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domenica 3 luglio 2016

STORIA DELL'ISLANDA NEL MEDIOEVO

(Baumg1889) Kirchliche Einteilung (Bistümer) Islands im Mittelalter.jpg

Secondo il libro "Landnamabok" l'Islanda venne scoperta dal celebre navigatore Naddoddr che, durante il suo viaggio dalla Norvegia alle Isole Faer Oer si trovò catapultato letteralmente sulla costa est dell'isola che chiamò Snaeland (Terra della neve). Il primo colono ad insediarsi era un capo tribù norvegese un certo Ingolfur Arnarson il quale, secondo la leggenda, mentre si stava avvicinando alla terra gettò fuori bordo i due bracci del suo seggio giurando di creare il suo regno nel punto in cui essi avrebbero raggiunto la terra. 

Come promesso, si insediò nella costa sud occidentale nell'874  in un luogo che chiamò Reykyavik (Baia dei fiumi) a causa dei celeberrimi vapori che uscivano dal sottosuolo.  È da notare come il Landnamabok non sia ritenuto completamente attendibile dagli storici che, tuttavia, continuano ad usarlo come fonte primaria: a sostegno di quanto scritto sul libro, alcuni scavi archeologici recenti sembrerebbero confermare la presenza di un insediamento proprio a Reykiavik nell'anno 870.

I primi clan islandesi

Il fondatore Ingolfur fu emulato anche da altri capi tribù di origine norvegese infatti, sempre secondo il Landnamabok, la Norvegia era governata col pugno di ferro dal re Harald il Biondo che contribuì ad unificare alcune zone che poi hanno dato la conformazione della Norvegia attuale. Nell'anno del Signore 930 i capi del governo crearono un primo parlamento, l'Althing, che si riuniva ogni estate ed era presenziato dai capi più importanti. Nel parlamento, probabilmente il più antico della storia, si creavano leggi, che non venivano scritte ma venivano "ricordate" da un "logsogumaor (un portavoce della legge). Era totalmente assente il potere esecutivo, pertanto le regole venivano fatte rispettare dal popolo e questo scatenavano faide di sangue che divennero le principali fonti per gli autori della saghe. Proprio in questo periodo l'Islanda inizia ad ingrandirsi: furono Eric il rosso e Leif Ericsson a creare molti insediamenti a Terranova e in Groenlandia.

I primi colonizzatori dell'Islanda

Ma chi erano i colonizzatori? Erano essenzialmente pagani, adoratori di Odino, Thor e Freyja e solamente nel X secolo proprio in prossimità dell'anno mille e della fine del mondo che il mondo cristiano aveva predetto, si ebbero le prime conversioni al cristianesimo. Questo portò ad una possibile guerra civile tra cristiani e pagani tanto che il parlamento nominò Ljosvetningagooi come arbitro per evitare la guerra il quale decise di far convertire l'isola al cristianesimo consentendo ai pagani di poter professare il proprio culto in segreto. Il primo vescovo islandese ad essere consacrato fu Isleifr Gizurarson nell'anno 1056.

Dopo il XII secolo, la centralizzazione del potere divenne una vera e propria scure contro le istituzioni dello stato tanto che il parlamento stava perdendo le proprie prerogative in favore dei gruppi familiari, non a caso il periodo che va dal 1200 al 1262 viene ricordato come Sturlungaold (l'epoca dei Sturlungar) in riferimento a  Sturla Þórðarson e ai suoi figli: Þórður, Sighvatur e Snorri che costituivano uno dei principali clan che avevano il controllo dell'isola saccheggiando le zone contadine che non potevano essere lasciate sguarnite. Nell'anno 1220 Snorri fu nominato vassallo di Haakon IV re di Norvegia così come suo nipote e questo consentì a Sturla per continuare la guerra contro gli altri clan islandesi. 

L'isola rimase indipendente fino all'anno 1262 quando il trattato Gamli Sattmali stabilì l'unione con la monarchia norvegese. Secondo il trattato gli islandesi avevano l'obbligo di pagare una tassa al re di Norvegia in cambio di un codice legislativo che avrebbe garantito la pace e la possibilità di mantenere i trasporti regolari tra Norvegia e Islanda i cui cittadini ottennero la parità dei diritti nei rispettivi paesi. Nel 1281 le leggi dello Stato Libero d'Islanda furono aggiornate nello Jonsbok.

L'unione tra i due paesi durò fino al 17 giugno del 1944 quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu proclamata la Repubblica d'Islanda

venerdì 17 giugno 2016

1529 - FIRENZE SOTTO ASSEDIO

L'assedio di Firenze, affresco in Palazzo Vecchio

Storia della disperata resistenza della Repubblica fiorentina alle truppe imperiali, fra realtà e mito. 

FIRENZE DOPO LA CALATA DEI LANZICHENECCHI

“Abbiamo preso d'assalto Roma; gli uccisi furono più di seimila, saccheggiata l'intera città, nelle chiese e dentro la terra prendemmo tutto ciò che trovammo”. Così scriveva Sebastian Scherthlin, un lanzichenecco che partecipò al sacco di Roma del 1527. Le sue brevi parole descrivono con rara efficacia la foga e la furia dell'esercito imperiale che per settimane ebbe tra le mani la preda più succosa che l'Europa aveva da offrire, la Città Eterna. Bartolomeo da Gattinara scrisse che i Lanzichenecchi si erano “governati come veri luterani”. Era questo il tragico epilogo della guerra accanita contro l'ingombrante presenza di Carlo V in Italia. La Lega di Cognac, formatasi nel 1526 e composta dalla Francia di Francesco I, dal Papato, dalla Repubblica di Firenze, dai Veneziani, dai Milanesi, dai Genovesi, subiva lo smacco più grave. L'obiettivo di allentare la morsa di Carlo V sulla penisola si era rivelato, in definitiva, troppo ambizioso. L'incontrastato imperversare delle truppe dell'imperatore su tutto il territorio italiano ne era la prova più eloquente.

A Firenze la notizia dello spaventoso sacco fu in un primo momento tenuta nascosta dalle autorità. La città era allora retta da Ippolito e Alessandro de' Medici, sotto la vigilanza del legato pontificio Silvio Passerini e con il benestare di papa Clemente VII, al secolo Giulio de' Medici (in quanto figlio illegittimo di quel Giuliano vittima della congiura dei Pazzi del 1478). Il motivo di tanta segretezza risiedeva nel timore che i repubblicani in città, ostili dalla dominazione medicea, insorgessero non appena saputo di Roma saccheggiata e di Clemente VII rinchiuso in Castel Sant'Angelo.

Le paure non erano infondate: all'udire la notizia del sacco, che del resto era fin troppo eclatante per poter essere tenuta nascosta a lungo, i Fiorentini colsero al volo l'occasione per restaurare le libertà repubblicane. Filippo Strozzi, Niccolò Capponi, Francesco Vettori e buona parte del patriziato fiorentino costrinsero il cardinal Passerini, Ippolito e Alessandro de' Medici a lasciare Firenze.

Rinacque così la Repubblica fiorentina, nella forma di un “regime democratico-oligarchico, di tipo veneziano” (Alessandro Monti). Furono perciò ripristinati organi e magistrature tipicamente repubblicani, come il Consiglio Maggiore o i Dieci di Libertà e Pace e alla carica di gonfaloniere venne eletto Niccolò Capponi, uomo di una certa età noto per la sua moderazione e la sua prudenza nonostante la passata vicinanza al Savonarola. La questione centrale, al di là del quadro istituzionale, era tuttavia una e una soltanto: come e con chi schierarsi nella complessa trama dei conflitti e delle relazioni internazionali?

LA REPUBBLICA CONTRO TUTTI

La Repubblica doveva darsi degli obiettivi in politica estera, assicurandosi al contempo la stabilità sul versante interno. Un compito, quest'ultimo, reso particolarmente difficile dalla diffidenza, dal sospetto e dalle accuse verso tutti coloro che in qualche modo erano stati legati al passato regime, come Francesco Guicciardini o Jacopo Salviati. Il Capponi si adoperò al massimo delle sue possibilità per la coesione della Repubblica, ma senza successo. La pestilenza scoppiata nel giugno dello stesso 1527 e il protrarsi della lotta contro le truppe imperiali certo non rendevano il quadro migliore. Forse fu proprio la gravità della situazione a spingere il Capponi a far proclamare Gesù Cristo Re di Firenze, come era accaduto ai tempi di Savonarola. La mossa se non altro gli valse il favore dei Piagnoni.

Ma era sul fronte della politica estera che la Repubblica di Firenze, quasi senza accorgersene, stava consumando quello che autorevolmente è stato definito il suo “peccato originale”. L'inclinazione naturale del nuovo regime, nato dalla totale rottura col passato mediceo e di conseguenza con Clemente VII, sarebbe stata quella filoimperiale: Carlo V avrebbe certamente accolto con favore un alleato tanto ostile al papa, specialmente se quell'alleato era un membro della lega di Cognac che mutava schieramento. E invece, contro ogni logica, ma in ossequio alla linea tradizionalmente tenuta dalla Firenze degli anni precedenti, la Repubblica aveva deciso di mantenere la sua posizione filofrancese, con il risultato di aver dato ai due uomini più potenti d'Europa, Carlo V e Clemente VII, un motivo in più per riavvicinarsi.

