo), della Collectanea rerum memorabilium di Solino (III secolo) e delle Etimologie di Isidoro di Siviglia. Dal XIII secolo in poi si diffondono i bestiari in prosa volgare, come quello attribuito al monaco Pierre de Beauvais. Famoso e affascinante perché "fuori dal coro" è il Bestiaire d’Amours di Richart de Fornival che, a differenza degli altri, tesi a fornire insegnamenti edificanti, si serve degli animali per disquisire sull'amore e sulle pene causate dalla crudele donna amata. Nel bel saggio illustrato di Michel Pastoureau, Bestiari del Medioevo, l’autore ci conduce alla scoperta sì degli animali, ma soprattutto dello sguardo con cui l’uomo medievale li considera. Contrariamente a quanto si possa pensare, infatti, l'uomo dell'epoca sa osservare molto bene la fauna, e sarebbe in grado di riprodurla con precisione, ma alla sensibilità di allora non interessa la raffigurazione di tipo naturalistico, bensì indagare il significato riposto, per arrivare così alla verità. Lo stesso nome con cui viene chiamato l’animale racchiude una senefiance, un "significato" secondo un'antica parola francese, cui si arriva non attraverso l’etimologia odierna, ma compiendo percorsi a volte tortuosi e che ci potrebbero far sorridere. 
Pastoureau ci ricorda a più riprese, tuttavia, di non alzare troppo il sopracciglio di fronte alle conclusioni sui si arrivava all'epoca, perché anche agli zoologi del futuro certe nostre convinzioni sembreranno ingenue e datate. E uno dei più grandi errori è sempre quello di voler utilizzare lo stesso metro di giudizio per misurare questioni storiche differenti. Già, ma com'è questo sguardo così diverso dal nostro? Secondo il pensiero dominante di allora, l’animale è considerato un essere impuro e inferiore, al punto che diventa uno strumento per poter spiegare concetti, prestarsi a metafore di ogni tipo e ammantarsi di simboli. Molto spesso, difatti, gli animali del Medioevo hanno un significato che può essere positivo, o anche negativo a seconda dell'uso che se ne fa. Lo stesso leone, ad esempio, di solito è visto come modello positivo perché associato a Cristo; nell'accezione negativa, invece, rappresenta la superbia, la lussuria, la prepotenza. La seconda corrente di pensiero riprende, invece, il passaggio di una Lettera ai Romani di San Paolo, in cui egli afferma che essi sono “figli di Dio” e che Cristo è venuto sulla terra per salvare tutti quanti, loro compresi. A partire da questo scritto, teologi e dotti iniziano un dibattito accanito sulla vera natura degli animali: se possano resuscitare dopo la morte, ad esempio e, in questo caso, dove vadano; e se siano passibili di responsabilità esattamente come gli esseri umani, al punto da istituire veri e propri processi contro alcuni di loro. Sia che fossero considerati esseri inferiori, sia che si sospetti abbiano una natura molto simile alla nostra, bistrattati, ammirati o temuti, gli animali hanno sempre goduto di una posizione di preminenza nell'immaginario medievale. Possiamo quindi figurarci nelle abbazie lunghe file di monaci chini a lavorare nello scriptorium, o laboratorio dove si ricopiano i libri, per preparare queste preziose opere, i bestiari. E, com'è ovvio, anche i materiali con cui sono confezionati questi volumi derivano dal mondo animale: la carta è la costosa pergamena ricavata dalla pelle di pecora, a volte di capra o vitello. Quasi sempre i volumi sono splendidamente miniati con l’uso di penne d’oca, anatra, cigno, airone o corvo, e per dipingere gli animali raffigurati sono stati usati pennelli fatti con peli di scoiattolo, castoro, martora, tasso, setole di maiale per le spazzole, denti di lupo per levigare i fondi oro. Persino nei pigmenti per i colori possono esservi prodotti ricavati dal mondo animale, come molluschi per tingere, e collanti di origine animale e casearia. Gli animali proposti sono suddivisi in alcune categorie scientifiche, che però spesso non sono le nostre: ci sono quindi i quadrupedi selvatici, i quadrupedi domestici, gli uccelli, i pesci e le creature acquatiche, i serpenti e i vermi (in questi ultimi sono compresi il drago e la formica!). Anche gli animali considerati domestici non sono gli stessi che popolano le nostre case oggigiorno. I redattori seguono inoltre una classifica nelle preferenze che si rivela piuttosto stabile. Nel mondo animale ci sono delle vere e proprie “stelle”, come il leone, o il cavallo, o il falco, che hanno un posto di assoluto rilievo e a cui vengono dedicate intere sezioni o trattati. Spesso essi sono distinguibili tra loro non tanto per l’aspetto, ma per gli attributi, cioè quella particolare posa oppure oggetto che permette all'osservatore di distinguerli a colpo d’occhio. Così, il lettore medievale sa che la differenza tra una gru e uno struzzo sta nel fatto che la gru stringe un sasso nella zampa e che lo struzzo tiene un chiodo o un ferro di cavallo nel becco. Perché? La gru di notte monta la guardia per vigilare sulle compagne e, nel caso si addormenti, il sasso cade e la sveglia; e lo struzzo ha uno stomaco che digerisce tutto, ferro compreso. Si distingue il gatto (che a lungo tempo non è considerato animale domestico) dal leopardo non tanto per il colore del manto, o la grandezza, quanto per la vicinanza di un ratto o un topolino. E il topo si distingue solamente dal pezzo di formaggio che ha tra le zampe.
