Alarico I, secondo re dei Goti (fonte: wikipedia.org) |
E’ notte fonda nell’Urbe, ma nonostante questo le ore più buie devono ancora arrivare. Alla fine dell’estate, la città è ancora in preda ai vapori che la calura semina nell’aria. I romani che riescono a prendere sonno nonostante l’afa si avviluppano in sogni agitati, ma il 25 agosto è alle porte, e col primo sole bisogna alzarsi e riprendere il lavoro. Non tutti riposano, però. Perfino tra gli schiavi, fiaccati dai lavori più umili, invisi, degradati, c’è chi è ancora sveglio nonostante l’ora. Hanno da fare, ed è un’operosità furtiva la loro. Piccole sagome industriose che si muovono in fretta negli angoli bui della metropoli, dirette al medesimo luogo. La Porta Salaria deputata a raccordare la parte nuova dell’omonima arteria per il trasporto del sale con quella vecchia che, uscendo da Roma, raggiunge la Sabina e, di qui, l’Adriatico. Sono giorni travagliati, quelli. Cambiamenti profondi lacerano il tessuto sociale dell’Impero, mentre in silenzio e senza tregua scolorisce il limes sacro che difendeva le terre su cui alto splendeva il lume della civiltà da quelle in balìa delle orde barbariche. Lo stesso concetto di “barbaro” sta scomparendo, mentre il cristianesimo fa man bassa delle coscienze e l’identità romana si sfalda sotto la pressione delle migrazioni di cento popoli che anelano terre migliori e ben più fulgide opportunità.
Roma resta però arroccata nel suo primato dorato. Scrollatasi di dosso l’impaccio di essere capitale di un Impero in dissoluzione, onere spartito in egual misura tra Ravenna per l’Occidente e Costantinopoli per l’Oriente, in quanto città cosmopolita e ricca, effervescente e dinamica, rimane salda al centro della scena. E’ ancora l’indiscusso ombelico del mondo. Ma anche al suo interno esistono pressioni sociali che faticano a quietarsi. Manca linfa nuova, e nuove energie per far fronte ai tempi mutati. Come se non bastasse, il quadrante della Salaria costituisce al momento per l’Urbe una zona a rischio. Poco fuori dalle mura si intravedono, ancora accesi nonostante la tarda ora, i falò del nemico. I Goti sono ad un passo. Alarico I attende nel buio. Ma è proprio per questo che quegli uomini scivolano nel buio. Nessuno straniero insudicia il suolo sacro di Roma da ottocento lunghi anni. L’ultimo ad averla violata era stato il re dei Celti, il folle Brenno che aveva introdotto le sue orde fin sulla soglia dei templi. Ma i tempi sono ormai mutati, ed ora quegli uomini silenziosi stanno per riaprire il corso della storia. Porta Salaria è serrata, come sempre. Ma viene riaperta, i battenti lasciati socchiusi di quel tanto che basta alle avanguardie gote per insinuarsi e preparare la via al grosso dell’esercito, e ad Alarico, soprattutto. Il sacco dura settantadue ore filate. Non si salva quasi nulla, ed anche se il re si è raccomandato, le sue schiere compiono atti irriferibili un po’ ovunque. Si salva il Papa, Innocenzo I, che è finito sotto la protezione del primo vero monarca che i barbari espugnatori hanno deciso di darsi. Si salva dalla collera, e vede risparmiate le chiese ed il tesoro degli Apostoli, traslato in tutta fretta ed al canto dei Salmi in Vaticano mentre il popolo paga il conto dell’inferno. Si salva, ma deve assistere impotente alle stragi che i goti dell’Ovest, i Westgoten, perpetrano trovando negli schiavi traditori ottimi compagni di massacro e ideali sodali di vendetta. Cadono come fuscelli gli edifici più fastosi della città, ma accade di peggio all’anima stessa dell’Urbe, che vede perire tra le fiamme il