Il Capponi, da uomo avveduto qual era, era conscio dei rischi di una guerra contro l'Impero e il Papato, considerata in particolare l'esiguità delle forze fiorentine, ormai ridotte ai minimi termini dopo i conflitti degli ultimi anni. Proprio tali timori lo spinsero a riprendere le relazioni diplomatiche con alcuni emissari del papa, nella speranza di allontanare il pericolo di una guerra già persa in partenza. Questa sua iniziativa, realista e saggia, non passò tuttavia inosservata alle fazioni più estremiste della Repubblica: una lettera ritrovata il 16 aprile 1529 dal suo avversario Jacopo Gherardi rivelò la corrispondenza del gonfaloniere con l'odiato Clemente VII. L'accusa di aver tramato contro la Repubblica, certo una strumentalizzazione politica, costò al Capponi la carica. Già il 17 aprile dovette dimettersi.

Al suo posto fu eletto Francesco Carducci, un leader degli Arrabbiati di umili natali. Intransigente verso qualunque compromesso con i Medici e con gli esponenti della precedente classe dirigente, fino ad allora non aveva mai avuto un ruolo di primo piano nella politica fiorentina. Cionondimeno il suo estremismo compensò quel che gli mancava in termini di notorietà: il Carducci, stando a quanto riferito da una relazione inviata a Carlo V, “havea abbracciata la Repubblica con intention di doverla governare con quelle maniere, che più piacevano al popolo (…) e d'havere a essere asprissimo nimico de' nobili, e della famiglia de' Medici”. Inutile dire che le trattative con Clemente VII furono interrotte bruscamente. Firenze aveva scelto la guerra.

IL NEMICO ALLE PORTE

Nel frattempo gli ultimi sviluppi nel sistema delle alleanze avevano drasticamente mutato l'assetto delle relazioni internazionali. Nel giugno 1529 Carlo V e Clemente VII siglarono il trattato di Barcellona, con cui l'imperatore prometteva di riconquistare Firenze per i Medici in cambio della riappacificazione e dell'incoronazione papale (che sarebbe avvenuta a Bologna l'anno successivo). Inoltre nello stesso anno la pace di Cambrai pose fine, almeno per il momento, al conflitto tra Carlo V e Francesco I, sancendo la rinuncia di quest'ultimo a Napoli e a Milano in cambio della restituzione della Borgogna. Firenze era rimasta sola, come previsto dal Capponi.

Alla Repubblica non restò che preparare le sue difese. Dell'arduo compito si occupò, tra gli altri, Michelangelo, incaricato di potenziare le fortezze del dominio, come Livorno e Pisa, e di progettare nuove fortificazioni per la città attorno alla chiesa di San Miniato, luogo ideale per l'artiglieria. Il risultato fu ottimo: all'inizio dell'assedio Firenze “era ben fortificata e pressoché inespugnabile” (Najemy).

L'esercito fiorentino era composto da 10.000 mercenari e dalla milizia cittadina, rifondata nel novembre del 1528. Quest'ultima arrivò a contare diecimila uomini e durante l'assedio, spinta dall'ardore repubblicano e dalla retorica che si ricollegava alla grandezza di Roma e di Sparta, diede prove di valore e di coesione degne di nota. Il comando della difesa fu assegnato a Malatesta Baglioni, signore di Perugia, figura tra le più controverse dell'intera vicenda. Almeno sulla carta era un soldato di professione e la guerra la conosceva bene, come aveva dimostrato al servizio della Repubblica di Venezia. Ma nei fatti si sarebbe rivelato meno affidabile di quel che sembrava.

LA REPUBBLICA SOTTO ASSEDIO

Le truppe imperiali si presentarono di fronte alla città già sul finire del 1529. Il comando degli assedianti fu affidato a Filiberto di Chalons, principe d'Orange, generale molto apprezzato dall'imperatore Carlo V per la prudenza e le doti diplomatiche. Fra truppe tedesche, italiane e spagnole, disponeva inizialmente di circa 11.000 uomini, ma in seguito arrivò forse a contare su 30.000 unità.

L'esercito imperiale si accampò a sud dell'Arno. Il 12 ottobre il fuoco d'artiglieria proveniente dalle postazioni della Repubblica segnò l'inizio di un lungo, estenuante assedio. Nonostante i propositi del principe d'Orange di far breccia rapidamente nelle mura fiorentine, i combattimenti precipitarono in una fase di sconfortante stallo: gli assedianti, da un lato, si cimentavano in infruttuosi assalti alle fortificazioni di Firenze; gli assediati, dall'altro, tentavano disperate sortite per scompigliare lo schieramento imperiale.

Furono mesi orribili per i Fiorentini, terrorizzati dal martellamento dei bombardamenti avversari e decimati dalla peste e dalle cruente scaramucce. Persa fiducia nell'immobilismo del Baglioni, sempre più speranze erano riposte in un altro condottiero della Repubblica, Francesco Ferrucci. Allora quarantenne, il Ferrucci sarebbe divenuto l'eroe dell'assedio di Firenze, un onore che ben pochi di quelli che lo conoscevano gli avrebbero attribuito. Il filomediceo Francesco Baldovinetti ha scritto infatti che era un “uomo levato ad alterarsi, bestiale, bestemmiatore, crudelissimo, volenteroso, animoso e senza ragione”. Divenuto commissario a Empoli per conto della Repubblica fiorentina nel 1528, seppe tuttavia dimostrare la sua tenacia e il suo valore sul campo, dando un importante contributo nella predisposizione delle difese di Firenze e dell'area circostante. Divenne famoso per la repressione della rivolta della ribelle Volterra nell'aprile del 1530 e per il modo in cui riuscì a respingere i successivi attacchi di Fabrizio Maramaldo, capitano di ventura al servizio delle truppe imperiali. Malgrado le stravaganze, il Ferrucci era l'unica di speranza di mantenere in vita la libertà del popolo fiorentino.

Frattanto a Firenze le cose non si mettevano bene. Dal gennaio del 1530 l'esercito imperiale, grazie all'apporto di forze fresche, era riuscito a chiudere l'accerchiamento della città, ormai circondata da tutti i lati. A causa del blocco delle principali arterie di rifornimento, il prezzo delle derrate era salito alle stelle e il governo aveva dovuto stabilire il razionamento del cibo. Alla fame si era aggiunta anche una maggiore pressione fiscale, imposta dalle autorità per far fronte alle spese militari. E tuttavia, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, i Fiorentini, pervicaci come non mai, non persero neanche allora la loro compattezza; anzi dichiaravano con fierezza di essere “poveri, e liberi”. Testimonianza preziosa della profonda convinzione del popolo fiorentino è senza dubbio l'orazione alla milizia pronunciata il 3 febbraio 1530 da Bartolomeo Cavalcanti, nobile fiorentino sostenitore della Repubblica. Questi parlò ai concittadini utilizzando ogni espediente retorico per rafforzarne lo zelo, perfino quello dell'indipendenza della penisola italiana: “Difendesi la gloria del nome italiano da barbare e di quello inimicissime nazioni”.

“VILE, TU UCCIDI UN UOMO MORTO!”: DISFATTA A GAVINANA

Il governo fiorentino, consapevole della sempre maggiore scarsità di uomini da arruolare nonché dell'esiguità delle scorte, ordinò al Ferrucci di far convergere le sue forze (3000 fanti e 300 cavalleggeri) verso Firenze per spezzare l'assedio dall'esterno. Ma accadde qualcosa di inatteso: il principe d'Orange lasciò improvvisamente Firenze con un robusto distaccamento di 3000 uomini e di 1000 cavalieri e marciò a nord in cerca del Ferrucci, affidando il comando dell'assedio a Ferrante Gonzaga. Come poteva il comandante in capo delle truppe imperiali essere sicuro che, portando con sé tanta parte del suo esercito, il Baglioni non ne avrebbe approfittato per tentare una sortita con buone probabilità di vittoria? Stando alla tradizione storiografica, Benedetto Varchi (1503-1565) in testa, la spiegazione va ricercata nel tradimento: il comandante delle truppe fiorentine, certo dell'inevitabilità della disfatta e desideroso di mantenere le concessioni papali su Perugia e altre località, avrebbe promesso al principe d'Orange di non attaccare il campo degli assedianti durante l'assenza di quest'ultimo.

Tralasciando il dibattito sul ruolo e sulle reali intenzioni del Baglioni, da questa complessa fase di manovre e, forse, di sotterfugi emerse con chiarezza che sarebbe stata una battaglia a decidere le sorti dell'assedio. E fu il 3 agosto 1530 che lo scontro tanto atteso ebbe luogo nelle vicinanze di Pistoia, presso l'oscuro borgo fortificato di Gavinana.

