Creati per difendere la Terrasanta a seguito della Prima Crociata i Cavalieri Templari destano ancora molto interesse: scopriamo insieme chi erano e come vivevano i Cavalieri del Tempio
Personaggi, luoghi e fatti che hanno contribuito a conferire al Medioevo un alone di mistero che lo rende ancora più affascinante ed amato. Dal Ponte del Diavolo ai Cavalieri della Tavola Rotonda passando per Durlindana, la leggendaria spada di Orlando e i misteriosi draghi...
Giovanna d'Arco è un mistero. In un epoca in cui le donne venivano considerate esseri con poco senno e per lo più in balia di passioni e del demonio, lei si mette alla testa di un esercito, conquista la fiducia del re di Francia, libera città assediate, fa sì che un uomo inetto diventi, solo grazie a lei, Carlo VII. È una donna diversa, non inquadrabile nel modello di donna proposta dalla Chiesa e dalla società: il suo essere “altra” è una delle cause, assieme a quelle politiche, della sua fine drammatica. A tredici anni dice ai genitori Jacques e Isabelle: «Sento spesso voci di santi: Michele Arcangelo, Caterina di Alessandria, Margherita di Antiochia...». Ma ne riceve, afferma, solo pie esortazioni. Invece a diciassette anni confida: «Le “voci” mi comandano di liberare la Francia!». Il padre s’infuria, lei scappa e passa per matta.
Ma quando predice esattamente una sconfitta francese, i nobili della zona l’accompagnano dal re, che si trova a Chinon. Nel 1428 abbandona il suo villaggio a Domrémy, per iniziare la missione affidatale dalle voci: riunire la Francia. La sconfitta di Azincourt (1415) aveva segnato il definitivo declino del regno francese: re CarloVI aveva perso la Normandia e Parigi, mentre la Borgogna si era alleata con gli inglesi, solo Orleans sembrava resistere. Giovanna si rivela in questa situazione e si dedica a compiere la missione assegnatale dalle voci di santa Caterina, santa Margherita e dall’arcangelo Michele che dicono:
«Figlia di Dio, tu condurrai il delfino a Reims affinché vi sia degnamente consacrato, vai noi ti aiuteremo!».
Colma di fiducia in Dio, si mette in cammino verso Carlo VII. Nel villaggio di Sainte Catherine de Fierbois, fa una sosta e indica il punto in cui si diceva che Carlo Martello avesse sepolto la sua spada bel 732. Viene alla luce l’arma da cui Giovanna non si separerà mai, pur non usandola in combattimento. È con questa fiducia che si rivolge a Carlo VII, 26 anni, debole, incerto, tormentato dal sospetto di essere figlio illegittimo: questa contadina analfabeta parla al re di vittoria, indovina i suoi pensieri presenti e passati, gli annuncia castighi celesti se non avesse salvato la Francia. Carlo teme che le voci di Giovanna vengano da Satana quindi la manda a Poitiers per essere esaminata da teologi e dai vescovi di Poitiers e Maguelonne, i dottori trovano in Giovanna solo bene, umiltà, vergogna e devozione. Giovanna d’Arco ha in mente un limpido progetto, che comincia dal risanamento dell’esercito: domina e persuade i comandanti, si impone alla truppa, riporta la disciplina, parla, rimprovera, stimola. Sa che alla Francia in ginocchio occorre subito una vittoria, e si mette alla testa delle truppe che liberano Orléans dall’assedio. Ora i soldati ritrovano una dignità, contenti di obbedire a Giovanna, anche se è assai dura con chi bestemmia. Al termine di una guerra lampo durata meno di un mese la Pulzella realizza i due scopi della sua missione: liberare Orleans e portare Carlo a Reims, dove verrà unto re di Francia il 17 luglio 1429. Così la Francia ha un vero e indiscusso re, davanti al quale numerose città ostili ora aprono le porte. È la svolta politica e militare verso la rivincita: nel 1437 Carlo VII entrerà trionfalmente a Parigi. Mentre il re prepara accordi pacifici con gli inglesi, Giovanna viene catturata a Compiègne dai borgognoni ed è venduta agli inglesi per 10000 lire tornesi, senza che né il re né i francesi facessero nulla. Giovanna passa da una prigione all’altra e viene sottoposta a processo come strega a Rouen, davanti a un tribunale presieduto da Pierre Cauchon, vescovo di Beauvais, e formato da quaranta tra inglesi e francesi anglofili. Durante la reclusione cinque soldati la sorvegliano giorno e notte e la chiamano puttana degli armagnacchi, ha catene ai polsi e alle caviglie che la trattengono alla parete e di notte la legano al letto per paura che possa fuggire con l’aiuto del demonio. Per verificare la sua pretesa di santità, gli inglesi impongono a Giovanna la prova della verginità da parte della duchessa di Bedford e di lady Anna Bavon. Giovanna viene interrogata la prima volta il 21 febbraio 1431: tiene testa ai giudici, ribadisce che le “voci” non l’hanno mai ingannata. Le domande degli inquisitori tentano di saggiare la sua forza teologica, cercano di scoprire in lei fantasie morbose indegne dello strumento di Dio che dice di essere:
«San Michele vi apparve nudo?».
Così risponde, sagacemente, Giovanna:
«Credete che Dio non abbia di che vestirlo?».
Ma prostrata da giorni di interrogatori e torture, dà risposte che saranno la sua rovina:
«Vi rifiutate di sottomettervi alla Chiesa? Rifiutate di rinnegare le vostre visioni diaboliche?».
«Mi rivolgo a Dio solo. Per ciò che riguarda le mie visioni, non accetto il giudizio di nessuno».
«Ecco una frase ben grave. Tra voi e Dio c’è la Chiesa. Volete o no sottomettervi ad essa?».
Convinta dalle promesse dei giudici, firmò una ritrattazione nella quale si riconosceva strega ed eretica, ma, pentita, aveva salva la vita. Il 28 maggio, la ragazza ritrattò la confessione, spinta dalle voci e venne condannata al rogo come relapsa. Il 30 maggio 1431, sulla piazza principale di Ruen, presieduta da 800 soldati per allontanare la folla, Giovanna d’Arco muore a solo diciannove anni, fissando il crocifisso che il suo confessore teneva alzato davanti a lei. Nel 1455 papa Callisto III ordinò la revisione del processo, con la sua piena riabilitazione. Giovanna è stata poi beatificata da Pio X nel 1909, e canonizzata da Benedetto XV nel 1920.
«Io non ti torturerò per uno due, tre e nemmeno otto giorni e nemmeno per poche settimane, ma per sei mesi o un anno, finché non confesserai».
Alice si sentì apostrofare in questo modo dal suo inquisitore, malgrado il divieto che impediva di ripetere la tortura. Il processo irlandese di Alice Kyteler è il primo esempio di di processo per crimine di magia rituale svolto in una setta organizzata: era una donna ricca e a seguito dei tre matrimoni, riuscì ad accumulare ancora più ricchezze. Lei e il suo figlio di primo letto si attirarono diverso odio, soprattutto da parte figli e dalle figlie che i mariti di lady Alice avevano avuto da matrimoni precedenti. Fu, allora, accusata dai figliastri di aver ucciso i loro padri, dopo averli stregati per fare in modo che lasciassero tutto al figlio di Alice; al momento dell’arresto il suo attuale marito era malato a causa, diceva l’accusa, di polveri, pillole e sortilegi che lo stavano consumando. Il vescovo di Kilkenny all’inizio del 324 tenne un’indagine formale e trovò diversi testimoni (non doveva essere difficile visto che l’ultimo marito di Alice faceva l’usuraio e metà della nobiltà era indebitata con lui). Alice e il figlio, William, furono accusati come maghi, eretici e come capi di un gruppo eretico organizzato: insieme a loro vennero accusati altri 10 ricchi borghesi.
Alice fu accusata di:
- aver rinnegato la fede di Cristo
- aver sacrificato ai demoni che aveva smembrato e distribuito a uno spirito chiamato figlio dell’arte
- chiedere responsi ai diavoli
- aver imitato il potere della chiesa lanciando la scomunica con candele accese contro i mariti per cui chiedeva la morte, dalla testa ai piedi, per tutte quelle parti del corpo nominate, e spegneva la candela gridando Fi! Fi! Fi! Amen
- aver realizzato polveri, unguenti, candele con interiora di pollo sacrificate ai demoni, vermi, unghie, capelli di morto, tutto veniva bollito su un fuoco di legna di quercia dentro a un cranio di un ladro decapitato.
- aver avuto rapporti sessuali con un demone, sua guida infernale che appariva sotto forma di gatto, cane nero onero etiope.
Una compagna di Alice, Petronilla di Meth, fu frustata sei volte per ordine del vescovo, poi fornì pubblicamente tutti i particolari riportati e ammise di aver agito come intermediaria tra Lady Alice e il suo demone, Robina: lo aveva visto materializzarsi sotto forma di tre negri che portavano barre di ferro e avere rapporti sessuali con lei, dopo aveva asciugato il copriletto. Con queste informazioni (si noti alcune palesemente interessate, altre estorte con la tortura) il vescovo intimò a Lady Alice di comparire davanti a lui, ma il giorno stabilito lei fuggì in Inghilterra, scomunicata. Tutti i suoi presunti seguaci vennero considerato colpevoli: alcuni,come Petronilla, furono bruciati vivi, altri, flagellati pubblicamente, altri banditi e scomunicati altri, infine dovettero indossare croci cucite sui loro abiti. Per la prima volta nella storia europea una donna viene accusata di aver acquisito poteri magici grazie a rapporti sessuali col diavoli.