mito dell’invulnerabilità dell’Impero. Passato Alarico, Roma si ritroverà cambiata nel profondo. Ben oltre il saccheggio, le morti, l’onta. Mentre i paladini della fede S.Agostino e Salviano da Marsiglia seguiteranno negli anni a gridare al sacco come punizione divina per una capitale pagana e peccatrice, il re goto lascerà l’Urbe con le mani ricolme degli ori di una gloria che fu. Roma è il ventre dell’Occidente ed ospita ricchezze immense. In primo luogo, il tesoro trafugato dal tempio di Gerusalemme da un assediante altrettanto crudele, Tito Flavio Vespasiano, che nel 70 d.C. mise a ferro e fuoco la culla della fede durante la guerra di Giudea. Il 28 agosto Alarico si muove da Roma. Il suo seguito si è enormemente ingrossato. Al bottino si aggiungono i prigionieri, prelevati a forza tra gli altolocati dell’Urbe. L’oro è molto, non altrettante le provviste che le schiere speravano di trovare. Va da sé che i Goti si danno al saccheggio facile, avventandosi sulla campagna romana. Portano con sé nelle scorrerie perfino un greco dell'Asia che gode di buona fama come oratore e poeta aulico, oltre ad essere influente membro del Senato romano, Prisco Attalo. Alarico lo metterà sul trono imperiale proprio mentre il legittimo monarca, Onorio, è rinchiuso a Ravenna. E c’è anche la figlia di Teodosio il Grande, Galla Placidia, sorella di Onorio stesso, perla quale Alarico prova un’attrazione feroce. La schiera visigota ha un piano. Attraversare l’Italia durante l’autunno per raggiungere il Bruzio, la punta dello stivale, e qui svernare in attesa del ritorno della bella stagione per poi transitare in Sicilia e raggiungere finalmente la calda beatitudine del sole d’Africa. Ma serve cibo per l’esercito, e dunque ogni sosta diviene un buon motivo per fare scorta, e strage. Alarico guida i suoi in Campania, espugna prima Capua e poi Nola. La sua sbirraglia decima le popolazioni rurali, e quando non uccide è intenta ad annegare in fiumi di Falerno durante festini interminabili in cui la manodopera per il servizio è rappresentata dagli ex signori del mondo, i nobili romani. Menano clamore e strage, i Goti, tanto che un monaco, storico, poeta e scrittore longobardo di espressione latina di nome Paul Warnefried, nato in Friuli e passato alla storia come Paolo Diacono, li stigmatizzerà a secoli di distanza trovando traccia dei loro castighi nell’opera dello storico bizantino del VI secolo Giordane, De origine actibusque Getarum, che a sua volta aveva consultato la Historia gothica del ministro e consigliere dei re barbari, Cassiodoro di Squillace. L’esercito di Alarico I solca la Lucania e marcia nel Bruzio, finché di fronte alle picche degli armati non appaiono il mare e Reggio. Smaniosi di mettere piede in Sicilia, salpano in fretta, ma un naufragio gli apporta gran danno e sono costretti a tornare sulla costa calabra. Alarico è stremato. Nonostante la frenesia delle celebrazioni di vizio e di potenza alle quali si abbandona, primus inter pares di una stirpe di guerrieri ed espugnatori ed inauguratori di una nuova éra, sul suo capo pende l’ombra della malattia. Siamo nel 410. Appena cinque anni dopo, a Narbonne, in Gallia, un nuovo re visigoto, suo cognato Ataulfo, celebrerà le nozze solenni con Galla Placidia. A stilare la cronaca dell’evento, lo storico tebano Olimpiodoro nella sua Historia dedicata all’imperatore Teodosio II. Lo sposo visigoto indossa un clamide di foggia romana, e porta in dono alla consorte una parte cospicua dei tesori trafugati durante il sacco dell’Urbe. Cinquanta giovani abbigliati di seta fanno