La giornata, occorre dirlo, fu decisa già dalle manovre preliminari delle truppe imperiali. Il Ferrucci infatti, indugiando eccessivamente nel saccheggio del borgo di San Marcello, situato poco a ovest di Gavinana, aveva perso di vista i movimenti delle forze imperiali, al punto da lasciarsi circondare: alle spalle aveva la fanteria italiana e spagnola guidata da Alessando Vitelli e le bande panciatiche di Niccolò Bracciolini, a nord gli uomini di Fabrizio Maramaldo e di fronte le truppe imperiali del principe d'Orange provenienti da Firenze. Ben poco era lo spazio riservato alla strategia: l'obiettivo era aprirsi un varco in quel cerchio mortale.

I primi combattimenti videro prevalere la cavalleria fiorentina su quella del principe d'Orange. Gli uomini del Ferrucci, a suon di cariche furibonde, si guadagnarono l'ingresso nel borgo di Gavinana, proprio mentre Maramaldo vi entrava indisturbato con i suoi dall'altro lato del paese. Il principe d'Orange nel frattempo, ricompattate le sue forze, si lanciò in una carica vigorosa, spingendosi più in là di quanto sia concesso a un generale in battaglia. Quasi come punizione per aver svolto “offizio più di uomo d'armi che non di capitano” (Francesco Guicciardini), l'Orange fu colpito in pieno da due palle di archibugio sul petto e sul collo. La morte del loro comandante rese per un momento titubanti le truppe imperiali e diede un barlume di speranza al Ferrucci di poter spezzare la morsa dell'avversario. Ma la pressione di Maramaldo all'interno del borgo unita a quella dei nemici che aveva di fronte non permettevano di illudersi troppo.

La situazione si aggravò quando le truppe imperiali, sbaragliati i nemici che erano rimasti fuori da Gavinana, ebbero mani libere per condurre l'offensiva finale. Iniziò così l'estrema difesa del Ferrucci e dei suoi uomini contro forze schiaccianti che attaccavano da ogni lato e senza sosta. La battaglia raggiunse il suo momento più epico, ma il destino di quel che rimaneva dell'esercito fiorentino era segnato. Dopo una disperata resistenza, il Ferrucci e le sue truppe furono presi prigionieri. Il capitano fiorentino, che a detta di tutte le fonti coeve si era battuto come un leone, era gravemente ferito. Nonostante questo, Maramaldo, suo nemico di sempre, lo volle finire con le sue mani. La leggenda racconta che il Ferrucci prima di essere ucciso avrebbe detto: “Vile, tu uccidi un uomo morto!”.

UN DUCA PER FIRENZE

La disfatta di Gavinana segnò la fine delle speranze della Repubblica. Il 12 agosto 1530, presso la chiesa di Santa Margherita a Montici, fu siglata la resa. Per volere di Carlo V Alessandro dei Medici fu posto a capo della Repubblica fiorentina, per poi divenirne duca dal 1532. Il suo governo non sarebbe tuttavia durato a lungo: già nel 1537 fu brutalmente assassinato, lasciando il posto ad un membro dei Medici del ramo "popolare", Cosimo (1519-1574), figlio del celebre Giovanni dalle Bande Nere. Il suo governo, fortemente accentrato, inaugurò la lunga esperienza del Granducato di Toscana, passata attraverso l'estinzione della dinastia medicea con la morte di Gian Gastone (1737), la dominazione lorenese e, dopo la parentesi napoleonica, le travagliate vicende risorgimentali.

Di questa vicenda plurisecolare l'assedio di Firenze fu il preludio. Il fallimento della Repubblica mostrò infatti l'impossibilità per uno Stato italiano di sfidare apertamente i giganti d'Europa e mise a nudo il drastico ridimensionamento dell'Italia e delle sue realtà politiche nel panorama internazionale. L'unica via per sopravvivere era dotarsi di una costituzione monarchica, allineandosi alle tendenze politiche dell'epoca, e magari trovare la protezione di una potenza straniera. Soltanto la Repubblica di Venezia, in ambito italiano, mantenne saldamente la sua indipendenza e il suo assetto istituzionale.

Nonostante questa fine apparentemente irreversibile di tutto ciò che la resistenza della Repubblica fiorentina aveva rappresentato, la cultura del Risorgimento studiò con sommo interesse l'assedio di Firenze del 1529, elevato a simbolo dell'opposizione "italiana" allo straniero. Basti pensare a Francesco Domenico Guerrazzi, il quale pubblicò sulla vicenda un fortunato romanzo storico nel 1836, e ai molti che lo imitarono. Perfino Giuseppe Verdi pensò di realizzare un'opera in musica sul Ferrucci e si potrebbe andare avanti a lungo con le citazioni. In fondo è soprattutto questo che stupisce della Storia: i suoi fili non smettono mai di intrecciarsi.

Articolo di Giulio Talini, tutti i diritti riservati.

BIBLIOGRAFIA

- John M. Najemy, "Storia di Firenze. 1200-1575", Einaudi, Torino, 2014
- Furio Diaz, "Il Granducato di Toscana - I Medici", UTET, Torino, 1987
- Piero Bargellini, "La splendida storia di Firenze", Vallecchi, 1980
- Alessandro Monti, "L'assedio di Firenze (1529-1530). Politica, diplomazia e conflitto durante le guerre d'Italia", Pisa University Press, Pisa, 2015
- G. F. Young, "I Medici", Salani, Firenze, 1941
- Francesco Guicciardini, "Ricordi", Garzanti, Milano, 2012
- Francesco Guicciardini, "Storia d'Italia", a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino, 1971
- Benedetto Varchi, "Storia fiorentina", Salani, Firenze, 1963
- Giuseppe Lisio (a cura di), "Orazioni scelte del secolo XVI", Sansoni, Firenze, 1957
- Geoffrey Parker, "La rivoluzione militare", Il Mulino, Bologna, 2007
- Salvador De Madariaga, "L'impero di Carlo V", Res Gestae, Milano 2015




giovedì 31 dicembre 2015

INTERVISTA A S.A.S. ANTONINO D'ESTE ORIOLES GRAN MAESTRO DELL'ORDINE DEI SS CONTARDO E GIULIANO

Abbiamo intervistato Sua Altezza Serenissima Antonino d'Este Orioles. Un grande onore che premia ancora una volta Sguardo Sul Medioevo come punto di riferimento delle migliori realtà filantropiche italiane. 

D: Altezza Serenissima, grazie per avermi voluto concedere l'onore di questa intervista oltre che la possibilità di fregiarmi del titolo di Cavaliere dell'ordine di Vostra collazione. La prima domanda è a carattere generale. Come si fonde la sua famiglia con Tortorici?

R: non vi sono fonti storiche ufficiali né sul perché né sulla data certa di arrivo a Tortorici dei primi Estensi. Le prime notizie ricavate da atti notarili e da ricerche storiche locali datano, la presenza di componenti della Famiglia d'Este a Tortorici, nella seconda metà del XVI secolo. I motivi che portarono componenti della Famiglia a stanziarsi in un territorio così lontano, sono forse da ricercare negli eventi tumultuosi che videro il Ramo Ducale entrare in contrasto con il Papa,nel periodo compreso tra la fine  del 1597 e l'inizio del 1598. Ricordiamo infatti che alla morte del Duca Alfonso II d'Este, avvenuta nell'ottobre del 1597 senza lasciare discendenti diretti, il titolo di duca era passato a Cesare, del ramo Montecchio e il Papa Clemente VIII aveva dichiarato finito il dominio Estense su Ferrara. Dal canto suo Cesare non voleva rinunciare a Ferrara e alla successione, i contrasti con il Papa si inasprirono al tal punto che lo stesso firmò la Bolla di Scomunica per il Duca e i Ferraresi. Di lì a poco infatti, Cesare dopo aver cercato invano l'appoggio di Francia e Spagna contro il papa, il 13 gennaio del 1598 concluderà un accordo col Pontefice, le cosiddette convenzioni Faentine con le quali Ferrara e i territori della Romagna passavano allo Stato Pontificio. Appena avuta la notizia della devoluzione di Ferrara al Pontefice, i Conservatori Modenesi riuniti in Consiglio, deliberarono di inviare ambasciatori a Corte per offrire la Città di Modena al Duca Cesare (cit.:....... essendosi discorso che Sua Altezza Serenissima sia per venire a stare in questa città...) in questo scenario è quindi da ricercare l'allontanamento, forse non proprio volontario di quei componenti la famiglia che si stabilirono a Tortorici. Una terra lontana, si, ma una terra dove potevano godere della protezione e dei favori del Vicere di Sicilia Ferrante Gonzaga e dove godettero del trattamento di Magnificus. Trattamento questo riservato al Ceto Nobile. 

D:  Sul sito internet leggiamo di una Accademia, ci può dire in cosa consiste e come è possibile farne parte?