Come abbiamo visto, nel mondo Romano la magia è femmina, e, parzialmente, può dirsi lo stesso del mondo medievale. Anzitutto è bene fare una differenza sociale: se nelle città la magia interessa soprattutto le classi colte e, lo abbiamo dimostrato, la magia più praticata è l’evocazione di demoni e la magia rituale; nelle campagne la strega è colei che fa del male al vicino. Analogamente a quello che succedeva nelle campagne dell’antica Roma, la strega o lo stregone mandano il malocchio (fascinum), portano le tempeste, fanno ammalare il bestiame, interpretano il futuro, fanno pozioni con le erbe. Così si esprime Dante nella bolgia degli indovini:
«Vedi le triste che lasciaron l’ago, / la spuola e ‘l fuso, e fecesi ‘ndivine; / fecer malie con erbe e con imago» (Inferno, XX, vv. 121-123).
Si tratta di magie compiute singolarmente, la caccia alle streghe sarà possibile solo quando diventerà parte dell’immaginario collettivo l’idea che la strega appartenga ad una società di adoratori del diavolo, ad un organismo collettivo che mirava a ribaltare e sovvertire il cristianesimo. Oltre a mandare il fascinum le streghe popolari hanno molti punti di contatto con le striges romane: nei racconti popolari volano di notte e sono cannibali, specialmente avide di carne di neonati. La gente credeva che le striges fossero una realtà reale e diffusa al punto che la Lex salica del VI secolo parla di riunioni di streghe con calderoni e stabilisce ammende “se una stria divorerà un uomo e si riuscirà a dimostrarlo” e fissa una multa se “una donna libera viene chiamata stria e non sia in grado di provarlo.” Tutta l’elite colta però, cercava di tenere sotto controllo questa tensione, per paura di esecuzioni sommarie e superstizioni; nel capitolare sassone di Carlomagno del 789 si dice:
«Se qualcuno, ingannato dal diavolo, crederà, come è tradizione tra i pagani, che un uomo o una donna sia una striga e che mangi esseri umani, e per tale motivo brucerà la carne di quella persona […] sarà giustiziato».
Lo stesso Canon Episcopi ricordava ai sacerdoti dal predicare che la magia è solo un’illusione di Satana, che sa bene come ingannare le donne stolte, mostrandogli ogni genere di cose o di persone nel sonno:
«Alcune donne scellerate, pervertite dal diavolo, sedotte dalle illusioni e dai fantasmi dei demoni che credono e sostengono di cavalcare animali di notte in compagnia di Diana, la dea dei pagani, e di una folla sterminata di donne e nel silenzio della notte profonda credono di percorrere grandi spazi della terra obbedendo ai suoi ordini come alla loro signora e di essere chiamate a servirle certe notti» (Canon Episcopi, X secolo).
Nel Medioevo alcune donne credevano di vagare di notte e di compiere atti di cannibalismo, mentre altre immaginavano, con fini benevoli,di volare sotto la guida di una regina soprannaturale. Negli atti di un processo del trecento leggiamo:
«Fin da giovane andai ogni settimana la notte del giovedì con Oriente e la sua società.
Ho reso omaggio a Oriente, non credevo che fosse peccato, dicendo “Bene stage, madonna Horiente”; Oriente rispondeva “benvenute figlie mie”. In presenza di Oriente non si nominava mai Dio. Oriente insegna le virtù delle erbe, rimedi per curare le malattie, il modo di trovare le cose rubate e di sciogliere malefizi. Oriente sa ridare la vita alle creature morte. Le sue seguaci talvolta uccidono buoi e ne mangiano le carni; poi raccoglievano le ossa e le mettevano nelle pelli degli animali uccisi. A questo punto Oriente percuoteva le pelli col pomo della sua bacchetta, e i buoi resuscitavano: ma non erano più in grado di lavorare» (Atti del processo a Sibilia di Vicomercato e Pierina Bripio a Milano, 1390). Come si legge, due donne, Sibilia e Pierina, avevano confessato di recarsi al gioco di Diana che chiamano Erodiade o Horiente, ed erano già state condannate come eretiche nel 1384, in seguito vennero nuovamente processate e condannate a morte in quanto relapse nel 1390. Le donne confessarono che nella società di Horiente era presente ogni sorta di animale (anche se Pierina disse che volpi e asini erano esclusi). In tutte le culture europee è presenta questo tratto di folclore: viaggi estatici in compagnie di buone donne che danno cibo e protezione.
Ci sono le signore notturne guidate da Domina Abundantia, spirito femminile dell’abbondanza domestica. Madama Abudantia mangia e beve ciò che trova nelle case, senza mai diminuire la quantità, soprattutto se i recipienti sono stati lasciati aperti per lei, se le si impedisce di magiare e di bere, non porta l’abbondanza, ma la disgrazia. Holda è invece un essere superiore e materno che vive in cielo ed è attiva d’inverno: i fiocchi di neve sono le piume che cadono quando si rifà il letto, viaggia nei 12 giorni che separano il natale dall’epifania e dona fecondità ai campi, può, però, diventare terribile quando vede incuria nelle case e nelle fattorie e allora guida l’esercito furioso sotto forma di una megera dal lungo naso. Si occupa della fecondità, assiste ai parti e i neonati hanno origine nei suoi posti segreti; quando fa i suoi viaggi si accompagna di un corteo di anime di morti, soprattutto bimbi non battezzati. Le signore della notte erano note anche in Italia, dove il culto della dea Diana continuò a godere di una certa venerazione, anche dopo l’affermazione della Chiesa: nel Canadese, in Val di Fiemme, a Ferrara a Mantova c’erano la donna del bon zogo, la sapiente Sibilla, mentre a Como l’inquisitore parlò di raduni notturni chiamati “gioco della buona società”. Varie donne processate come streghe raccontarono di essersi recate a questi cortei; ciò non costituì reato fino a quando vennero considerate credenze da donnette, ma a partire dalla fine del XIII secolo, questi spiriti di abbondanza subirono un processo di demonizzazione e diventarono demoni. Di conseguenza chi diceva di partecipare alle loro congreghe diventava automaticamente adoratore di Satana. Si provi a confrontare il clima della già citata predica di Umberto da Romans:
«Alle donne povere, dei piccoli villaggi. Si noti che di solito queste donne sono molto favorevoli ai sortilegi per sé, per alcune particolari circostanze, per i figli ammalati, per proteggere i loro animali dai lupi e cose simili. Fra questo tipo di donne che credono facilmente a tal cose e in questo sono simili a Eva. […] Ce ne sono altre che fanno queste divinazioni a scopo di lucro. […] La donna non deve dedicarsi ai sortilegi, che sono forme di miscredenza, ma deve essere fedele» (Umberto da Romans, Prediche alle donne, secolo XIII).
In cui, sostanzialmente, la donna viene accusata solo di credulità, con una pagina pesantemente misogina del Malleus maleficarum:
«Femina deriva da fe e minus, perché ha meno fede e sempre meno la mantiene […]. La donna, cattiva per sua natura, cade presto nei dubbi della fede, rinnega la fede medesima ed in ciò è la base stessa dei malefici. In quanto poi alla volontà, la donna, quando è presa da odio contro qualcuno che prima amava, arde d’ira e di impazienza, e si agita e ribolle come il mare. In conclusione, tutto dipende dalla concupiscenza carnale che, nelle donne, è insaziabile, onde si danno da fare con i demoni per soddisfare la loro libidine» (Krame e Sprengen, Malleus maleficarum, 1486).
La donna, da sempre vista come essere volubile e credulone, diventa cattiva, apostata, base del maleficio, libidinosa e senza freni. Ecco che essa diventerà la protagonista indiscussa, suo malgrado, dei roghi del XVI secolo.
Nel Quattrocento tutto è pronto perché si cominci a diffondere l’idea di una setta di streghe e stregoni adoratori del demonio: la figura di Satana è sempre più viva, opprimente e reale nella mente sia del popolo che della classe colta; il mondo è in fermento per cambiamenti sociali e culturali, l’epidemia di peste ha spazzato via le certezze antiche. L’accusa di apostasia collettiva, le pratiche che erano state, un tempo, attribuite solo a certi gruppi ereticali diventano un reato indipendente, non più crimen eresiae ma crimen magiae. Ecco che le accuse imputate ai lebbrosi, agli ebrei e agli eretici passano ad una fantomatica setta di stregoni: mentre gli eretici miravano a sconvolgere l’unità della chiesa, questa setta avrebbe soverchiato anche il benessere sociale. Non c’era più in ballo solo l’anima, ma anche la prosperità e la potenza degli stati.
Secondo Alano da Lille il nome Catharus deriva da Catus che vuol dire gatto, dal momento che essi sono adoratori del demonio. Questa fuorviante etimologia la dice lunga sul processo che portò gli eretici ad essere percepiti non solo come contrari alla chiesa e spergiuri, ma anche come adoratori del demonio e abominio del genere umano. Nella cristianità orientale gli eretici furono accusati fin da subito di idolatria, cannibalismo, incesto pratiche demoniache, dice, ad esempio, Agostino di Ippona nel III secolo, in merito ai montanisti della Frigia:
Il mondo medievale è il mondo dell’ordine, è il cielo sceso in terra, riflesso della civitas Dei, è un mondo in cui non c’è spazio per la diversità. Chiunque si opponga, o faccia semplicemente scelte diverse, per scelta o necessità, si trova a vivere ai margini della società, e spesso in momenti di profonde tensioni sociali si trova a essere perseguitato. Tutto il Medioevo è attraversato da ondate persecutorie che pur cambiando il bersaglio (lebbrosi-ebrei-musulmani, ebrei, ebrei-streghe, streghe), sono accomunati dall’immagine ossessiva di un complotto contro la società. Come vedremo, la strega raccoglierà totalmente l’eredità di capro espiatorio.