il loro aggraziato ingresso nella camera da letto degli sposi, recando ciascuno due grandi vassoi, uno pieno d’oro, l’altro di pietre preziose. Frattanto, tra epitalami e celebrazioni varie, i numerosi convenuti goti e perfino romani si rallegrano vivamente. Cosa ne è stato di Alarico? La malattia, ma alcuni sostengono i postumi fatali di un più diretto colpo di lancia nemico, lo ha condotto in fretta verso la morte, ad appena 40 anni. Spalancando le porte del regno goto – e le coltri del talamo di Galla Placidia - ad Ataulfo. Alarico I muore a Cosenza, pochi mesi dopo aver espugnato Roma. I suoi dignitari decidono di seppellirlo in Italia. Sin qui arriva il certo. Tutto ciò che segue è leggenda, mito, supposizione. Secoli dopo, nel 1820, il conte e drammaturgo August von Platen-Hallermünde pubblica l’opera Das Grab im Busento. La tomba nel Busento. Una ballata tradotta dall’originale tedesco dal poeta Carducci, dedicata alla triste ed oscura fine del re goto e, soprattutto, delle ricchezze trafugate nel corso delle sue scorrerie italiche.
Roma resta però arroccata nel suo primato dorato. Scrollatasi di dosso l’impaccio di essere capitale di un Impero in dissoluzione, onere spartito in egual misura tra Ravenna per l’Occidente e Costantinopoli per l’Oriente, in quanto città cosmopolita e ricca, effervescente e dinamica, rimane salda al centro della scena. E’ ancora l’indiscusso ombelico del mondo. Ma anche al suo interno esistono pressioni sociali che faticano a quietarsi. Manca linfa nuova, e nuove energie per far fronte ai tempi mutati. Come se non bastasse, il quadrante della Salaria costituisce al momento per l’Urbe una zona a rischio. Poco fuori dalle mura si intravedono, ancora accesi nonostante la tarda ora, i falò del nemico. I Goti sono ad un passo. Alarico I attende nel buio. Ma è proprio per questo che quegli uomini scivolano nel buio. Nessuno straniero insudicia il suolo sacro di Roma da ottocento lunghi anni. L’ultimo ad averla violata era stato il re dei Celti, il folle Brenno che aveva introdotto le sue orde fin sulla soglia dei templi. Ma i tempi sono ormai mutati, ed ora quegli uomini silenziosi stanno per riaprire il corso della storia. Porta Salaria è serrata, come sempre. Ma viene riaperta, i battenti lasciati socchiusi di quel tanto che basta alle avanguardie gote per insinuarsi e preparare la via al grosso dell’esercito, e ad Alarico, soprattutto. Il sacco dura settantadue ore filate. Non si salva quasi nulla, ed anche se il re si è raccomandato, le sue schiere compiono atti irriferibili un po’ ovunque. Si salva il Papa, Innocenzo I, che è finito sotto la protezione del primo vero monarca che i barbari espugnatori hanno deciso di darsi. Si salva dalla collera, e vede risparmiate le chiese ed il tesoro degli Apostoli, traslato in tutta fretta ed al canto dei Salmi in Vaticano mentre il popolo paga il conto dell’inferno. Si salva, ma deve assistere impotente alle stragi che i goti dell’Ovest, i Westgoten, perpetrano trovando negli schiavi traditori ottimi compagni di massacro e ideali sodali di vendetta. Cadono come fuscelli gli edifici più fastosi della città, ma accade di peggio all’anima stessa dell’Urbe, che vede perire tra le fiamme il mito dell’invulnerabilità dell’Impero. Passato Alarico, Roma si ritroverà cambiata nel profondo. Ben oltre il saccheggio, le morti, l’onta. Mentre i paladini della fede S.Agostino e Salviano da Marsiglia seguiteranno negli anni a gridare al sacco come punizione divina per una capitale pagana e peccatrice, il re goto lascerà l’Urbe con le mani ricolme