R: Il primo atto costitutivo dell'Accademia, risale al 1860. La stessa fu costituita con l'intento di valorizzare e quindi patrimonializzare sotto il profilo storico e culturale lo studio di quei territori dove è storicamente provata la presenza della Famiglia d'Este e d'Este Orioles. Non bisogna infatti dimenticare, che gli Estensi furono una dinastia molto prolifica e moltissime famiglie possono sicuramente vantare discendenze dalla stessa, ad esempio i Malaspina, i Pallavicino, i Massa Parodi. Mettere quindi insieme questo enorme patrimonio culturale e storico nel rispetto delle tradizioni, anche attraverso lo studio delle  diversità sociali culturali ed economiche dei territori pre unitari, spesso domini e feudi delle citate famiglie. Questo senza ombra di dubbio era ed è lo scopo dell'Accademia. Non bisogna altresì dimenticare che il mecenatismo e le attività di governo dell'epoca (spesso discutibili)  hanno contribuito ad accrescere quello che oggi possiamo tranquillamente definire patrimonio Nazionale.  Non tutti sanno, ad esempio, che Eleonora d'Este, (mecenate di Torquato Tasso)  sposa in seconde nozze il Principe Gesualdo. La famiglia d'Este ritorna ancora ad essere presente nelle cronache del Sud Italia, territori ben lontani dai domini Estensi ed è proprio nel Palazzo del Principe di Venosa Carlo Gesualdo che fu ospitato il Tasso. L'Istituzione rilascia titoli Accademici Privati e onorifici. La valutazione del Curriculum Vitae e l'attività di studio nelle materie contemplate danno la possibilità all'Istante di poter ottenere il titolo di Accademico d'Onore. A tale proposito, si stanno concludendo importati accordi con Università Private legalmente costituite e riconosciute, per l'accreditamento dell'Accademia e per il riconoscimento dei Titoli d'Onore. 

D: Altezza, dalla data di successione, ha voluto dare  nuova linfa agli statuti del'Ordine: in cosa consistono questi cambiamenti?

R: L'Ordine fu costituito come Ordine di Merito dal mio Avo Antonino II il 15 Agosto dell'anno 1860. Questo era riservato ai membri della famiglia e a quanti ad essa erano stati legati. Bisogna ricordare, che la famiglia d'Este (prima) e d'Este Orioles dal 1662 in avanti, ha sempre avuto una particolare sensibilità nei confronti delle classi meno abbienti. E' storia il fatto che il Monte Frumentario d'Este istituito a Tortorici nella prima metà del 1600 è in assoluto il primo. Venivano accantonati cereali e ortaggi a lunga conservazione per il fabbisogno delle famiglie povere e per i momenti di carestia. Nella Sicilia del tempo, molte furono le famiglie che "copiarono" l'iniziativa e la costituzione del Monte Frumentario o del Rabico divenne una consuetudine. Tortorici, però, al contrario di altre Città e territori si era già riscattata dal potere Feudale della famiglia Mastrilli divenendo Città Regia e pertanto i frutti della terra e i proventi del raccolto, tolte le imposte da corrispondere direttamente al Vicere, potevano  essere utilizzate, dalle famiglie possidenti, in maniera liberale. Insomma, attività di filantropia e beneficenza a totale carico e spese della Famiglia d'Este Orioles. Nel 1852 per effetto di un Regio Decreto, tutte le realtà (Monte Frumentario o Rabico) presenti sul territorio siciliano dovettero consorziarsi, per dare vita a ciò che oggi conosciamo come "Consorzio Agrario". E' proprio per continuare l'opera della Famiglia, che Antonino II, costituì l'Ordine dei Santi Contardo e Giuliano l'Ospitaliere, dedicandolo e ponendolo sotto la protezione dei Santi, che hanno sempre rappresentato un punto di riferimento spirituale e religioso per la Famiglia. All'atto della mia nomina per diritto di successione, nel rispetto delle Tradizioni, ho voluto adattare gli statuti ai tempi e dare la possibilità a tutti coloro che vogliono dedicare il proprio tempo e le proprie risorse a favore del prossimo e delle persone meno fortunate di poterlo fare con lo spirito della Cavalleria e delle Sue antiche regole. Ho inoltre voluto istituire la Medaglia di Merito per tutte quelle persone, associazioni ed enti, che si sono particolarmente distinti nelle attività benefiche e filantropiche e di cui il Gran Magistero ha avuto notizia. 

D: Molti ordini vantano discendenze che poi si rivelano fittizie: ciò non si può dire dell'Ordine dei Santi Contardo e Giuliano data la presenza del Patrimonio Araldico. Sulla base di quali documenti può vantare la discendenza con la famiglia d'Este?

R: La discendenza è provata dagli atti a supporto della Genealogia: notarili,  parrocchiali (nascite, matrimoni e morti) fino all'anno 1812 e atti di stato civile per gli anni successivi. In merito al patrimonio Araldico e alla Fons Honorum, esso promana dalla Lettera Patente rilasciata dal Duca Ercole III d'Este nell'anno 1798 dalla Residenza Veneziana (il Duca era in Esilio a Venezia a seguito dell'invasione da parte delle truppe Napoleoniche) e controfirmata dal fedelissimo capo di gabinetto e ministro per gli affari interni Gerardo Rangone. Nella Patente il Duca Ercole, riconosce al lontano Cugino Antonino (che a seguito diverrà Antonino I) in Tortorici, le dinastiche prerogative e gli onori che furono proprie della famiglia, oltre che riconoscere il diritto di pretensione sui territori e titoli della Famiglia Orioles. Devo, a tale proposito, fare una precisazione. La mia Famiglia non ha mai vantato pretese al Trono di Modena, sappiamo bene come sono andate le cose e abbiamo troppo rispetto per la Storia. L'unica figlia di Ercole III andò in sposa a Ferdinando d' Asburgo. Nulla da eccepire, nella tumultuosa vicenda della Restaurazione post Napoleonica, il Duca Ercole III preferì apparentarsi con la potente famiglia degli Asburgo.  Un atto di illuminata politica. Pertanto stiano sereni, quei ben pensanti, spesso foraggiati criticoni. Nessuna pretesa sul Ducato e sui Territori Estensi, ma soltanto l'uso Agnatizio e Collaterale delle Titolature, per diritto di Nascita e di Successione. 

D: Quali sono le attività principali dell'Ordine?

R: Mi piace quando mi si pone questa domanda, rispondere con una frase che ho "rubato" ad una nostra Dama d'Onore: "Regaliamo un Sorriso". Cosa c'è di più bello di un sorriso. Esso esprime gioia, serenità, felicità.....Ecco, su segnalazione dei nostri Cappellani, dei nostri Cavalieri, degli Amici dell'Ordine ci occupiamo di aiutare qualcuno in difficoltà alleviando qualche pena e regalando un sorriso. Tutte queste attività sono coordinate ovviamente da un responsabile delle Attività Assistenziali, incarico questo ricoperto dalla mia compagna di Vita, la Dama di Gran Croce Donna Loredana dell'Anno, alla quale devo moltissimo per l'impegno costante e instancabile che unitamente a tutti i Cavalieri e Dame profondono nelle attività. Il nostro Ordine si sostiene con risorse proprie, ognuno di noi partecipa con delle piccole economie, ma tutto ciò che facciamo lo facciamo con slancio, sacrificio e soprattutto con lo spirito di Carità Cristiana all'insegna dei Valori antichi della Cavalleria

D: Quali sono gli obiettivi futuri?

R: Ho un sogno: Realizzare delle strutture da adibire a centri di aggregazione dove Bambini e Anziani possano trascorrere del tempo in reciproca compagnia e regalando gli unir qualcosa agli altri. Gli anziani l'esperienza di vita, i bambini il sorriso e la gioia di vivere. Parto dal presupposto che non c'è albero senza radici e non c'è futuro senza storia. Questo è il mio sogno: realizzare "La scuola della Vita".

Ringraziamo di cuore S.A.S. Antonino d'Este per aver concesso a Sguardo Sul Medioevo questa intervista e al sottoscritto la nomina a Cavaliere.

sabato 19 settembre 2015

IL MONUMENTO AL BERSAGLIERE DI PORTA PIA


Il Monumento del Bersagliere di Porta Pia si trova proprio nei pressi della storica Breccia che fece crollare dopo quasi due millenni lo Stato della Chiesa. L'opera fu voluta dall'Associazione Nazionale Bersaglieri negli anni venti, per poi essere spostata più avanti nel tempo solamente dopo la firma dei Patti lateranensi nel 1929. Il concorso fu proposto nel 1930 e tutte le proposte furono vagliate da Mussoline, anch'egli bersagliere, cercando di scegliere il progetto che più si avvicinasse a quello spirito patriottico-monumentale e simbolico voluto dal mondo politico. Fu Publio Morbiducci ad assicurarsi la commessa grazie anche alla rappresentazioni e alle figure più importanti e valorose dei bersaglieri.