Nel 1321 i Lebbrosi di Francia vennero accusati di aver sparso polveri e veleno nelle fontane, nei pozzi e nei fiumi:
Vi sono un paio di testi che descrivono il ruolo della magia nella vita quotidiana: il manoscritto di Wolfsthurn (Tirolo) e un manuale di magia nera conservato a Monaco (Baviera), entrambi del XV secolo. Vi sono descritti i gravi problemi che assillavano la vita della gente: malattie, le calamità che colpivano i campi coltivati, i topi che infestavano le cantine e le abitazioni, e sono riportate "ricette", rimedi a malanni vari, modi per conciare le pelli, per fabbricare il sapone, l'inchiostro..., ricette per certi decotti che dovevano curare febbri o malattie. Queste ricette contengono molti elementi di superstizione e magia: sulle foglie che andavano nel decotto si scrivevano invocazioni alla Trinità, a Dio, ai santi; una data invocazione o un dato procedimento doveva essere ripetuto tre volte tre o sette volte sette (ad una data ora, in certe posizioni, rivolti da una certa parte, indossando una certa cosa,...); per curare il mal di denti si doveva porre una scritta sulla guancia che richiama Gesù, o Pace, o Dio. Allo stesso modo per curare i dolori dovuti alle mestruazioni si deve scrivere su un foglietto "per Lui, con Lui e in Lui" e mettere tale foglietto nei capelli della donna. Per curare l'epilessia, considerata malattia del demonio, si deve legare una fettuccia di pelle di daino intorno al collo della persona colpita, poi parole magiche ancora legate a Trinità, Dio, Spirito Santo, quindi si brucia la fettuccia insieme al cadavere di un animale o persona morta; in questo modo si brucia la malattia e la si relega nel mondo dei morti.
Vi sono anche delle vere e proprie formule strane accoppiate ai soliti nomi della Trinità: una di queste formule prevede il copiare sul corpo di un malato le seguenti lettere "P.N.B.C.P.X.A.O.P.I.L." che non si sa proprio cosa vogliano dire. Altra formula, misto di latino e greco completamente deformati, doveva essere sussurrata all'orecchio del malato:
«Amara Tonta Tyra post hos firabis ficaliri Elypolis starras poly polyque lique linarras buccabor uel barton vel Titram celi massis Metumbor o priczoni Jordan Ciriacus Valentinus».
Vi è poi la cura dell'invasato attraverso tre rami di ginepro bagnati tre volte (per la solita Trinità ) nel vino rosso, poi farli bollire e metterli sulla testa del povero disgraziato. I richiami alla Trinità rendono tutte queste pratiche accette o comunque non troppo perseguitate dalla Chiesa, anche se nelle prediche è costante la condanna verso chi si affida alla magia e alla superstizione, come ben si legge nelle prediche di Umberto de Romans.
«Alle donne povere, dei piccoli villaggi. Si noti che di solito queste donne sono molto favorevoli ai sortilegi per sé, per alcune particolari circostanze, per i figli ammalati, per proteggere i loro animali dai lupi e cose simili. Fra questo tipo di donne che credono facilmente a tal cose e in questo sono simili a Eva.[…] Ce ne sono altre che fanno queste divinazioni a scopo di lucro.[…] La donna non deve dedicarsi ai sortilegi, che sono forme di miscredenza, ma deve essere fedele» (Umberto da Romans, Prediche alle donne, secolo XIII).
Il divieto non colpisce solo le donne ma ogni cristiano, come afferma Tommaso d’Aquino:
«Ai cristiani è vietato dedicarsi a osservazioni o incantesimi raccogliendo erbe chiamate medicinali, eccetto che sotto la salvaguardia del Simbolo divino e del pater noster» (Tommaso d’Aquino, Secunda secundae).
Tuttavia il confine non è netto, lo stesso Tommaso ammette l’utilizzo di erbe dietro la salvaguardia del simbolo divino, il che significava segnare la croce sul decotto prima di prepararlo. Che la croce avesse poteri miracolosi era vera fede e, al contempo, superstizione, come appare in questo testo dell’alto medioevo:
«Il segno della croce, tracciato in mezzo alla fronte, assicura la salute di tutto il bestiame. Quindi Dio è chiamato a giusto titolo il salvatore Onnipotente. La morte funesta si allontana dall’armento. Se vuoi pregare Dio, basta credere. È la fede la parole che aiuta» (Canto bucolico sulla morte dei buoi).
CHIESA E MAGIA: I PRECETTI
È bene ora indagare sul progressivo irrigidirsi della Chiesa nei confronti della magia, vista prima come credenza e poi come esistenza, come pratica che non solo metteva in dubbio il reale potere della Chiesa, ma che attentava alla salvezza umana. E, purtroppo, tutto ciò che attenta alla salvezza delle anime venne passato per il fuoco. Cosa che portò la stessa Chiesa che nel IX secolo scriveva:
«Perciò nelle chiese a loro affidate i sacerdoti devono costantemente predicare al popolo di Dio che queste cose sono completamente false.[…] A chi, infatti, non è mai successo,di uscire da sé durante il sonno o di avere visioni notturne e di vedere dormendo cose che da sveglio non aveva mai visto? Chi può essere tanto ottuso o sciocco da credere che tutte queste cose che accadono nello spirito avvengano anche nel corpo?» (Canon episcopi, X secolo)
a dire quattrocento anni dopo:
«Stringono un patto con la morte e con l’inferno, fanno sacrifici ai diavoli, li adorano, fabbricano e fanno fabbricare immagini, anelli o specchi o ampolle e qualsiasi altra cosa per legare magicamente a sé i diavoli, ad essi chiedono responsi. O quanto dolore! Un tale morbo pestifero si diffonde per il mondo più ampiamente, contagia sempre più gravemente il gregge di Cristo» (Giovanni XXII, Super illius specula, 1326).
Il primo testo è tratto dal Canon Episcopi, scritto da Reginone di Prum nel X secolo. E che contiene un insieme di istruzioni che entrarono a far parte del diritto canonico della Chiesa nel XII secolo. In quest’opera si prendono in considerazione alcune pratiche e credenze: i sabba non erano fatti reali, ma allucinazioni, incubi, senza alcun nesso con la realtà. Le donne che partecipano al sabba sono accusate di miscredenza e di indurre altri nello stesso errore. Come si vede, l’atteggiamento verso le streghe è colto:
«Lo spirito malvagio spinge, con il permesso di Dio, la sua malizia a tal punto che qualcuno crede falsamente reale ed esteriore ciò che avviene in immaginazione e per errore. È così che dicono che che una Erodiade convoca delle assemblee notturne dove si banchetta e i bambini sono sacrificati e divorati. Chi sarà così cieco da non vedere che si tratta di una pura illusione dei demoni? Non bisogna dimenticare che le persone che arrivano a credere ciò sono delle povere donne o persone semplici e credule» (Jean de Salisbury, vescovo di Chartres, 1181).
Ciò che prevale in questi testi è l’atteggiamento degli uomini colti che guardano con disprezzo le dicerie popolari. La credenza nelle striges e nelle signore della notte, che si riunivano in congreghe notturne in cui si banchettava con bambini, era molto forte nell’Europa rurale e l’elite colta le considerò per lungo tempo illusioni di povere donnette credulone. Quando però anche l’intellighentia cominciò a convincersi che tali attività non esistessero solo nei sogni ma avessero un fondamento reale, le stesse donne credulone per cui prima si prevedevano pene di lieve entità (40 giorni di penitenza) finirono su tutti i roghi d’Europa.
Il cambiamento di mentalità è ben visibile nella bolla Super illius specula di Giovanni XXII del 1326 in cui il papa prende duri provvedimenti contro quelli che
«Stringono un patto con la morte e con l’inferno, fanno sacrifici ai diavoli, li adorano, fabbricano e fanno fabbricare immagini, anelli o specchi o ampolle e qualsiasi altra cosa per legare magicamente a sé i diavoli, ad essi chiedono responsi. O quanto dolore! Un tale morbo pestifero si diffonde per il mondo più ampiamente, contagia sempre più gravemente il gregge di Cristo» (Giovanni XXII, Super illius specula, 1326).
