Secondo una leggenda medievale, a noi giunta in versioni differenti, re Artù non riposerebbe nella mitica isola di Avalon, ma vivrebbe nascosto in Sicilia, e più precisamente all’interno dell’Etna. Il primo scrittore a riferirci questa leggenda è Gervasio da Tilbury (1155-1234), il quale narra che, un giorno, il cavallo del vescovo di Catania fuggì al palafreniere che lo aveva in custodia. Il ragazzo cominciò a cercarlo in lungo e in largo, giungendo così sulla sommità dell’Etna; all’interno del vulcano trovò uno stretto sentiero, che lo condusse “ad una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d’ogni delizia; e qui, in un palazzo di mirabile fattura, trovò Artù adagiato sopra un letto regale”. Il re, saputo il motivo per cui il palafreniere era giunto fin lì, gli fece portare il cavallo perché lo restituisse al vescovo; inoltre gli raccontò che molti anni prima aveva combattuto una violenta battaglia contro il nipote Mordred e che, essendo stato ferito, si era rifugiato in Sicilia. Abbastanza simile (anche se con qualche variazione) è la versione esposta dall’abate Cesario di Heisterbach. Si può ritrovare un riferimento a questa leggenda anche in una poesia siciliana del XIII secolo (riportata da Arturo Graf), nella quale due cavalieri dicono esplicitamente che Artù potrebbe trovarsi all'interno dell'Etna.
"Cavalieri siamo di Bretagna
Ke vengnamo de la montagna,
ke ll'omo apella Mongibello [l'Etna].
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire,
lo re Artù k'avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
Ne lo reame d'Inghilterra."
Questi racconti possono apparire decisamente strani, e in effetti stupisce un po' vedere come un personaggio appartenente al ciclo bretone e così "nordico" come Artù, venga catapultato nella calda terra di Trinacria. Ma stupisce ancor di più che questo re, che tradizionalmente viene presentato come "solare", positivo, e la cui storia è legata addirittura al santo Graal, sia collocato all'interno di un vulcano. Infatti molte leggende antiche consideravano i vulcani come delle "bocche" spalancate verso l'inferno, anche perché, nel medioevo cristiano, il fuoco e lo zolfoche i crateri sprigionano dovevano richiamare alla mente il fuoco che non si estingue dellaGeenna, o lo stagno di fuoco e zolfo dove, secondo l'Apocalisse (Ap. 20:10), viene gettato il diavolo assieme alla bestia e al falso profeta. Insomma, le colate laviche, le grandi fiammate, le esplosioni e le esalazioni tossiche, da un punto di vista simbolico, possono essere ben associate all'"inferno", luogo dove non ci aspetteremmo di trovare Artù.
Non bisogna però dimenticare che, se l'Etna nel suo aspetto malefico è un vulcano, nel suo aspetto positivo è in realtà un monte (alto oltre 3300 metri!), tanto che gli stessi abitanti di Catania, in dialetto, lo chiamano proprio a Muntagna (la montagna). Secondo il poeta greco Pindaro questa montagna era addirittura "la colonna del Cielo", ed è chiaro che qui si riferiva al suo aspetto "benefico". Inoltre, tornando alla leggenda di partenza, si può notare anche che l'interno dell'Etna viene descritto come un luogo accogliente, ricco e felice (una campagna assai spaziosa e gioconda, e piena d’ogni delizia), tutt'altro che infernale. Questa descrizione si addice perfettamente pure a molti altri luoghi simbolici, come il Regno del Prete Gianni e il Paradiso Terrestre (che non a caso, secondo la visione di Dante, si trova in cima al monte del Purgatorio) o le "Isole Fortunate". Se rimaniamo fedeli al mito, senza cercare quindi di identificare l'isola di Avalon con una determinata località, possiamo dire che anche quest'ultimo luogo ha le stesse caratteristiche di "inaccessibilità" (o accessibilità per pochi), e di prosperità. Si dice ad esempio che l'isola sia circondata da altissime onde impraticabili, oltre che da una fittissima nebbia, e che al suo interno ci siano alberi dai frutti dorati e fiumi di vino. Il misterioso e simbolico paese nascosto dentro all'Etna funge allora da equivalente di Avalon, e gli elementi simbolici ci suggeriscono come questa equivalenza sia lecita, non arbitraria. Con buona pace degli inglesi, qualcosa di "arturiano" forse lo abbiamo anche noi italiani.
Si ringrazia per l'articolo http://josephussblog.blogspot.it
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