Le battaglie e i Personaggi rappresentati sul Monumento

Battaglia di Ponte di Goito


La battaglia del ponte di Goito in una litografia di Stanislao Grimaldi Dal Poggetto (1860 circa).La celeberrima battaglia di Ponte di Goito ebbe luogo l'8 aprile dell'anno 1848 durante la Prima Guerra di Indipendenza. Subito dopo le Cinque Giornate di Milano e la seguente dichiarazione di Guerra all'Austria, l'esercito regio attraversò il Ticino: le truppe di Carlo Alberto seguivano gli austriaci che stavano ripiegando. L'8 aprile la 2° compagnia bersaglieri e le compagnie del battaglione Real Navi aggregate alle brigate Regina e Aosta arrivarono a Goito strenuamente difesa da 1200 soldati tirolesi. I bersaglieri attaccarono gli avversari che sbarravano l'ingresso al paese, ma questo provocò la reazione austriaca: mentre la colonna di Lyons avanzava lentamente grazie al fuoco di sbarramento, Alessandro La Marmora fu colpito ad una mandibola da un proiettile. Successivamente gli austriaci riuscirono a distruggere solamente una parte del ponte e questo permise ai bersaglieri di ripartire all'attacco. Durante questo violentissimo scambio di colpi caddero Galli della Mantica, sottotenente dei bersaglieri e il tenente Wright. Saverio Griffini riuscì a raggiungere l'altra sponda del fiume catturando 53 tirolesi e un cannone. Le vittorie a Valeggio sul Mincio e Monzambano portarono in mani piemontesi gli altri fondamentali passaggi sul fiume costringendo gli austriaci a riparare nelle due vicine fortezze del Quadrilatero: Mantova a sud e Peschiera a nord, il cui assedio ebbe inizio il successivo 13 aprile.



Luciano Manara

Luciano Manara nacque a Milano il 25 marzo del 1825 e morì a Roma il 30 giugno 1849. Partecipò come volontario alle Cinque Giornate di Milano capeggiando l'operazione che vide la conquista di Porta Tosa. Dopo la sconfitta sabauda nella Battaglia di Novara decise di partecipare alla difesa della Repubblica Romana; il 22 aprile partò per Civitavecchia raggiungendo Roma dopo sette giorni. Il 16 maggio occupò Anagni prima e Frosinone e, proprio mentre Oudinot e le sue truppe stavano attaccando Roma, Garibaldi lo fece Capo di Stato Maggiore. Nei pressi di Villa Spada fu colpito a morte il 30 giugno 1848. Il funerale fu celebrato nella storica chiesa di San Lorenzo in Lucina. Unitamente a Enrico Dandolo e Emilio Morosini fu portato nei pressi di Lugano dove fu sepolto temporaneamente con la famiglia Morosini. Solo nel 1864 ai Manara fu concessa la possibilità di erigere una tomba di famiglia



Enrico Toti


Enrico Toti in trincea nel 1916Enrico Toti è un famoso eroe italiano perito durante la Prima Guerra Mondiale. La sua vita cambiò nel 1908 quando, mentre lavorava su di una locomotiva, rimase incastrato con la gamba sinistra negli ingranaggi meccanici che la stritolarono. Nel 1911 raggiunse Parigi sulla sua fedele bicicletta con un solo pedale per poi arrivare in Belgio e Danimarca per poi arrivare in Lapponia per chiudere il suo viaggio in Finlandia e Lapponia. Nel 1913 arrivò ad Alessandria d'Egitto spingendosi verso il Sudan, dove fu fermato e rimandato al Cairo da dove si imbarcò per il ritorno in patria. Scoppiato il primo conflitto mondiale Toti raggiunse da volontario Cervignano del Friuli adibito ai cosiddetti "servizi non attivi". La sua mitica figura è legata alla Battaglia dell'Isonso nell'agosto del 1916 che si concluse con la presa di Gorizia. Il 6 agosto dell'anno 1916, Toti si lanciò all'attacco ad est di Monfalcone dove fu ripetutamente colpito da colpi di arma da fuoco: con un gesto che rimase nella storia e nel mito scagliò la sua gruccia contro il nemico esclamando "nun moro io" poco prima di baciare il suo cappello piumato per l'ultima volta. Proprio in quella zona è ben visibile un cippo monumentale che ricorda il mitico avvenimento


«In pieno giorno superammo lo sbarramento nemico allo scoperto". Alle quindici circa del 6 agosto 1916 arrivammo a quota 85 (appena fuori Monfalcone, prima del fiume Lisert, in località Sablici). Venne subito l'ordine d'avanzare ed Enrico era tra i primi. Aveva percorso 50 metri quando una prima pallottola lo raggiunse. M'avvicinai mentre eravamo entrambi allo scoperto. Non ne volle sapere di ripararsi. Continuava a gettare bombe, e per far questo si doveva alzare da terra. Fu così che si prese una seconda pallottola al petto. Pensai che fosse morto. Mi feci sotto tirandolo per una gamba ma questi scalciò. Improvvisamente si risollevò sul busto e afferrata la gruccia la scagliò verso il nemico. Una pallottola, questa volta l'ultima, lo colpì in fronte»


Sciara Sciat

Con la Battaglia di Sciara Sciatt i turchi ottomani, dopo averla persa, tentarono inutilmente di riprendere la città di Tripoli che era stata occupata dall'esercito italiano. Quando gli italiani riconquistarono l'area del cimitero di Rebab scoprirono che quasi tutti i prigionieri erano stati trucidati, secondo la relazione ufficiale italiana "molti erano stati accecati, decapitati, crocifissi, sviscerati, bruciati vivi o tagliati a pezzi". Analogo resoconto fu fatto dal giornalista italo argentino Enzo D'Armesano che era inviato sul posto per il quotidiano argentino "La Prensa". Il mattino successivo iniziarono le perquisizioni nella zona di Sciara Sciat, finalizzate al sequestro di armi e munizioni, effettuate da uno dei battaglioni della Marina. Si passò a controllare ogni singola abitazione e poi a rastrellare l'intera oasi. Tutti coloro che furono trovati armati furono immediatamente passati per le armi e quelli considerati malfidi furono arrestati e scortati a Tripoli[22]. Nei tre giorni seguenti avvenne una vera e propria caccia all'arabo, inasprita anche dalle crudeltà che gli arabi stessi avevano avuto verso i feriti ed i prigionieri caduti nelle loro mani. Il Primo ministro Giovanni Giolitti si ritrovò con un gran numero di prigionieri civili da gestire in territorio nemico e propose qualche giorno più tardi la deportazione in Italia alle isole Tremiti. Alle Tremiti esisteva già un campo in grado di accogliere fino a 400 prigionieri ma infine ne giunsero circa 1300, mentre altri furono destinati ad altre località. Nell'opinione pubblica italiana la notizia della sanguinosa battaglia e la sorte dei bersaglieri trucidati a Sciara Sciatt rafforzò l'idea che in Libia fosse lecito ricorrere alla repressione contro gli insorti. Invece la stampa estera condannò la reazione italiana, particolarmente dura fu la stampa britannica, con i giornali liberali in prima fila mentre quelli conservatori pur condannando l'azione italiana mantennero toni più pacati. Non è possibile effettuare un conteggio delle vittime della repressione italiana poiché non furono stilati dati all'epoca, le uniche cifre certe riguardano i caduti italiani che ammontano a 105 caduti a cui sono da aggiungere i 290 dispersi che furono uccisi nel cimitero di Rebab ma furono rinvenuti più tardi. La battaglia del 23 ottobre a Sciara el Sciatt fu per gli italiani il fatto d'arme più sanguinoso di tutta la campagna, con 378 morti (di cui 8 ufficiali) e 125 feriti.


Riva di Villasanta

Nacque da una famiglia di militari. Fece i suoi primi studi a Cagliari al Ginnasio “Siotto Pintor” e scoppiata la guerra la sua famiglia si trasferì a Milano dove frequentò l’Istituto Militarizzato di San Celso. Suo padre Giovanni, Maggiore della Brigata Sassari, decorato con due medaglie d'argento al valor militare, cadde combattendo a Monte Castelgomberto, sull’Altipiano di Asiago il 7 giugno 1916. Ai primi di ottobre del 1917, all'età di diciassette anni, fuggì da casa per arruolarsi volontario, e avendo falsificato il suo certificato di nascita in modo che potesse essere nominato Ufficiale senza che avesse raggiunto l’età prescritta, fu arruolato nel 90º Reggimento Fanteria Brigata Salerno. Poco dopo ottenne di recarsi al fronte dove prese parte a diversi combattimenti sul Monte Grappa e sul Piave segnalandosi per il suo valore. Prese parte a un Corso Allievi Ufficiali presso il Comando della III Armata e fu primo classificato, ottenendo, col grado di Aspirante, l’assegnazione nel Corpo dei Bersaglieri da lui prescelto. Nell’agosto del 1918, sul Piave, al comando di un plotone di Arditi, si guadagnò una Medaglia d’argento. Promosso sottotenente di Complemento sempre nell’ 8° Bersaglieri, gli fu affidato il comando delle “Fiamme Cremisi” reggimentali. Fu proposto per la promozione a effettivo per Merito di Guerra, ma cadde eroicamente prima di poter conseguire tale onore. Il 4 novembre 1918, pochi momenti prima della cessazione delle ostilità, al Bivio di Paradiso, mentre alla testa dei suoi Bersaglieri, incalzava il nemico in ritirata, cadde colpito in fronte dalle ultime scariche di una mitragliatrice nemica. Fu l'ultimo militare italiano morto durante la guerra del '15-18.