Nella bolla del 1326, emanata per estirpare la stregoneria, le pene previste per i maghi e le streghe sono identiche a quelle imposte agli eretici: la morte per impiccagione, il rogo del cadavere e la confisca dei beni. Sempre lo stesso pontefice, allora residente ad Avignone, non ha scrupoli a trascinare in giudizio nel 1318 un gran numero di esponenti della corte papale, sotto l'accusa di praticare riti magici, e a sottoporli a torture e nel condannare al rogo. Nel 1317 il vescovo di Cahors, Hugues Geraud, era stato arrestato per aver attentato alla persona del papa con veleni e pozioni, venne interrogato da Giovanni XXII per sette volte e alla fine crollò. Tuttavia tutta questa presa di posizione contro il maleficium deve essere inquadrata in un’attività politica di soppressione degli avversari, se è vero che anche il ghibellino Matteo Visconti fu accusato dal papa di aver tentato di ucciderlo con pupazzi di cera e di avere degli affari segreti col diavolo; lo stesso fece coi capi ghibellini di Ancona, accusati di avere un demone privato che li consigliava su ogni cosa in cambio dell’adorazione. I processi si risolsero con un niente di fatto, perché le commissioni di cardinali nominate dal papa per giudicare il vescovo di Cahors dimostrarono che tutte le prove provenivano da un testimone corrotto. Ma è sintomatico che l’accusa rivoltagli non fosse solo di eresia, ma anche di maleficia: a partire dal XVI secolo, l’inquisizione che fino ad allora aveva avuto l’obbligo di occuparsi solo di eretici, fu autorizzata e incoraggiata a procedere contro coloro che praticavano magia. Nel 1329 l’inquisitore di Carcassone condannò un monaco al carcere a vita a pane e acqua per aver cercato di possedere donne con la magia, offrendo a Satana pupazzi di cera con la sua saliva e sangue di rospi. Il processo durò molti anni, nessuna prova concreta venne trovata e lo stesso imputato ritrattò la confessione. In questi processi, l’accusa principale era eresia anche se il maleficium comincia ad acquistare sempre più spazio. È il passaggio intermedio verso la caccia la follia collettiva della caccia alle streghe, dove non solo la magia era considerata vera e reale, ma agli accusati veniva imputato di far parte a una setta di streghe devota ed emissaria di Satana. Nel 1486 non si parla più solo di eresia o maleficium, ma nel Malleus maleficarum, testo che divenne ben presto il manuale degli inquisitori, compare anche il nome di strega:
«Prescriviamo e ordiniamo, chiediamo sotto forma di ordine e ingiungiamo quanto segue…Si conti fino a circa dodici giorni a partire da oggi […] affinché ci venga rivelato se qualcuno abbia saputo, visto o sentito dell’esistenza di una persona eretica o di una strega, per diceria o per sospetto, in particolare se si tratta di persone che pratichi cose tali da nuocere agli uomini, alle bestie o ai frutti della terra e che possa nascondere un danno per lo stato […] se costui non obbedirà […]sappia che sarà trafitto dalla spada della scomunica […] Il giudice aggiungerà le pene temporali…» (Malleus maleficarum, III parte, questione I, 1486).
Il testo è diviso in tre parti: 1) l’esistenza delle streghe e le loro azioni tipiche; 2) come le streghe compiono le stregonerie e come eliminarle; 3) l’azione giudiziaria, sia nel foro ecclesiastico che civile, contro gli stregoni e tutti gli eretici. Gli autori, Kramer e Sprenger furono domenicani e inquisitori di grande potere in Germania, con loro siamo già in un clima di persecuzione e di paura verso la setta demoniaca ed eversiva delle streghe.
A partire dal Cinquecento, quindi, il termine strega si sarebbe caricato di tante stratificazioni, tali da giustificarne la persecuzione:
Anzitutto la strega esiste, e il suo patto col diavolo è concreto, quindi deve essere concretamente eliminata.
È oppositrice della chiesa adoratrice del demonio e come tale idolatra ed eretica, quindi va bruciata.
Conosce la magia rituale e la usa per fare del male agli altri è quindi omicida: essendo un pericolo sociale deve essere eliminata
Vuole sovvertire l’ordine costituito per glorificare il suo signore Satana, è apostata e quindi, in nome dell’ordine deve essere uccisa per dare l’esempio.
Un episodio che sa di bibliomanzia viene narrato da Sant'Agostino nelle Confessioni a proposito della sua conversione: mentre era raccolto in meditazione, gli parve di udire voci di bimbi che, giocando all'esterno, dicevano tolle, lege ("prendi e leggi"). A quel punto, avrebbe aperto a caso un libro che aveva con sé e gli occhi gli sarebbero caduti sulla frase di San Paolo: "Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri" (Lettera ai Romani 13, 13-14). La lettura di questa frase sarebbe stata decisiva per la sua decisione di convertirsi.
Analogamente, nella biografia di San Francesco scritta da San Bonaventura, si tramanda che quando il suo primo seguace, Bernardo da Quintavalle volle accostarsi ad una vita secondo la regola di Francesco, quest'ultimo, per conoscere la volontà divina in proposito avrebbe aperto a caso tre volte i Vangeli (in onore della Trinità), imbattendosi nei tre passi seguenti :
1. Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri.
2. Non portate niente durante il viaggio.
3. Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Questi tre passi sarebbero quindi stati alla base della regola di San Francesco.
Un’attività intensissima si ebbe soprattutto tra il XVI e il XVII secolo, per frenare la riforma protestante in Europa. La nuova inquisizione Romana, istituita da papa Paolo III con la bolla “Licet ab initi” del 1542, aveva tra i suoi compiti anche quello di controllare la produzione, la vendita e la diffusione degli stampati: il primo indice dei libri proibiti fu compilato nel 1558 sotto il pontificato di Paolo IV. Vi erano elencate, tra l’altro, 45 edizioni proibite della Bibbia e del Nuovo Testamento e i nomi di 61 stampatori responsabili della pubblicazione di libri eretici. Persino il Concilio di Trento, pur pronunciandosi apertamente sulla lettura della Bibbia, compose un catalogo di libri di cui veniva proibita la lettura. Un paio di anni più tardi, il 24 marzo 1564, quel catalogo fu pubblicato in una bolla papale (Index librorum prohibitorum). Nel 1631, Urbano VII ingiunse di nuovo a tutti i possessori di copie della Bibbia di consegnarle alle autorità per bruciarle, pena la denuncia alla “santa” inquisizione.
Al centro della magia demoniaca c’è la fede nell’inarrestabile potere delle parole: i demoni non dovevano essere adorati, ma dominati e comandati. Il mago si erge al di sopra di Dio, chiede aiuto alle potenze diaboliche per i propri interessi. I demoni sono solo strumenti di potere. La magia nera è contro la Chiesa, opposta ad essa, è rovesciamento della fede cristiana. L’evocazione dei morti, ad esempio, avviene durante la notte di Natale; nel suo rito il magi china la testa verso terra e invoca i morti:
Con il termine magia rituale si intendono le pratiche concrete della magia; tuttavia l’insieme è molto grande e comprende i due grandi sottoinsiemi quello positivo della magia naturale (teurgia e divina) e quello negativo della magia nera o geotia. La Magia rituale evoca forze e ed energie particolari e i Grimori rappresentavano le "istruzioni" per condurre le evocazioni magiche in tutta sicurezza. A seconda del tipo di forze evocate, si può fare una distinzione tra Teurgia per evocazioni di Magia Bianca (angelica) e Goetia per evocazioni di Magia Nera (diabolica).
L’alchimia ha una data di nascita: 11 febbraio 1144, data della traduzione del trattato di alchimia arabo Liber de composizione alchimiae, attribuito a un eremita cristiano di Alessandria, che raccolse nelle sue opere le conversazioni sull’alchimia tenute col principe Khalid ibn Yazid. Il termine alchimia deriva dall'arabo al-kimiya o al-khimiya (الكيمياء o الخيمياء), che è probabilmente composto dall'articolo al- e la parola greca khymeia (χυμεία) che significa "fondere", "colare insieme", "saldare", "allegare", ecc. (da khumatos, "che è stato colato, un lingotto"). Secondo un'altra etimologia la parola deriva da Al Kemi, che significa "l'arte egizia", dato che gli antichi Egiziani chiamavano la loro terra Kemi ed erano considerati potenti maghi in tutto il mondo antico.
La magia è sia una teoria del mondo sia un insieme di formule operative. Per il pensiero magico la realtà è sempre duplice, apparente e reale. Esiste un mondo fatto di impulsi, influssi, repulsioni: il mago conosce questi segreti e li utilizza in modo illimitato: quindi la magia non può che prevedere un insieme di formule, indicazioni operative rituali, pratiche per realizzare la volontà del mago. I termini utilizzati per identificare gli operatori magici possono essere illuminanti per capire la complessità del problema: alchimista, mago, strega. Se il mago alchimista è colui che cerca di interpretare la natura, sorta di medico filosofo scienziato e naturalista,e ha, dunque, una accezione positiva, mago è anche l’operatore dell’occulto e del maligno.
San Silvestro papa debella il drago della rupe Tarpea,
Battista da Vicenza (fonte: museicivicivicenza.it)
Una delle prime, leggendarie vittorie di Roma. Tanto lontana e dimenticata che ad oggi non ne esiste alcun resoconto preciso, complice la scorreria dei Galli di Brenno che, qualche tempo dopo, aveva ridotto in cenere l’Urbe archivi compresi. Quella di Lago Regillo poteva essere una carneficina, più che una battaglia. Nel 499 a.C. a Roma c’è la repubblica. L’ufficio di consules e magistres equitorum è appannaggio di Tito Ebuzio Helva e Gaio Veturio Gemino, mentre la fama della culla della civiltà viene difesa dalla spada di un dictator chiamato Aulo Postumio. Si fa sempre meno remota l’ipotesi della guerra con la lega delle città latine, sotto l’egemonia di Tarquinio il Superbo e di Mamilio Ottavio, suo genero e soprattutto dittatore di Tusculum. Precipitati gli eventi in meno di un anno, lo scontro si combatte in terra latina.
Fantasiosa riproduzione di
Eone della Stella (fonte: eresie.it).