degli ori di una gloria che fu. Roma è il ventre dell’Occidente ed ospita ricchezze immense. In primo luogo, il tesoro trafugato dal tempio di Gerusalemme da un assediante altrettanto crudele, Tito Flavio Vespasiano, che nel 70 d.C. mise a ferro e fuoco la culla della fede durante la guerra di Giudea. Il 28 agosto Alarico si muove da Roma. Il suo seguito si è enormemente ingrossato. Al bottino si aggiungono i prigionieri, prelevati a forza tra gli altolocati dell’Urbe. L’oro è molto, non altrettante le provviste che le schiere speravano di trovare. Va da sé che i Goti si danno al saccheggio facile, avventandosi sulla campagna romana. Portano con sé nelle scorrerie perfino un greco dell'Asia che gode di buona fama come oratore e poeta aulico, oltre ad essere influente membro del Senato romano, Prisco Attalo. Alarico lo metterà sul trono imperiale proprio mentre il legittimo monarca, Onorio, è rinchiuso a Ravenna. E c’è anche la figlia di Teodosio il Grande, Galla Placidia, sorella di Onorio stesso, per
Cupi a notte canti suonano / Da Cosenza su ’l Busento, / Cupo il fiume gli rimormora / Dal suo gorgo sonnolento. /Su e giù pe ’l fiume passano / E ripassano ombre lente: / Alarico i Goti piangono, / Il gran morto di lor gente. / Ahi sì presto e da la patria / Così lungi avrà il riposo, / Mentre ancor bionda per gli omeri / Va la chioma al poderoso! / Del Busento ecco si schierano / Su le sponde i Goti a pruova, / E dal corso usato il piegano / Dischiudendo una via nuova. / Dove l’onde pria muggivano, / Cavan, cavano la terra; / E profondo il corpo calano, / A cavallo, armato in guerra. / Lui di terra anche ricoprono / E gli arnesi d’òr lucenti: / De l’eroe crescan su l’umida / Fossa l’erbe de i torrenti! / Poi, ridotto a i noti tramiti, / Il Busento lasciò l’onde / Per l’antico letto valide / Spumeggiar tra le due sponde. / Cantò allora un coro d’uomini: / "Dormi, o re, ne la tua gloria! / Man romana mai non víoli / La tua tomba e la memoria!" / Cantò, e lungo il canto udivasi
Per le schiere gote errare: / Recal tu, Busento rapido, / Recal tu da mare a mare.
Il Sacco di Roma del 410 (fonte: blogspot.it) |
Stando al poeta bavarese, dopo la sua scomparsa il condottiero sarebbe stato inumato solennemente, insieme al suo destriero, all’armatura ed agli arnesi d’òr lucenti del fatidico tesoro, nel letto del fiume Busento. Omaggiato dal suo popolo con tutti gli onori del caso, e con un’astuzia in più. Per impedire infatti che la tomba del gran re venisse profanata, i goti avrebbero temporaneamente deviato il corso del fiume, avvalendosi dei tanti schiavi portati seco che, al termine dei lavori, sarebbero stati trucidati per non lasciare in vita scomodi e sacrileghi testimoni. Una versione, questa, che rimanderebbe anche alle cronache dei già citati Giordane e Cassiodoro di Squillace, sconfessando la diceria riportata invece dall’avventuriero francese Auguste De Rivarol di un presunto ritrovamento, nel secolo XV, del corpo di Alarico inumato in due scudi saldati dentro il fango di un altro fiume calabrese, il Crati. Il quesito resta. Dove si trovano le spoglie del re? Dove il suo favoloso tesoro? Studiosi e cercatori hanno indagano nei secoli per venire a capo della questione, sinora invano. Hanno iniziato proprio prendendo le mosse dalla ballata del Von Platen, che tanta acqua ha portato al mulino del passato glorioso di Cosenza e di quel fiume placido che nel suo corso separa il borgo antico dalla parte più nuova della città. Nella prima metà del Settecento, il patrizio napoletano, dottore in legge, avvocato concistoriale