sabato 23 maggio 2015

LA MISTERIOSA ELEZIONE DI GIUSEPPE SIRI...TRA VATICANO E UNIONE SOVIETICA

Un retroscena clamoroso del conclave del 1958 quello che elesse papa Montini è uscito dopo la scadenza del termine della classificazione grazie al Freedom of Information Act il 28 febbraio 1994; secondo alcuni documenti il 26 ottobre del 1958 fu eletto pontefice Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova, che prese il nome pontificale di Gregorio XVII ma solamente due giorni dopo, su pressione di alcuni cardinali francesi, fu costretto a dimettersi perchè, secondo i servizi segreti, una sua elezione avrebbe comportando l'uccisione di alcuni vescovi nel mondo comunista. La prima persona a leggere questo scottante dossier fu Paul L. Williams, un consulente della Federal Boreau Investigation che nel 2003 pubblicò il libro "The Vatican Exposed: Money, Murder, and the Mafia". Nel testo, l'autore afferma che tutto iniziò nell'anno 1954 quando Pio XII fu avvisato dal Conte Della Torre (che allora occupava l'importante ruolo di Editore dell'Osservatorio Romano) di simpatie comunista del cardinale Angelo Maria Roncalli, che di lì a 4 anni divenne Giovanni XXIII. Naturalmente la notizia raggiunse immediatamente via Veneto, sede dell'Ambasciata americana a Roma e proprio qui alcuni agenti della Cia iniziarono a cercare eventuali simpatie "rosse" di Roncalli. Secondo Williams, Pio XII per evitare che la chiesa prendesse una deriva modernista, nominò "in pectore" il cardinale Giuseppe Siri come suo successore in quanto anticomunista e tradizionalista. Siamo al giorno del conclave, 26 ottobre 1958...secondo il dossier della Cia, Siri raggiunse al terzo ballottaggio i voti necessari per essere eletto papa con tanto di fumata bianca...o forse no? Il papa non si affacciava e la gente a San Pietro temeva di aver frainteso il colore del fumo (allora non si usava festeggiare con le campane il nuovo pontefice), dubbi dissipati quando il segretario del conclave Santaro confermò l'avvenuta elezione. La stessa Radio Vaticana nutriva forti dubbi (nonostante un primo annuncio positivo alle ore 17:55: «Il nuovo papa è stato eletto. Fra poco il cardinale primo diacono, Canali, apparirà a darne l'annuncio. Un fumo bianco, denso, voluminoso, ricopre il tetto della Sistina, ormai non c'è più dubbio che il papa sia fatto»), così come anche il giornale texano The Houston Post parlavano addirittura di "falso responso". In realtà il papa era stato eletto ma la pressione dei francesi intimoriti da una eventuale rappresaglia comunista nell'est europa aveva indotto Siri a dimettersi immediatamente per far posto ad un papa di transizione indicato di Tedeschini che però era troppo malato. I voti andarono a Roncalli che divenne Papa Giovanni XII. Secondo il francese Remy, Siri fu vicinissimo ad una rielezione il 21 giugno del 1963 ma nuovamente alcuni membri del collegio cardinalizio fecero osservare che in caso di elezione del genovese la chiesa avrebbe avuto serissimi problemi oltre la Cortina di Ferro. Lo stesso Remy cercò di estorcere qualche dichiarazione a Siri: "Egli stette per lunghi attimi in silenzio, quindi alzò gli occhi al cielo con un senso di sofferenza e dolore, unì le mani e, pesando le parole con gravità, disse: ‘Sono legato dal segreto' - racconta Remy - Quindi, dopo un lungo silenzio, pesante per tutti noi, disse ancora: ‘Sono legato dal segreto. Questo segreto è orribile. Potrei scrivere libri sui diversi conclavi. Cose molto serie sono accadute in quelle occasioni. Ma non posso dire nulla".(cit. Il Giornale 6 Aprile 2005)
C'è un "però" in questa enigmatica faccenda: Benny Lai nel suo libro Il Papa non eletto: Giuseppe Siri, cardinale di Santa Romana Chiesa, afferma che lo stesso Siri era ben visto dal governo di Mosca quando contattò un famoso pediatra del Gaslini per curare il figlio di Timofeev, console Dell'URSS a Genova. Siri fu usato anche come intermediario tra Mosca e Roma per instaurare un dialogo atto a migliorare i rapporti tra le due realtà. Siri venne addirittura avvolto con tutti gli onori in una visita a Leningrado nel 1974...dove sta la verità?

Articolo di Emiliano Amici

mercoledì 21 gennaio 2015

LIBERA NOS DOMINE, COME LA PESTE NERA CAMBIO' IL VOLTO DELL'EUROPA MEDIEVALE

Tra il 1347 e il 1351 la Peste si portò via sul suo carro funesto una porzione paurosa della popolazione europea (secondo la gran parte delle stime, circa un terzo degli abitanti del continente). Era venuta a Messina a bordo di una flotta proveniente da Caffa, base commerciale genovese sul Mar Nero, dove il morbo aveva iniziato a diffondersi dall'esercito mongolo che la assediava. Nel giro di un anno il flagello aveva toccato quasi ogni angolo d'Europa, trasportato ovunque dai fiorenti commerci, i pellegrinaggi, i numerosi conflitti. Le piazze e le strade delle città si riempirono di cadaveri. Solo a pochi fortunati infatti toccò una degna sepoltura: quasi tutte le vittime passarono all'altro mondo senza nemmeno il pianto dei cari. Si moriva in pochi giorni e ci voleva ancora meno per contrarre la malattia: le vie della “peste nera”, come quelle dell'Onnipotente, erano infinite. Alcuni vedevano nell'onda mortifera un segno della collera di Dio; altri parlavano di congiunzioni astrali; altri ancora puntavano il dito contro ebrei e lebbrosi. Oggi sappiamo che la causa della pestilenza era un bacillo, chiamato Yersinia pestis, trasmesso all'uomo dalla Xenopsilla cheopis, una pulce parassita dei ratti. Ma ciò che per la scienza medica contemporanea appare scontato, all'epoca non era neanche lontanamente immaginabile. A turbare enormemente i medievali, al di là delle cause, era il fatto che né il denaro, né il potere, né le cariche politiche costituivano una valida via di scampo dal morbo. Re, nobili, vescovi, mercanti, contadini e perfino animali perivano indistintamente sotto la falce impietosa della Morte Nera, simile a una gelida livellatrice. Con sguardo ben più lucido e disinteressato, la storiografia più recente ha rivelato quanto diversificate e complesse furono in realtà le vicende seguite a questo cataclisma epocale, tutt'altro che omogeneo. Per dirla con Adriano Prosperi, “nella storia umana, niente, nemmeno la morte, è uguale per tutti”.