Giudice del Mondo. Il titolo è roboante, e fa tremare le sue carni più della voce che, dal profondo, gli si è rivolta per affidargli quella rivelazione. E per investirlo solennemente, soprattutto, di un compito che da quel giorno in poi non riuscirà più a staccarsi di dosso. Poi la luce cambia, i contorni dell’ambiente in cui si trova si fanno via via più diafani, i colori stessi sembrano sbiadire mentre un gigantesco gorgo di oscurità lo inghiotte per restituirlo alla veglia. Il sogno è finito, perché di un sogno si trattava, ma il messaggio e la visione e la missione, soprattutto, restano. Come gli è stato annunciato, sarà Giudice del Mondo. Come gli è stato ordinato, abbandonerà il nome bretone che i suoi genitori gli hanno dato e diverrà Eone, Eone della Stella. Non più nobile ma alfiere di Dio in Terra, a partire proprio dalla foresta di Paimpont che così poche leghe dista dalla natia Loudeac e che col tempo in molti identificheranno come Brécilien, Broceliande. E’ il 1145, e mentre a Chartres, nella Francia del nord, iniziano i lavori per la costruzione ufficiale della cattedrale di Notre-Dame, a Roma il pisano Pietro Bernardo Paganelli da Montemagno assurge al soglio di Pietro col nome di Eugenio III ed il titolo di 167esimo papa. Eone abbandona i modesti agi che la sua condizione gli ha sinora concesso e si ritira nella foresta vergine in cerca di purezza, per sentirsi più vicino all’orecchio di quel Dio misericordioso che gli ha mostrato una possibilità di riscatto indicandogli una via nuova e migliore.
Alarico I, secondo re dei Goti
(fonte: wikipedia.org)
E’ notte fonda nell’Urbe, ma nonostante questo le ore più buie devono ancora arrivare. Alla fine dell’estate, la città è ancora in preda ai vapori che la calura semina nell’aria. I romani che riescono a prendere sonno nonostante l’afa si avviluppano in sogni agitati, ma il 25 agosto è alle porte, e col primo sole bisogna alzarsi e riprendere il lavoro. Non tutti riposano, però. Perfino tra gli schiavi, fiaccati dai lavori più umili, invisi, degradati, c’è chi è ancora sveglio nonostante l’ora. Hanno da fare, ed è un’operosità furtiva la loro. Piccole sagome industriose che si muovono in fretta negli angoli bui della metropoli, dirette al medesimo luogo. La Porta Salaria deputata a raccordare la parte nuova dell’omonima arteria per il trasporto del sale con quella vecchia che, uscendo da Roma, raggiunge la Sabina e, di qui, l’Adriatico. Sono giorni travagliati, quelli. Cambiamenti profondi lacerano il tessuto sociale dell’Impero, mentre in silenzio e senza tregua scolorisce il limes sacro che difendeva le terre su cui alto splendeva il lume della civiltà da quelle in balìa delle orde barbariche. Lo stesso concetto di “barbaro” sta scomparendo, mentre il cristianesimo fa man bassa delle coscienze e l’identità romana si sfalda sotto la pressione delle migrazioni di cento popoli che anelano terre migliori e ben più fulgide opportunità.
La Congiura dei Pazzi, conclusa il 26 aprile 1478, fu il tentativo eseguito da alcuni membri dalla ricca famiglia di banchieri della Firenze del Rinascimento, i Pazzi appunto, di stroncare l'egemonia dei Medici con alcuni aiuti esterni. La congiura si concluse con l'uccisione di Giuliano de' Medici e il ferimento di Lorenzo il Magnifico, che si salvò solo grazie alla sua destrezza. I componenti della famiglia Medici, da sempre al centro della politica cittadina, hanno subito almeno una congiura per generazione: Cosimo de' Medici venne esiliato per motivi politici per due anni, mentre suo figlio Piero scampò per miracolo a un'imboscata tesagli da Luca Pitti sulla via per Careggi, e così anche le generazioni successive, Leone X avrebbe dovuto essere ucciso dal suo medico, istruito da un gruppo di cardinali a lui avversi, e Cosimo I rischiò di essere impallinato al passaggio del suo corteo davanti a Palazzo Pucci. La "congiura dei Pazzi" fu però l'unica congiura che riuscì nell'intento di eliminare un componente della famiglia e portò conseguenze durevoli, in giornate concitate che rimasero indelebili nella memoria dei fiorentini che vi parteciparono.
La Sponheim Kloster (Abbazia) in un’incisione di
Matthäus Merian il Vecchio (1593–1650) (fonte: Wikipedia.org)
Il primo modo è relativamente semplice da mettere in atto. Per ogni parola si consideri solo e soltanto la lettera iniziale. Di modo che da un tappeto di termini emerga un mosaico segreto di significato. E’ questa la tecnica sufficiente per sviluppare un argomento avvalendosi di un linguaggio che, pur apparendo chiaro all’occhio, riesca comunque a mascherarne il significato reale. Il metodo è tanto intuitivo che, tuttavia, la sicurezza finale che dovrebbe garantire ne risulta infine troppo spesso compromessa. Le lettere balzano subito all’occhio, e non sempre si dispone di parole adatte ad essere combinate senza destare sospetto. Ma a fronte di un primo e rudimentale metodo, ne esistono almeno altri cento che, alzando progressivamente il livello di complessità in sede di trasposizione, rendono il messaggio pressoché inespugnabile. Criptosistemi. L’arte delle spie, dei manipolatori. Di chi si destreggia nella sottile abilità della dissimulazione e dell’enigma, della comunicazione trasversale, frammentata, distribuita ad arte. Dei termini in chiaro e di quelli cifranti. Un enigma metodologico che non ha età. Nel quale, soprattutto, l’ingegno di Johann non ammette rivali. Per la vecchia Europa, il 1462 è un anno di fermento. A Firenze, tra gli incanti della villa medicea di Careggi, sta nascendo l'Accademia platonica. Un desiderio folle fa invece sì che a Milano si scavi senza sosta.
Le manovalanze al soldo di Francesco Sforza, figlio di Muzio Attendolo e primo duca della città, si spaccano le ossa per La Martesana, un canale che collegherà il territorio cittadino con il vicino fiume Adda e, di qui, con il mare Adriatico. Sul trono dorato del Gran Principato moscovita sale Ivan III Vasil'evič. Regnerà per 43 anni accompagnando il paese fino al secolo successivo, e verrà acclamato unificatore delle terre russe. Il conflitto tra Maometto II ed il voivoda valacco Vlad III esplode in tutta la sua virulenza, mentre il secondo vola a cavallo sul Danubio gelato facendo scempio degli ottomani sul suo cammino per 800 chilometri buoni. E’ il 32esimo giorno del calendario gregoriano, il 1 febbraio, quando nel landkreis - o circondario rurale - di Treviri-Saarburg, nel villaggio di Trittenheim, Elsbeth von Longwi mette al mondo il primogenito del cavaliere Jean Heidenberg, Johann. Siamo nel bel mezzo del Palatinato, ad un passo dal sacro fiume Reno. I von Longwi sono una stirpe di nobili partiti secoli prima dalla Mosella, al confine con le terre di Francia. Gli Heidenberg, invece, sono una stirpe di uomini d’arme presto divenuti fedeli servitori del Sacro Romano Impero. La loro è una vita veloce, che in fretta scorre via dalle mani e spesso termina fatalmente, nel sangue e nella violenza. Jean Heidenberg non fa eccezione, ed incontra la morte quando Johann ha appena due anni. Rimasta sola, Elsbeth combatte per sette anni con la gestione dei vigneti di famiglia, finché, stanca ed affranta, non trova migliore consolazione che convolare a nuove nozze con un altro uomo. Ma questi è un violento ed un ottuso, mal sopporta lo stesso Johann ed appone alla sua crescita già incerta il veto decisivo circa la possibilità di studiare. Passano le stagioni, ma Johann è bloccato nello stesso istante fatale. Quello che lo ha segnato per sempre, privandolo di un padre e consegnandolo all’affetto di una madre troppo occupata a far quadrare il bilancio di casa. Nel 1477 il ragazzo sa appena leggere e traccia con difficoltà estrema qualche segno sugli scarsi fogli di pergamena che gli capitano a tiro. Merito delle scappatelle notturne compiute da Johann presso la casa di un vicino compiacente che gli offre comprensione e, soprattutto, i primi rudimenti di educazione. Ma non è abbastanza, e non c’è futuro. Dietro la porta di casa von Longwi, però, c’è la via maestra. Così, al ragazzo si presenta la carta della fuga. La coglie, ed inizia una sorta di peregrinare laico che lo porterà dapprima a varcare la romana Porta Nigra di Treviri, poi in quel di Würzburg, la città universitaria della Bassa Franconia. Finalmente, nel 1479 Johann approda a Heidelberg, sulle rive del fiume Neckar. Sede dei duchi del Palatinato, culturalmente parlando la città è il fiore all’occhiello tedesco. Un posto magnifico dove mettere radici, pensa il ragazzo. Per questo, beneficiato di un provvidenziale certificato di povertà che lo esenta dai gravami delle rette, inizia a frequentare tutti i corsi che ritiene più congeniali alla sua formazione.