Continuando con la nostra rapida carrellata degli animali più considerati, occupiamoci del leone. Gli uomini medievali conoscono già molto bene questo grande felino e le sue caratteristiche sin dai tempi dei Romani per via dei giochi circensi. Difatti i bestiari si dilungano molto sul re degli animali (rex animalium), esaltandone la potenza e il ruggito. A lungo andare, fra l'altro, il leone ha spodestato l’orso, sia nell’immaginario collettivo sia perché la candidatura del leone è stata caldeggiata dalla Chiesa come simbolo positivo. Nelle cattedrali vi sono diversi ornamenti che raffigurano il leone, e molte casate lo adottano prontamente nello stemma e nel sigillo nobiliare, al diffondersi degli stessi dopo il XII secolo. L’orso, infatti, è il culto animale più diffuso nell’emisfero settentrionale, e proviene da una tradizione orale e pagana. È lui il vero “re” degli animali prima dell’ascesa del leone. La Chiesa ne fa l’emblema della lussuria, e lo paragona al diavolo, chiamato sempre in causa quando si tratta di animali al negativo. Nonostante questo, l’orso viene alle volte riscattato grazie alle figure di alcuni santi che, secondo l’agiografia, riescono a “convertire” questo animale, che finisce per accompagnarsi a loro come fosse un mansueto cucciolo, come nelle storie di Sant'Eligio e San Colombano.
Il cervo, viceversa, è un simbolo di rapidità, longevità e resurrezione. La maggior parte dei bestiari lo accosta a Cristo e ne fa un animale puro e virtuoso, come l’agnello e l’unicorno, e insistono parecchio sulle virtù medicinali dell’animale. Riprendendo un aneddoto di Plinio, narrano di un cervo ornato di una collana d’oro per mano dello stesso Alessandro Magno, e ritrovato in una foresta molti anni dopo. E del re di Francia Carlo VI che si sarebbe imbattuto in un altro cervo, ornato solo di una collana di rame dorato… regalata da Giulio Cesare, più tirchio. All'epoca dei Greci e dei Romani, tuttavia, il cervo era disprezzato perché considerato pauroso, e molto più in auge era la caccia al bellicoso cinghiale. Solo con il Medioevo il cervo diventa la selvaggina cacciata dai re e dai nobili. Gli autori medievali sparlano del cinghiale, animale pericoloso, almeno quasi quanto nell'Antichità veniva ammirato. L’unica qualità che gli viene riconosciuta è il coraggio, difatti si batte fino alla morte, servendosi delle zanne acuminate, prima di soccombere sotto le lance dei cacciatori e i denti dei cani. Per il resto, viene considerato come l’emblema dell’uomo peccatore, che passa la vita a grufolare nel fango senza mai alzare lo sguardo al Signore. Il povero cinghiale è proprio l’incarnazione di tutti i vizi, infatti è anche lascivo e devasta “la vigna del Signore”! Nel Medioevo la pessima fama del lupo è così diffusa che è quasi inutile ricordarlo in questa sede. L'animale è demoniaco almeno quanto il cinghiale sia nell'aspetto che nei comportamenti. Si ciba della carne dei suoi simili, in mancanza di meglio, o di quella delle bambine: la più antica versione di Cappuccetto Rosso è stata rinvenuta dalle parti di Liegi attorno all'anno Mille! Tuttavia gli uomini e le donne del Medioevo non hanno veramente paura del lupo, quanto sono addirittura terrorizzati da draghi e mostri, che considerano bestie reali e molto più pericolose. Il drago, come dicevo sopra, è inserito ora nella categoria dei serpenti, ora in quella dei vermi. È l'animale che spaventa di più in assoluto, non solo per il suo aspetto, che coniuga in sé tradizioni antiche - bibliche, orientali, greco-romane, germaniche - ma perché è trasversale ai quattro elementi: sputa fuoco, vola nei cieli, cammina sulla terra e respira. Può avere le zampe oppure no, ed è di diversi colori. Appartiene anche a due mondi, il soprannaturale e quello terreno. Animali fantasiosi o più realistici, miti e benevoli o feroci e crudeli, ammantati di vario significato, e collocati in categorie che spesso si sovrappongono tra loro e mutano a seconda del famoso sguardo medievale. Nella pagine dei bestiari troviamo così creature bizzarre e coloratissime che stentiamo a riconoscere: come la pantera, animale cristologico che non è nera bensì maculata o striata, oppure ha la pelliccia ornata di stelle e di cerchiolini. O gli uccelli, che l'uomo del Medioevo osserva con occhio attento e spesso ammirato, questi sì - aquile, colombe e falchi sono particolarmente amati e carichi di simboli e storie affettuose. I pesci e le creature acquatiche sono invece difficili da osservare e strani perché in grado di sopravvivere in un elemento, il mare, mobile e insidioso, popolato di mostri spaventosi sempre pronti a balzarne fuori e a divorare il malcapitato, e ben lontano dall'essere il moderno luogo d'abbronzatura e svago. In conclusione, una realtà dove ogni cosa suscita "grande meraviglia" e viene presa a prestito non solo dagli uomini di Chiesa per ammaestrare, ma anche come emblema araldico o politico per costruire una ricca messe di simboli. E tutto sommato ci viene da pensare, con qualche malinconia, che, attraversato l'Illuminismo e l'Età della Ragione, non credere più nell'esistenza degli unicorni e dei draghi per alcuni versi non ci abbia fatto fare un gran guadagno... almeno in termini di fantasia e immaginazione.

Articolo di Cristina M. Cavaliere di http://ilmanoscrittodelcavaliere.blogspot.it/. Tutti i diritti riservati.

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