CACCIA ALL'UNTORE
Una trattazione che intenda descrivere gli effetti socio-economici della Peste Nera non può che prendere le mosse dalle interpretazioni che della piaga diedero i contemporanei e da coloro che furono additati come colpevoli. Potrà sembrare un aspetto tutto sommato marginale, vista la scarsa rilevanza della gran parte delle numerosissime spiegazioni dell'evento, dimenticate appena dopo esser state teorizzate. A ben vedere però è un tema non secondario per lo storico, non solo perché è in grado di mostrare il modo di pensare dell'uomo del Basso Medioevo, ma soprattutto perché aiuta a comprendere con chiarezza le conseguenze più “immediate” della pandemia. Il Boccaccio, che la Peste la vide coi suoi occhi, enuncia nel suo Decameron le due tesi fondamentali sull'origine del morbo: “l'operazion de' corpi superiori” e la “giusta ira di Dio” per le “nostre inique opere”. La prima fa riferimento alle numerose teorie che ponevano l'accento su fenomeni astronomici, tra cui quella di alcuni dotti arabi secondo i quali la posizione dei corpi celesti poteva aver fatto in modo che i miasmi e le putrefazioni situate nelle profondità della terra fossero risaliti in superficie, provocando l'epidemia. La seconda ipotesi riguarda invece una punizione che Dio, per mezzo della Peste Nera, avrebbe inflitto a un'umanità profondamente lontana dai suoi precetti e dalla sua morale. Su queste e su molte altre possibili spiegazioni si affannavano dotti, filosofi e chierici di tutto rispetto, senza tuttavia addivenire ad una soluzione definitiva. Ma quale fu l'opinione delle masse? L'idea che dietro alla Peste Nera ci fosse la mano di Dio ebbe inizialmente un successo notevole. Lo testimoniano l'aumento vertiginoso del numero di iscritti nelle confraternite religiose e i frequenti lasciti testamentari destinati all'abbellimento e alla ricostruzione di edifici di culto. Non è un caso che nelle liturgie fu introdotta l'invocazione disperata: “A peste, fame et bello / libera nos Domine”. Tuttavia il moltiplicarsi delle vittime, unitamente ai fallimenti della medicina e della preghiera, condussero a una esasperazione tale da far ricercare altri colpevoli. E, come sempre accade, furono presi di mira i più deboli, i “diversi”: lebbrosi e, soprattutto, ebrei. Sui “perfidi Giudei” in particolare si riversò la gran parte della sete di sangue di intere folle prostrate dalla peste bubbonica. Un primo episodio, tragico, si verificò a Tolone, tra il 13 e il 14 aprile 1348, dove una quarantina di Ebrei vennero massacrati furiosamente. Nel giro di poco fatti di cronaca come questo divennero la normalità. Le minoranze ebraiche di tutta Europa tremavano sotto la minaccia dello sterminio, dell'espulsione o di processi dai tratti farseschi. Vani furono i tentativi del papa, Clemente VI, e delle autorità cittadine di affermare l'innocenza degli ebrei. Ad avere successo potevano essere solo coloro che cavalcavano in pieno l'inarrestabile ondata d'odio, facendo leva, in quegli anni di isteria collettiva, sulle paure più antiche e radicate nelle fasce basse della società, sulla naturale irrazionalità che conquista gli uomini in ogni catastrofe. Nell'intento riuscirono benissimo i Flagellanti, gruppi di individui che giravano per le città dell'Europa centrale frustandosi la schiena e incitando a trucidare gli ebrei. Le loro argomentazioni erano piuttosto semplici: gli infidi amici di Giuda, ancora sporchi del sangue di Cristo, avevano avvelenato i pozzi, dando inizio all'epidemia, e perciò meritavano la morte, unica via di purificazione. Per quanto drastiche, le prediche degli esponenti di tale movimento non potevano trovare terreno più fertile: se da un lato appagavano gli animi bollenti delle masse incolte perennemente alla ricerca di uno sfogo, dall'altro guadagnavano il consenso di alcuni esponenti delle classi più agiate che approfittavano delle persecuzioni contro gli ebrei per trarne profitto in termini economici, impadronendosi dei loro beni. Eccezione d'onore, una volta tanto, fu l'Italia. Per capire in che senso però dobbiamo partire da quanto scrisse lo storico fiorentino Giovanni Villani (1276-1348), autore della “Nuova Cronica”, da lui lasciata incompiuta proprio perché caduto vittima del morbo. Come in quasi tutti i cronisti italiani che hanno raccontato la Peste Nera, il flagello fu da lui inquadrato in un più ampio sfondo apocalittico, fatto di cupi presagi come comete, terremoti, carestie. Di ebrei, tuttavia, neanche l'ombra. E non si trattava di un caso: il fatto che i cronisti italiani come il Villani omettessero o, in parecchi casi, confutassero le accuse ai “perfidi Giudei” riflette l'atteggiamento ben più tollerante che si registra in tutta la penisola italiana verso di loro. Le persecuzioni, i massacri, i processi rimasero nulla più che occasioni isolate, senza alcun seguito rilevante. Perché, verrebbe da chiedersi? I motivi potrebbero essere stati essenzialmente due. In primo luogo, l'Italia era una realtà frammentata, sia da un punto di vista etnico, sia sotto il profilo politico: come poteva un territorio privo di identità nazionale percepire come estranea una delle moltissime minoranze che lo abitavano? Secondariamente, ma non per importanza, gli ebrei e le loro attività economiche avevano tutte le carte in regola per integrarsi alla perfezione nella realtà cittadina italiana, fatta di commercianti e di traffici, di prestatori di denaro e di artigiani. Culmine dell'ondata di abbrutimento furono l'ingresso nella cultura popolare di una serie notevole di inedite figure maligne e la riesumazione di leggende sepolte negli abissi della memoria. Sembra che fosse proprio il 1350, come spiega Jean-Claude Schmitt, l'anno in cui una serie di temi che separatamente avevano a che fare con la stregoneria si condensarono nello stereotipo della strega, destinato ad avere molta fortuna in Europa. Il collegamento immediato con la Peste Nera non è certo, ma altamente probabile. Il fenomeno, d'altro canto, parrebbe perfettamente coerente con la sete di sangue colpevole di quegli anni. Ma non tutti si affannarono a dar la caccia agli untori. Alcuni, infatti, certi che prima o poi il carro funesto della Morte se li sarebbe portati via, abbandonarono i freni che la società medievale imponeva e, in una sorta di oraziano “carpe diem” portato alle estreme conseguenze, dedicarono i loro ultimi giorni di vita terrena ad assaporare il peccaminoso gusto della lussuria. Ancora una volta dobbiamo affidarci alle parole di Boccaccio: “Altri  […] affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfar d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male”.

LE CITTA' E LE CAMPAGNE: NUOVI RAPPORTI
Black Death.jpgAccanto alle conseguenze immediate del morbo troviamo dei cambiamenti duraturi che questo portò con sé. Dopo la Peste Nera nessun villaggio, città o regione rimasero gli stessi. Marx la inserì tra i punti salienti della grande Crisi del Trecento, da lui interpretata come il cominciamento del turbinio di eventi che avrebbe condotto al definitivo collasso del sistema feudale. Un po' in tutta Europa, in effetti, si registrano novità, in primis nei rapporti sociali ed economici. Ma, sebbene il pensiero marxista possa al riguardo trarre in inganno, i mutamenti furono di entità e importanza diverse, a seconda dell'area geografica. In Europa centrale e orientale la nobiltà feudale reagì duramente ai malcontenti delle masse contadine, attraverso un deciso inasprimento del controllo sociale. Da questa si distinse la situazione nelle campagne e nelle città delle aree mediterranee, dove, da un lato, mercanti e banchieri, in cerca di maggiore sicurezza, volsero le loro mire alle zone rurali sostituendosi spesso alla nobiltà locale; dall'altro in molti casi le famiglie contadine, spinte dalla necessità, dovettero provvedere come prima cosa al loro sostentamento, praticando una produzione agricola finalizzata prevalentemente  all'autoconsumo. Di particolare interesse furono i mutamenti verificatisi nell'Europa atlantica e inglese, dove la Peste Nera, che si aggiungeva ai continui conflitti (per dirne uno: la Guerra dei Cento Anni) e al fiscalismo spietato praticato dalle autorità politiche, condusse ad un drastico indebolimento della nobiltà feudale, che dovette assistere impotente al ridimensionamento della sua autorità. Spostato il baricentro della realtà sociale, i vuoti di potere furono colmati prevalentemente da ricchi borghesi alla ribalta. Ai contadini, come di solito accade, toccò una sorte ben più misera. Stremati dalle continue pestilenze, dalla tassazione e dalle devastazioni della guerra si riunirono in gruppi, seguirono predicatori che promettevano il riscatto sociale e la vendetta e imbracciarono armi o, se non ne avevano, bastoni. Uno dei tumulti principali in quell'area d'Europa fu la Jacquerie francese del maggio 1358. Condotta da un certo Guillaume Charles, la massa di braccianti in rivolta partì dall'Ile-de-France e da lì si estese a macchia d'olio alle zone limitrofe. “Questa è la verità: vergogna a chi non vuole la morte dei nobili” mugugnavano quei contadini furibondi, secondo il racconto del Froissart. Ma il sogno durò poco: i signori delle campagne ebbero facilmente la meglio su quella banda di disperati, che morirono, pare, in 20000. E analoghe considerazioni potrebbero farsi con riguardo alla rivolta inglese del 1381 e a molte altre, tutte accomunate, oltre che da un esito poco felice, dal primo germe di una coscienza “di classe” che condusse il semplice lavoratore o contadino a richiedere condizioni lavorative migliori, salari più alti e una pressione fiscale ridotta.
Quel che all'epoca della Peste Nera nessuno poteva sapere era che il bacillo del morbo avrebbe continuato a serpeggiare indisturbato e silenzioso, colpendo periodicamente questa o quella città. Basti pensare a Firenze, piegata da altre epidemie nel 1363, 1371, 1374, 1390 e 1400. Se nei centri urbani, dove un gran numero persone si era insediato per sfuggire al morbo e alle guerre, ogni diffusione della pestilenza aveva conseguenze esiziali, nelle campagne, a poco a poco, il calo demografico lasciò vaste terre abbandonate. Ecco perché spesso accadeva che le autorità politiche cercassero di attirare contadini da altre regioni affinché questi si curassero delle zone rurali lasciate al loro destino per via della peste  e, al contempo, di impedire che i coltivatori loro sudditi andassero a cercar fortuna altrove, abbandonando i rispettivi fondi. Tuttavia, la legge non influì minimamente sulle migrazioni e gli spostamenti del contado, ben lungi dal lasciarsi scappare ghiotte occasioni di arricchimento. La disubbidienza alle autorità non si spiega solo con la materiale difficoltà per le istituzioni politiche di mantenere intatti gli apparati giudiziari e militari: la Peste Nera, in un certo senso, mutò anche la mentalità. Il morbo alla lunga aveva decimato la popolazione europea, ma non solo i peccatori né tanto meno solo i poveri. Morivano tutti, indipendentemente da quanto importanti fossero. Questa morte beffarda si prendeva gioco dell'umanità intera e, in definitiva, ne svalutava l'importanza. Non è un caso che dopo la Peste Nera il tema delle arti figurative (che già esisteva) noto come “Trionfo della morte” divenne tra i più richiesti. Un celeberrimo esempio, sebbene di poco anteriore alla Peste del 1348, è l'affresco di Buonamico Buffalmacco, che si trova al Camposanto di Pisa: sotto la Morte, di aspetto terrificante, giacciono i corpi esanimi di villani, servi, imperatori, principi, pontefici: tante glorie e miserie terrene, un solo destino.