Giovanni Tritemio (fonte: blogspot.it)
Forte di una determinazione che fa il paio soltanto con la straordinaria memoria della quale sembra essere stato omaggiato, studia durante il giorno e si applica con profitto perfino di notte per recuperare gli anni perduti. Finisce così per padroneggiare le lingue classiche, greco e latino, e perfino l’ebraico, il caldeo, il tartaro. Ma eccelle anche nella filosofia antica e contemporanea, documentandosi grandemente al contempo nello studio della storia. E’, questa sua escalation, un percorso vorticoso dell’anima, che lo conduce infine innanzi ad un precettore, l’ignoto Maestro cui si riferisce costantemente ma del quale tiene rigorosamente segreto il nome, che lo inizia ai misteri di un neonato ordine segreto che si identifica con un fiore rosso incrociato con un simbolo sacro. I Rosa Croce. Il Maestro lo rende edotto anche circa l’opera di un personaggio leggendario, vissuto forse in età ellenistica. Maestro di sapienza e mitico fondatore di una corrente filosofica che avrebbe da lui preso il nome, questi è a volte identificato come semplice uomo, talora invece considerato addirittura un dio. Ermete Trismegisto. Il sapere di Johann è ormai assurto a livelli tanto elevati da non poter più essere contenuto nel semplice concetto di studio, così come inizia a stargli stretto lo status di scolaro. La sua è ormai la missione di un adepto. Così, dopo quattro anni di studio disperatissimo, tramonta il personaggio del giovane, inesperto Johann Heidenberg, per lasciare il posto all’iniziato ed illuminato Johannes Trithemius. E’ il 1482 – ma alcune fonti riportano anche l’anno successivo - quando l’ormai ventunenne pianifica il ritorno a casa, forse per rivedere la madre, forse soltanto per l’emozione del viaggio. Congedandosi dal Maestro, questi gli preannuncia che, strada facendo, troverà la chiave che tanto agogna, quella della sua esistenza stessa. Il ragazzo incassa e si incammina. Ma una violenta tempesta di neve lo forza a sostare presso Sponheim. Dietro il pesante portone di un monastero benedettino, Johannes trova il rifugio della sua vita. La tempesta si placa, ma il viaggio di Tritemio non riprende comunque. Due anni dopo non è più asilante presso il monastero perché ha pronunciato i voti solenni ed è divenuto ospite fisso giurando imperitura fedeltà alla Regola di S.Benedetto. Nel 1487 l’anziano mitrato che l’aveva accolto trapassa, ed i duecento abati devono nominarne il successore. La comunità sceglie, a sorpresa, l’ultimo, giovanissimo arrivato. Un ventitreenne predestinato a divenire guida e vertice dell’intera comunità. Una comunità che, tuttavia, si reggeva su incerte gambe, considerate le casse vuote e l’incuria della struttura stessa. Ozio ed arroganza, arbitrio ed accidia avevano fatto il resto, portando il consesso dei monaci sull’orlo del tracollo. Ma Tritemio è capace, ed in pochi rovescia le sorti del suo convento. Sana le falle nelle mura e con la medesima ostinazione quelle nelle tasche dell’Ordine. Soprattutto, sana i mali interiori della sua comunità, trasmutandone le lordure in aurea materia spirituale. Punta tutto sui codici antichi, rendendo il suo gregge abile oltre ogni dire nell’arte amanuense, a discapito dell’odiata stampa che a suo parere svilisce l’anima stessa delle opere, imbastardendole addirittura. Fa affluire nella biblioteca di Sponheim un nugolo infinito di volumi, tanto che il monastero diverrà un faro culturale arcinoto nell’epoca, mentre il suo salvatore si farà una fama indiscussa di sant’uomo pari soltanto alla diceria sotterranea che lo vorrà mago e negromante. In contatto proficuo con cabalisti e teologi, alchimisti ed occultisti. Membro, addirittura, di una società segreta denominata Sodalitas Celtica insieme ai compagni di studi Johann von Dalberg e Rudolf Heusmann. Storico testimone dell'esistenza di Georgius Sabellicus, alias Faustus Junior, oscuro mago e negromante errante la cui leggenda darà adito al personaggio del Faust, sono tante le leggende partorite e presto diffuse sul suo conto. Una di esse, a seguito dei tanti prodigi realizzati, lo vede convocato al cospetto di un contrito e prematuramente vedovo imperatore Massimiliano, che lo interroga circa l’opportunità di prendere nuovamente moglie, in osservanza alla più schietta ragion di Stato, o piuttosto mantenere la vedovanza del cuore. Tritemio, in questo caso, avrebbe evocato l’anima della defunta imperatrice Maria direttamente dal regno dei morti, tracciando un ampio cerchio in terra e pronunciando apposite formule proibite che avrebbero materializzato la trapassata.
Disco rotante a sostituzione
mono-alfabetica romana (fonte: pazuzu.it)
Davanti agli occhi dei due, e prima che le forze abbandonassero Massimiliano, Maria avrebbe annunciato le future nozze dell’uomo più potente del mondo occidentale d’allora con la figlia del duca di Milano, Galeazzo Sforza, in quei giorni ancora affidata alle cure dell’arcinoto zio Ludovico il Moro. Esasperati da una fama così palese – e così sinistra – i suoi stessi monaci recuperano il primitivo, deviato temperamento per esautorarlo, motivando il loro voltagabbana con una mala sopportazione della eccessiva disciplina loro imposta dall’abate. E’ il 1506 quando Tritemio, tenuto lontano da Sponheim dall’immancabile missione di fede, viene costretto a non far ritorno al suo monastero. Ripara a Wurtzburg, presso l’abbazia di San Giacomo. Mediterà e scriverà al sicuro delle sue mura nella pienezza della solitudine dorata volontariamente abbracciata per un altro decennio, finché non terminerà il suo cammino mortale, il 15 dicembre 1516, anno in cui Tommaso Moro pubblicherà la sua opera più celebre, L'Utopia. Due anni più tardi verrà pubblicata una delle sue opere più discusse, la Polygrafia. Un testo, questo, nei sei volumi del quale alla calda devozione dell’uomo di Chiesa subentra la decisa sagacia dell’esperto di scritture segrete e tecniche per inviare messaggi cifrati. E di prefiguratore della Tabula recta, soprattutto, quale tecnica incorporazione dell'alfabeto in righe disposte a quadrato, costruite sfalsandone l’ordine di una lettera verso destra o verso sinistra. Ma tutto sommato la Poligrafia è un testo tanto ingegnoso quanto innocuo. Incapace di destare vive preoccupazioni, proprio per questa sua mansuetudine è giunta intatta ai nostri giorni. C’è ben altro nella produzione letteraria di Tritemio. Qualcosa capace di strappare più di un brivido, massimamente nelle poco lungimiranti autorità civili e religiose dell’epoca. Filippo II si fa chiamare il Giovane per tentare di far sì che il suo nome si distingua più agevolmente nella storia da quello del suo omonimo padre e predecessore. E’ Langravio d'Assia-Rheinfels, vale a dire conte e fedelissimo dell’Imperatore. Come tale, gode di una posizione di assoluto privilegio e, soprattutto, di enormi poteri. Il suo verbo è legge. La sua semplice opinione si fa tendenza di popolo. Un giorno, tra i volumi che suo padre ha convogliato nella biblioteca del palazzo, scova un manoscritto ingiallito. Sul frontespizio, il nome di Giovanni Tritemio, abate di Sponheim. Il testo reca un titolo nel quale, nel consueto mare di latino, riecheggia un termine in greco antico, la lingua dei dotti. Steganographia sive de ratione occulte scribendi. Filippo inizia a sfogliarlo. Inorridisce pagina dopo pagina. Chiede che gli vengano fornite informazioni circa l’autore, quello strano abate che opera non molto lontano. Vuole sapere tutto. Anche i dettagli, perfino le voci. E sulle voci, i suoi servi sono particolarmente ferrati… La repulsione di Filippo è tale che getta i fogli in terra, chiama i suoi servitori e ne ordina la distruzione immediata e nella pubblica piazza. Al rogo. Scompare così una delle poche versioni complete del testo di punta della produzione di Tritemio. La sua fama parallela, se possibile, si fa ancora più nera. Perché? La steganografia è una tecnica che si prefigge l’occultamento della comunicazione tra interlocutori. Deve il suo nome ai termini greci “scrittura” e “nascosta”. Nel 1550 non è una novità assoluta. Erodoto riporta la vicenda del lacedemone Demarato, che per avvertire i suoi compatrioti dell’imminente invasione da parte delle schiere persiane di Serse scrisse di suo pugno un messaggio di allerta su di una tavoletta che poi fece cospargere di cera, proprio alla stregua delle tavole di uso comune, per riportarvi un altro messaggio neutro. Ripetiamolo: il concetto di steganografia non è affatto recente. Ma a Tritemio va un merito indiscusso. Quello dello sforzo di razionalizzazione, della costruzione di una teoria finita. Una teoria articolata in 40 sistemi principali e 10 sotto-sistemi secondari. Capace di impiegare e mettere a frutto con successo anche combinazioni di acronimi e perfino supporti con dischi rotanti basati su sostituzioni mono-alfabetiche di origine romana. Dietro tutto questo, l’intuizione semplice ma fondamentale di nascondere un messaggio dentro l’altro ricorrendo ad artifici logici e matematici condivisi tra destinatario e mittente. Eredità di un’astuzia, quella di Demarato, che aveva salvato la sua minuscola patria sul punto di essere inghiottita dal gigante ingordo dell’impero più fastoso della storia. Ma la Steganographia si propone anche altri e ben più ambiziosi fini. Inviare messaggi tramite l'uso di linguaggi magici. Fare leva su sistemi di apprendimento accelerato. Bypassare l'utilizzo di simboli o messaggeri. Piegare la volontà di qualcuno con la sola forza del pensiero, forse. Inizialmente, l'opera prende a circolare unicamente in corrispondenze private. Ma anche in questa forma suscita reazioni tanto allarmate che Tritemio stesso ne vorrebbe evitare la stampa. Si dice addirittura che ne abbia distrutto larghe parti di suo pugno. Un trattato visionario e, soprattutto, scomodo insomma, che secondo voci di corridoio avrebbe tra l’altro costituito una delle fonti d’elezione del futuro De Magia Mathematica di Giordano Bruno. Eppure, alcuni stralci del testo sopravvivono, e nel 1606 esce a Francoforte la prima, postuma edizione di un volume sospetto che è giunto sino a noi. E’ una gloria mutilata ed offuscata, però, se appena tre anni dopo l'opera viene inserita nell'Indice dei libri proibiti con una scomunica destinata ad estinguersi solo al di là del tempo, nel 1923. Una gloria che tuttavia, malgrado i sospetti di corruzione ed alterazione del significato ingenerati dalle tante trascrizioni manuali subite nella sua fase clandestina, non smette di meravigliare. Sia nell’edizione tedesca che in due successive (datate 1616 e 1621 e redatte a difesa del misterioso abate da un confratello bavarese), compaiono infatti singolari avvertenze. Specifiche che sentenziano che le suddette edizioni avvengono dietro permesso dei Superiori. Superiori non ecclesiastici, però, considerato che l’opera di Tritemio finisce all’Indice anni prima. C’è perfino chi, nella completa latenza di spiegazioni su questo fronte, è giunto ad ipotizzare l’esistenza di una misteriosa società segreta, più potente della Chiesa stessa ed in primissima linea con la diffusione controllata del sapere. Massoneria? Uomini in Nero? Sta di fatto che, dal 1623, i volumi furiosamente raccolti a Sponheim risiedono presso gli infiniti recessi della Biblioteca Vaticana. Colpo finale di spugna del Soglio di Pietro, per mezzo di quel Papa Urbano VIII che tollera lo svolgersi del processo a Galileo, ad una biblioteca che nei suoi giorni di splendore aveva elevato la sua fama al pari di altri grandi centri della cristianità dotta quali l’Ungheria e Roma stessa. “È pertanto l'alchimia una casta meretrice, che ha molti amanti, ma tutti delude e a nessuno concede il suo amplesso. Trasforma gli stolti in mentecatti, i ricchi in miserabili, i filosofi in allocchi, e gli ingannati in loquacissimi ingannatori” si legge tra le pagine del capitolo 58 dell’infinito pendolo di Foucault di Umberto Eco. E’ la morale postuma della favola di un sant’uomo, poligrafo ed autore di testi di demonologia (l’Antipalusmaleficiarum), di "scienze curiose", di disamina della magia naturale, di storia (De viris illustribus Germaniae, ad esempio). Un erudito teologo ed un dotto umanista che in molti hanno voluto stregone, impostore, negromante. L’abate Giovanni Tritemio, seconda vita dello sfortunato Johann Heidenberg.
