Il V secolo fu uno dei più decisivi per la storia successiva della civiltà mondiale. Esso si aprì con la presa alariciana di Roma, avvenuta il 24 agosto del 410 forse con la complicità dei popolani dall'interno delle mura, evento che provocò una fortissima emozione in tutto il mondo. Il sacco visigoto non generò gravi danni né alle persone né agli edifici, ma violò irreparabilmente l'aura di invulnerabilità che circondava l'ex capitale dell'Impero da più di otto secoli, e generò sgomento fra le genti dell'epoca, persino fra gli stessi popoli barbarici. Furono tuttavia i cristiani coloro che elaborarono con maggior originalità il lutto per una tragedia così colossale. San Girolamo, acerrimo critico di Roma vista come manifestazione del secolo e della mondanità demoniaca, scrisse che all'arrivo della notizia nella sua cella in Palestina rimase talmente scioccato da non ricordarsi più il proprio nome, perché si rese conto che “Il lume del mondo” si era spento. Tutti avevano coscienza che il mondo fino ad allora conosciuto e vissuto era giunto al capolinea, che si erano generati un “prima” e un “dopo” nel corso della Storia e che un modello politico, sociale e culturale avevano esaurito la sua missione in maniera plateale e pubblica. Tale concezione, impalpabile ma non per questo meno forte, andò prendendo sempre più favori man mano che i rovesci imperiali, le lotte al vertice dello Stato, l'incalzare di nuove popolazioni barbariche riducevano a un puro ricordo la potenza romana di appena un secolo prima. Non sorprende quindi che la Chiesa assumesse, come sappiamo, sempre più peso politico. Era l'unica sovrastruttura che fosse ancora in piedi e ben organizzata nonostante le difficoltà e le diversità delle varie regioni imperiali (una situazione molto simile a quella che si presenterà nell'Europa all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale) e aveva 5 centri apostolici di cui uno, sito proprio nell'antica capitale, andava acquisendo sempre più preminenza rispetto agli altri 4. Fu con il vescovato di Leone, eletto nel 440 mentre era impegnato in un'ambasceria in Gallia, che il Papato assurse a vette di importanza politica e religiosa che raggiungerà poi solo un secolo e mezzo più tardi con Gregorio Magno. Leone veniva forse dalla Toscana, ma si era inserito nel clero locale come diacono già sotto Celestino I ed era un ottimo rappresentante di quella mentalità cristiana tutta impregnata di romanesimo, che in quel momento si presentava come unica custode dei valori e delle tradizioni romane. Leone accettò la carica ben sapendo che non si sarebbe limitato, come i suoi predecessori, alla gestione delle anime dei romani, ma anche a quella dei loro corpi. Dai suoi Sermoni e dall'Epistolario, di cui conserviamo circa 140 lettere, emerge la sua concezione ecclesiologica tipicamente romana: la difesa del primato della Sede di Roma sulle altre in virtù dell'appello a lui rivolto dal Patriarca di Costantinopoli, Flaviano, in merito al concilio di Efeso che aveva approvato la dottrina monofisista del monaco Eutiche. Concilio da Leone definito “ladrocinio” e che condusse al IV Ecumenico di Calcedonia; l'opinione sui rapporti fra Chiesa di Roma e Imperatore, con quest'ultimo che si vede riconosciuto solo un ruolo di difensore della fede, sacro perché unto del Signore, ma incompetente in materia di governo della gerarchia ecclesiastica; gli strali contro la rilassatezza dei costumi che registrava nella stessa Urbe, uscita da poco dal secondo sacco della sua storia, ben più devastante del primo. Evitata l'invasione da parte di Attila nel 452 grazie alle sue doti diplomatiche, Leone non riuscì a fare lo stesso in occasione di quella di Genserico, tre anni dopo: ottenne che la vita degli abitanti sarebbe stata risparmiata, e così le tre basiliche patriarcali dell'Urbe.
Questi due casi segnarono decisamente il passaggio di fatto del Papato da autorità religiosa e morale a “potenza” politica e diplomatica, cosa che risaltava maggiormente se si considera l'ignavia del senato, ancora esistente ma privo di funzioni se non quella vanagloriosa, e l'indifferenza degli imperatori d'Occidente e d'Oriente per la sorte della culla della civiltà. I Romani si rifugiarono nelle tre chiese dichiarate immuni, ma per il resto la città fu saccheggiata durante 14 lunghi giorni, e all'alba del quindicesimo l navi dei Vandali, cariche di oggetti preziosi e di migliaia di artigiani che dovevano servire al di là del mare per i lavori in Africa, abbandonarono un luogo che mai aveva conosciuto una simile devastazione. Leone parlò di una “romana captivas multis lacrimis digna” e istituì penitenze e digiuni per allontanare la collera divina dall'Urbe, da lui stesso definita “caput orbis”, ma si rese ben presto conto che la lezione non era servita ai romani, i quali, scampati al pericolo, tornarono alle loro vite mondane di tutti i giorni, cristiani o pagani che fossero. Gli ultimi 10 anni dei 21 che passò sulla cattedra di Pietro trascorsero senza incidenti esterni, nel mentre la sua autorità andava acquisendo un potere sempre più secolare e temporale a Roma e nel circondario. Quando, il 10 novembre 461, rese l'anima a Dio, i Romani manifestavano un sincero cordoglio per Leone, che aveva reso loro l'alto servigio di “romanizzare” il Cristianesimo – o “cristianizzare” la romanità, se volete – in modo da dare un'impronta secolare a quella che sarà definita Tradizione Romana.
Articolo di Domenico Corcione. Tutti i diritti riservati.
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