UN PASSO VERSO IL RINASCIMENTO?
La popolazione europea, dopo la Peste Nera (e i successivi strascichi), diminuì di quasi un terzo. Degli 80 milioni di individui che abitavano il continente agli inizi del XIV secolo ne morirono circa 25 milioni, con tassi di mortalità arrivati in alcune zone addirittura al 50%. L'Italia, che era una delle regioni più popolose d'Europa, passò dai 9,3 milioni di abitanti del 1340 ai 5,5 milioni di abitanti del 1400 (una diminuzione del 40,9%!). Una crisi “malthusiana” in piena regola, si potrebbe dire. Solo in poche aree, come nel Regno di Polonia o a Milano, gli effetti in termini demografici furono nulli o esigui. Di fronte alle cifre, diventa una certezza: fu una catastrofe. Ma può essere sufficiente limitarsi a questa  semplice constatazione, tenuto conto dei cambiamenti socio-economici che la Peste Nera provocò? A causa della pandemia, mutarono i rapporti nelle città e nelle campagne e, soprattutto, il modo di pensare comune. L'intero sistema sociale del Basso Medioevo fu messo in discussione per la prima volta, in tutte le sue componenti, e quel che stupisce è che a farlo furono principalmente gli umili lavoratori, i servi, i contadini, i braccianti. Gli ultimi, insomma. E sulla crisi delle millenarie certezze del mondo medievale si sarebbe poi costruita la rinascita. Meglio: il Rinascimento.

BIBLIOGRAFIA
Adriano Prosperi, “Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent'anni” in “Storia moderna e contemporanea”, Einaudi, Torino, 2000
Giovanni Villani, “Nuova Cronica”
Giovanni Boccaccio, “Decameron” a cura di Vittore Branca, Mondadori, Milano, 1985
Jean-Claude Schmitt, “Medioevo <>”, Editori Laterza, Bari, 1992
William H. McNeill, “La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea”, Einaudi, Torino, 1981
Camillo Di Cicco, “Storia della Peste da morte nera ad arma biologica”, Createspace, 2014
Catia Di Girolamo, “La peste nera e la crisi del Trecento” in “Il Medioevo” a cura di Umberto Eco, Vol. 7, pp. 147-156, Federico Motta Editore, Milano, 2009
“The Black Death. The History and Legacy Of The Middle Ages' Deadliest Plague”, Charles River Editors, 2014

giovedì 8 gennaio 2015

L'ATTENTATO DI PARIGI, I SUOI PRODROMI E LE SUE CONSEGUENZE


Sguardo Sul Medioevo parla non solo di Medioevo: segue attentamente la cronaca di tutti i giorni cercando anche di fare considerazioni, anche scomode su quanto accade del mondo, un mondo distrutto da guerre religiose che sembrano catapultarci in un lontano periodo fatto di colonizzazione e crociate. Ciò che è successo in Francia è grave, molto grave perchè ci troviamo dinanzi ad una vera e propria guerra santa e quindi ritengo opportuno dedicare un pensiero all'attentato a Parigi...

L'ATTENTATO DI PARIGI

Da quando esiste l'Unione Europea e il conseguente Trattato di Schenghen si è visto negli ultimi anni ad una moltitudine di individui scorazzare liberamente in europa la gran parte come clandestini, senza un documento, senza un codice di identificazione stipati in campi profughi, in quartieri delle grandi città o in zone-ghetto come i campi rom. Non faremo di "tutta l'erba un fascio" non è nel nostro e mio costume. Io sono per il dialogo con tutte le religioni e con le diverse confessioni, pertanto mi limiterò ad una considerazione che ritengo ovvia e semplice...

Tutti conoscete Oriana Fallaci....una scrittrice eccezionale, che adoro...ho letto i suoi libri, una donna che ha visto il Vietnam davvero da protagonista, che ha intervistato i grandi della Terra e che nel 2001 si è sentita dare della fascista solamente perchè disse:

Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri

Anche Benedetto XVI aveva richiamato l'Europa ad un ritorno alla sua cultura, alle sue tradizioni accettando ma non facendo intromettere altre culture. Io stesso ho vissuto con una famiglia di stranieri ne ho apprezzato la cultura e le tradizioni, non ho difficoltà a sedermi a tavolo con un islamico, o ebreo che sia a patto che come io rispetto Allah loro devono rispettare Cristo o chi per lui. Ricordo con piacere una chiacchierata con un musulmano in cui chiesi delucidazioni sulla figura di Maometto e sul Corano. Nel 2009 andai alla Moschea di Roma per parlare con una persona proprio per cercare di capire di più sull'islam (su cui stavo preparando un esame universitario) e rimasi impressionato dalla loro cultura e dalla bellezza della moschea. Fui salutato con una calorosa stretta di mano e uscii dall'ufficio della persona davvero "ricco". Così come amo capire la cultura ebraica...cerco di capire, di confrontare, di crearmi un'idea, un pensiero, questo per dire che non sto facendo un discorso razzista e mai mi permetterei di negare il saluto ad uno che chiama il proprio dio Allah.
La globalizzazione feroce e l'eccessiva apertura dell'Europa ha consentito a molti kamikaze di formarsi culturalmente in Europa dando l'apparenza di fondersi nella lingua, nella società del paese ospitante per poi puntare un luogo e farsi saltare in aria (si veda "Kamikaze Made in Europe" del bravo e coraggioso Magdi Magdi Cristiano Allam). Oggi è successo a Parigi una cosa che non deve stupire in realtà: questa sottomissione alle altre culture ha consentito quelle che io chiamo "Crociate al contrario" che in tutta risposta ottengono solo le solite dichiarazioni di facciata del tipo:
"Lotta al terrorismo"
"atto di terrorismo"
"Barbiarie"...
Cari politicanti Europei, il vostro lassismo ha consentito tutto questo. Non avete posto uno straccio di controllo a questa ondata migratoria unica al mondo! Gli attentatori di Madrid e Londra erano formati culturalmente in Inghilterra e Spagna, gli stessi attentatori del 2001 erano "europei" questo per mascherarsi adeguatamente per poi "cicciare" al momento opportuno.
Io insisto sul papa.....Giovanni Paolo II, come ho scritto già, chiese perdono ai crimini cristiani in terrasanta durante le crociate, ma non ho mai sentito un musulmano "estremista" che chiedesse scusa per gli attentati in questi anni...Ora abbiamo quello che chiamo il "Maradona del Vaticano"...altro imbonitore che con un semplice "Fratelli e Sorelle, Buongiorno!", pontifica dai suoi lussuosi palazzi senza prendere mai uno straccio di iniziativa. (Si...anche la Domus Sancta Martha è lussuosa, non è un monolocale in periferia). Scendesse Papa Francesco dalla sua dimora lussuosa e andasse nelle moschee, nei quartieri delle nostre città per far capire che un dialogo tra cristiani e musulmani non solo è cosa buona e giusta ma anche foriero di pace! Bene fece Giovanni Paolo a chiamare a raccolta tutti gli esponenti delle grandi religioni...perchè non è stato fatto più? A chi conviene? A chi conviene questo massacro avvenuto in Francia? A chi è convenuto l'attentato a Madrid o a Londra?

Mi sento vicino alle vittime e al poliziotto ucciso come un cane con un colpo in testa disarmato a terra agonizzante; è ovvio, non tutti sono così...conosco musulmani che lavorano che mi hanno mostrato simpatia e correttezza, ho vissuto con stranieri, quindi a me razzista non lo dite proprio. L'Islam moderato ha reagito con orrore a quanto avvenuto: spesso si dice che l'islam moderato non esiste e non credo che sia vero, anzi...proprio loro sono il punto da cui ripartire. 

Le conseguenze? Non si possono prevedere...non sono uno stratega esperto in questioni militare e di intelligence ma sicuramente vi saranno altre limitazioni alla nostra libertà. Anche andare in aeroporto sarà più noioso e difficile e purtroppo dovremo passare ore ed ore a sentire le stesse frasi di circostanza che daranno l'impressione che le cose possano cambiare, che in realtà siamo tutti in pericolo e che l'immigrazione CLANDESTINA non è la causa degli attentati. Le istituzioni devono muoversi rapidamente, smontando tutte quelle cellule impazzite che possono diffondersi così come fa un cancro, bloccando accessi di persone segnalate, arrestando quelle persone segnalate come possibili terroristi...ci vuole solo un po' di buona volontà, signori delle istituzioni.

L'Europa è FALLITA miseramente nel suo tentativo di conciliazione, è ora che ognuno si guardi i propri confini affinchè si possa difendere come meglio crede.

Invoco le istituzioni religiose del mondo...musulmani, cattolici, ebrei, protestanti a riunirsi attorno ad un tavolo, a trovare la via idonea per una concreta collaborazione tra coscienze. 

Detto questo....siamo tutti figli di Dio.

Emiliano Amici

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