Articolo di Simone Petrelli. Tutti i diritti riservati
I filosofi medievali pensavano che il corpo umano, essendo l'uomo creato ad immagine di Dio, fosse una proiezione del cosmo. Essi avevano così stabilito una reciprocità di influssi tra i pianeti allora conosciuti e le corrispondenti parti del corpo umano. Questo principio veniva riassunto nella breve (rase: «come in alto così in basso».
MUSICA COSMICA CORRISPONDENZA TRA I PIANETI
E LE VARIE PARTI DEL CORPO UMANO
Una corda di uno strumento musicale, posta in vibrazione, genera un'onda acustica cui corrisponde una frequenza ben definita, cioè una nota. Se nello stesso ambiente si trova un secondo strumento simile al primo, la corda di esso che per lunghezza e tensione corrisponde alla corda vibrante del primo strumento, si metterà anche lei a vibrare per risonanza. Le onde sonore trasmesse dall'aria al secondo strumento faranno risuonare in esso non solo la stessa nota, ma anche le armoniche e le sub-armoniche. Così, se in una stanza vi sono due pianoforti e premiamo il tasto del DO centrale di uno di essi, cui corrisponde la frequenza di 256 vibrazioni al secondo (Hertz), noi sentiremo un suono rinforzato per il fatto che anche la corda del DO centrale del secondo pianoforte sarà entrata in vibrazione per risonanza, purché, abbassando il pedale di destra, siano stati esclusi gli smorzatori. Non solo, ma risuoneranno anche tutti gli altri DO, da quello più basso della 4a ottava inferiore (16 Hz = 256/16) all'acuto di 4096 Hz (= 256 X 16), della 5a ottava superiore. E' come se 17 dita invisibili avessero premuto altrettanti tasti. Gli strumenti musicali sono un esempio di applicazione del principio della risonanza, perché in essi il suono viene rinforzato mediante l'impiego di casse armoniche, capaci di risuonare (per forma e struttura) con diverse frequenze vibratorie, quali sono quelle delle note fondamentali emesse dallo strumento e delle loro armoniche: i due suoni, quello fondamentale e quello emesso dalla cassa armonica, essendo in risonanza, si sommano producendo il rinforzo. Così, il corpo vibrante che entra in risonanza può rinforzare onde la cui frequenza può essere un multiplo o un sottomultiplo della nota fondamentale. Riassumendo possiamo dire che con la risonanza si ha: 1.trasmissione di energia da un corpo emittente ad uno o più corpi riceventi; 2.questi ultimi risuonano solo se sintonizzati sulla stessa frequenza dell'emittente, o su frequenze multiple e/o sottomultiple (armoniche e subarmoniche); 3.il suono viene rinforzato perché aumenta la sua intensità (ampiezza dell'onda). In virtù dello stesso principio il circuito oscillante di una radio ricevente, sintonizzato sulla stessa frequenza della stazione trasmittente, entra in risonanza con quest'ultima e riceve il segnale trasmesso dalla prima. Ma l'emissione di onde radio riguarda anche i corpi celesti e la radioastronomia ha per oggetto lo studio delle radiazioni elettromagnetiche provenienti dagli spazi cosmici di lunghezza d'onda compresa tra pochi millimetri (microonde) e circa 20 m (radiofrequenze). Attualmente sono state scoperte parecchie migliaia di radio sorgenti, di cui solo poche centinaia sono visibili. Il Sole emette una radiazione a radiofrequenza indipendente dal ciclo solare, alla quale se ne sovrappone un'altra variabile con periodo di circa 27 giorni, che è il periodo di rotazione del Sole. Anche i pianeti e i satelliti sono centri di emissioni di radioonde. A partire dal 1954, quando fu scoperto che Giove è una potente emittente di onde elettromagnetiche, abbiamo potuto accertare che l'intero nostro sistema solare irradia onde elettromagnetiche. Quindi anche i pianeti, essendo corpi vibranti, possono entrare in risonanza. Nel 1968 l'astronomo sovietico A. M. Molchanov affermò di “avere scoperto nel sistema solare una struttura risonante che comprende tutti i pianeti e le loro lune e satelliti”. Questo vuol dire che i pianeti e le loro lune si comportano come corde vibranti munite di casse armoniche capaci di risuonare tra loro su una nota fondamentale e sulle armoniche di ordine superiore e sulle sub-armoniche (sottomultipli della nota fondamentale), cioè con risonanze sulle ottave superiori e su quelle inferiori. La teoria di Molchanov potrebbe spiegare lo strano comportamento del pianeta Venere il quale compie la sua rotazione in 243 giorni volgendo lo stesso lato verso la Terra quando si trova alla minima distanza dalla Terra e dalla stessa parte del Sole. Dunque, il moto di rotazione dipende dal moto di rivoluzione della Terra e sembra proprio che i due pianeti siano collegati da un rapporto di risonanza. Secondo lo scienziato H. P. Sleeper della Northrop Service Inc. anche la rotazione del Sole può essere interpretata come una risonanza orbitale della Terra. Infatti la rotazione sinodica del Sole di 27,04 giorni è un sottomultiplo quasi esatto di due anni terrestri (730,5/27 = 27,05 ). Strane coincidenze esistono tra i multipli dei periodi planetari. Non si tratta di vere e proprie risonanze ma sono note come « quasi commensurabilità ». Esse sono:
4 periodi orbitali di Mercurio = 1 della Terra
5 periodi orbitali di Mercurio = 2 di Venere
3 periodi orbitali di Venere = 1 di Marte
6 periodi orbitali di Marte = 1 di Giove
5 periodi orbitali di Giove = 2 di Saturno
e così di seguito per Urano, Nettuno e Plutone.