e cappellano del tesoro di San Gennaro, monsignor Giuseppe Capecelatro, finanziò proprio nel cosentino alcune ricerche alla confluenza dei fiumi Busento e Crati che, tuttavia, non ebbero esito alcuno. Idem dicasi per le campagne di scavo che, fedeli ad un’intuizione dell’ultima ora, spostarono la ricerca al fiume lucano Basento, che con il primo corso d’acqua ha in comune, oltre alla quasi totalità del nome, unicamente la confluenza nel mar Ionio. Il re dei Goti ha così fatto il suo ingresso ufficiale nel novero dei leggendari personaggi (Federico II, Luigi d’Angiò, Isabella d’Aragona) che hanno influenzato la storia ed il mito delle terre calabre, andando di qui a popolare il ricordo mitico che gli anziani del luogo tramandano da generazioni. Se Olimpiodoro, nel dipingere i fasti delle nozze di Ataulfo in Gallia, indugia volutamente sulla gran copia di doni recati dal nuovo re alla consorte, portando così a sospettare che i tesori di Alarico, piuttosto che giacere in un sepolcro, siano stati condotti regolarmente fuori dall’Italia, a Narbonne, insieme al grosso delle truppe gote, studi e ricerche seguitano a stimolare la fantasia dei cercatori che tentano di diradare l’oblio dei secoli. Tedeschi in prima linea, a motivo della salda tradizione negli studi classici e nelle ricerche di reperti di antiche civiltà. Negli anni Quaranta, con l’esasperazione dei miti nordici messa programmaticamente in atto dal Reich desideroso di fare ancor più presa in animi già infervorati dalla difficile temperie socio-economica, accanto agli Asi si rispolverò anche il mito del condottiero indomito dei Goti dell’Ovest, vincitore di Roma e soggiogatore della penisola italica.
La sepoltura di Alarico, di Heinrich Leutemann (1824-1904) (fonte: wikipedia.org) |
Il Fuhrer giunse ad organizzare una spedizione scientifica proprio in Calabria, per tentare di individuare la perduta tomba del re tedesco. Spedì in sua vece Heinrich Himmler che prese a sondare invano il terreno della periferia di Cosenza, attorniato da uno stuolo di storici teutonici che competevano nella difficile arte di mettersi il più possibile in luce nei confronti del delfino di Hitler. Ad oggi c’è ancora chi cerca, partendo non dal Busento ma dalle limitrofe sebbene difficilmente accessibili Grotte dell’Alimena, nel circondario fra i comuni di Carolei e Mendicino. I fratelli Natale e Francesco Bosco sono convinti che un’opera imponente come quella della deviazione del corso del fiume Busento non sarebbe mai potuta passare inosservata. Hanno perciò individuato un altro sito poco distante, alla confluenza del fiume Caronte con il torrente Canalicchio. La vallata deserta che sorge in questo luogo presenta rocce che sono costellate di incisioni iniziatiche indicanti la sacralità del sito. Dato, questo, confermato dall’enorme croce anch’essa scolpita sulla roccia presso un fianco della valle, in località Rigardi, toponimo di chiara origine gotica che significa “osservanza rispettosa”. Sul lato opposto, all’interno della più ampia tra le due grotte naturali calcaree di origine vulcanica che si trovano a strapiombo sulla valle, è celato un rozzo altare proprio di fattura gotica. Un altare che, soprattutto, poggia su di uno strano strato di sabbia. Analizzato, quest’ultimo è risultato di origine fluviale. Ma dall’alto nessuno ha sinora rilasciato permessi per scavare nell’area. Così rimangono in piedi gli interrogativi di sempre. E permane, al contempo, il mistero sul riposo di Alarico, l’uomo che piegò l’Impero.
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