Inoltre si è trovato [Paul D. Jose (1965); H. Prescott Sleeper (1972)] che 46 orbite di Mercurio corrispondono ad un ciclo di circa 11,1 anni, ciclo che è comune ai pianeti interni: 18 orbite di Venere, 11 orbite della Terra, 6 orbite di Marte. Vediamo quindi che tutti i pianeti interni sono in relazione armonica con il periodo di attività delle macchie solari, che è appunto di 11,1 anni. Ma il Sole possiede un altro periodo significativo, quello della sua rotazione intorno al centro delle masse del sistema solare: 178,7 anni. Ebbene, i pianeti esterni, eccetto Plutone, hanno una relazione armonica con questo periodo del Sole (Jane Blizard). Siamo di fronte a semplici coincidenze oppure queste «quasi commensurabilità» ci rivelano uno stretto legame interplanetario? Lo spazio che ci circonda sta diventando sempre meno «freddo e muto» e siamo sempre più portati a pensare al nostro sistema planetario come ad un organismo vivente, percorso da energie vibranti e costituito da parti collegate da rapporti armonici. La Legge dell'Ottava Secondo un'antica conoscenza gli eventi procedono in base alla legge del Sette, o legge dell'Ottava. Stando a questa legge, tutto nell'Universo si muove perché riceve un impulso che si propaga per onde in modo discontinuo. Esso infatti non si mantiene costante, ma muta, ad intervalli diseguali, d'intensità e di direzione. Per comprendere bene il significato di questa legge, dobbiamo tenere presente che, secondo questa antica dottrina, tutto l'Universo è pervaso da vibrazioni che si propagano in ogni tipo di materia, dalla più sottile alla più grossolana, e in tutte le direzioni. Possiamo anzi dire che l'Universo stesso consiste in vibrazioni. Si definisce ottava il periodo compreso tra una data frequenza e il doppio, o la metà, di detta frequenza. Esistono due tipi di ottave: discendenti e ascendenti. Tutti i tipi di creazione si sviluppano in ottave discendenti, in cui l'idea originaria si traduce in un progetto dettagliato passando attraverso stadi caratterizzati dalla crescente complessità, varietà, molteplicità, degradazione Le ottave ascendenti costituiscono un riflusso di energia da materia grezza a prodotto raffinato, dall'informe al formato, dal generico al determinato, cosicché la linea di evoluzione si oppone a quella di creazione e si integra con essa. Un'ottava ascendente è compresa tra un certo numero di vibrazioni nell'unità di tempo (frequenza) e il doppio di quel numero. In due punti ben determinati dell'ottava, l'energia che si propaga nello spazio e nel tempo subisce un indebolimento perché in questi due punti diminuisce l'incremento della frequenza. Se in questi punti di crisi non interviene un apporto esterno di energia, l'ottava cambia direzione o cambia natura. E' questo il principio della discontinuità delle vibrazioni. Dopo il primo rallentamento temporaneo, le vibrazioni riprendono ad aumentare (nel caso delle ottave ascendenti) con l'incremento che avevano prima, fino ad un nuovo affievolimento dell' energia. I periodi durante i quali le vibrazioni aumentano in modo costante non sono uguali e i brevi periodi di rallentamento del tasso vibratorio non sono disposti in modo simmetrico entro l'ottava. Questa legge è più evidente nei processi di trasformazione, sia nell'ambito dei fenomeni fisici, sia in quello delle attività umane. Quando un solido, a seguito di somministrazione di calore, passa prima allo stato fuso è poi a quello di vapore, attraversa due fasi durante le quali la temperatura rimane costante. Noi continuiamo sempre a fornire calore, ma durante i due cambiamenti di stato il calore viene utilizzato unicamente per la disgregazione delle molecole, cosicché all'esterno il termometro non segna alcun innalzamento termico. E' il cosiddetto calore latente di fusione e di vaporizzazione. La linea di sviluppo dell'intero processo non è continua ma segue un diagramma a gradini: ai periodi di aumento della temperatura seguono due periodi di stasi. Perché la temperatura possa fare un nuovo balzo è necessario un accumulo di energia. Se questa non viene fornita prontamente nella giusta quantità, il processo si arresta. Un pendolo semplice, scostato dalla posizione verticale, ricade per effetto del suo peso, raggiunge la posizione di equilibrio e, per inerzia, risale. Consumata tutta l'energia acquistata durante la discesa, il pendolo si ferma e inizia il moto di ritorno: si ha così una serie di oscillazioni che le inevitabili resistenze passive vanno a poco a poco smorzando. Sotto l'azione di una forza che varia di intensità e di direzione il pendolo dapprima accelera e poi ritarda fino a fermarsi. Raggiunto il massimo scostamento dalla posizione di equilibrio il moto riprende con la stessa legge, ma in direzione opposta, senza però tornare esattamente nella posizione di partenza: l'oscillazione di ritorno è meno ampia di quella di andata e il grafico che la rappresenta è una figura asimmetrica. Siamo di fronte ad un moto intermittente, nel quale il moto e la quiete si alternano ad intervalli regolari ma non uguali, agli incrementi seguono le diminuzioni, alle salite le discese, allo «sviluppo» segue prima l'arresto poi il regresso. E' lo stesso tipo di moto di cui è animata una corda armonica posta in vibrazione. Se queste vibrazioni sono più di 16 e meno di 20.000 al secondo noi abbiamo la sensazione di suono. Se volessimo ottenere oscillazioni di ampiezza costante dovremmo agire sul pendolo dall'esterno con un impulso, una spinta esercitata al momento giusto, nel punto più appropriato della sua traiettoria. La forza aggiunta deve essere d'intensità e di durata adatte ed in fase col moto. Il pendolo (o una molla) che oscilla e le corde di una chitarra che vibrano sono esempi dello stesso tipo di moto. Ma con la
stessa legge si generano e si propagano le onde elettromagnetiche, e quindi la luce. Tutti questi fenomeni vibratori hanno in comune quei principi che abbiamo visto a proposito della legge dell'ottava e cioè: il principio della discontinuità delle vibrazioni, della deviazione delle forze e quello dell'inevitabilità dell'alternarsi delle crescite alle decrescite. Lo stesso fenomeno possiamo osservare in ogni campo dell'attività umana, sia nella vita individuale che in quella sociale. Nulla resta al medesimo livello. Noi non siamo sempre in grado di distinguere la salita dalla discesa, né di scorgere ciò che avviene dentro di noi, per un difetto di prospettiva. Nello sviluppo di ogni ottava si verificano delle fluttuazioni periodiche. In ogni manifestazione della nostra vita notiamo che tutto evolve perché muta secondo questa legge cosmica della inevitabilità sia della salita che della discesa. «Vi sono nell'uomo forse centinaia di pendoli in movimento. Queste salite e queste discese, queste fluttuazioni dei nostri umori, dei nostri pensieri, sentimenti, energie, determinazioni, corrispondono sia ai periodi di sviluppo delle forze da un intervallo all'altro, sia agli intervalli stessi» (P.D. Ouspensky «Frammenti di un insegnamento sconosciuto »). Fatta eccezione per pochi casi del tutto accidentali, la linea di sviluppo dell'ottava di solito non è retta. Ne consegue che la nostra azione non è libera in assoluto, pur essendo libera la volontà di azione. La nostra libertà di azione è tanto limitata che resta in noi quasi allo stato potenziale. Il nostro diritto è limitato dal diritto degli altri: La nostra azione “è limitata” e condizionata dalla reazione, dalla opposizione di tutte le «volontà» d'azione di tutti gli esseri che ci circondano. Una pietra che ci fa inciampare e cadere, la spina che ci trattiene, l'automobile che ci travolge allorché attraversiamo la strada, sono esempi di ostacoli che fanno deviare la linea di sviluppo dell'ottava dalla direzione originaria. Effettivamente noi vogliamo sempre compiere un atto, ma non sempre possiamo eseguirlo. Poi c'è la volontà opposta (cieca o cosciente) degli uomini, che non invalida tuttavia il principio-volontà che è in noi. Appena è lanciata nell'ambiente vibratorio che ci circonda e ci stringe da ogni parte, la nostra azione non è immediatamente più libera perché viene ostacolata e deviata dalla resistenza o dalla maggiore o minore conformità di direzione degli atti di tutti gli altri esseri componenti questo complesso ambiente multivibratorio che è la Vita. La legge dell'ottava spiega perché in natura nulla si svolge in linea retta. Nel pensare e nell'agire tutto accade, di solito, in modo diverso da come vorremmo, anzi spesso in modo contrario. Nel punto in cui l'onda rallenta la sua frequenza avviene una deviazione dalla direzione originaria. Le deviazioni si sommano e la linea di sviluppo dell'ottava, ripiegandosi su se stessa, può giungere fino ad invertire il senso di propagazione e a chiudersi in cerchio. Noi avremo la sensazione di avere sempre proseguito nella stessa direzione, in realtà siamo tornati al punto di partenza. Lo slancio iniziale dopo qualche tempo s'indebolisce, interviene un periodo di sfiducia e/o di stanchezza. Poi l'entusiasmo riprende ancora per un po' per poi subire un ulteriore calo in corrispondenza del successivo punto critico. Se qui non interviene tempestivamente uno stimolo addizionale di adeguata intensità, l'ottava abortisce e si può ridurre ad una terna. Tuttavia può accadere di osservare in natura uno sviluppo corretto e costante dell'ottava. Anche nei vari campi dell'attività umana, in qualche caso, è possibile imbattersi in ottave che evolvono liberamente, senza interruzioni né deviazioni. Questa rara eventualità sarebbe dovuta allo choc aggiuntivo, indotto in una data ottava da altre ottave che con essa si incrocino nei punti di crisi e ne colmano gli intervalli e il deficit di frequenza vibratoria. Questo accidente può prendere il posto di una ferma volontà, di una precisa intenzione e di una attività costante.
« ... Ma queste linee di sviluppo di forze che sono raddrizzate accidentalmente e che l'uomo può qualche volta vedere, o supporre, o sperare, mantengono in lui, più di ogni altra cosa, l'illusione della "linea retta". In altri termini, crediamo che le linee rette siano la regola e che le linee spezzate e interrotte siano l'eccezione».
ALCHIMIA E MUSICA
Parola del maestro
...il testo che segue è frutto di una riflessione svolta a sostegno degli sforzi che sguardosulmedioevo.blogspot.com compie per far riemergere e attualizzare una dottrina sacra e preziosa. Portare in superficie una verità da sempre nascosta e protetta è un esperimento compatibile con l’era dell’Acquario che abbiamo appena cominciato a vivere. Le parole sono state scelte per essere meditate e nonconsumate inutilmente. L’augurio è che siano utili ad un processo di crescita spirituale e culturale per tutti coloro che avranno la fortuna di approfittare di questa occasione.
Ci si può chiedere se uno studio esclusivo, esoterico ed enigmatico come quello sull'alchimia abbia un ruolo determinante nelle vicende del mondo. Quali benefici può apportare all'umanità, o cosa può aggiungere al patrimonio delle nostre conoscenze, specialmente quando coloro che vi aderiscono ritengono una virtù mantenere il segreto sui loro studi, da confinare solo alla loro cerchia ristretta? Si potrebbe ribattere che ogni filosofia, ogni movimento religioso o studio esoterico, se è essenzialmente vero e sincero, costituisce una base di appoggio per qualsiasi tentativo umano di progresso. Se la sua struttura è radicata in principi universali, in ciò che talora si designa «la filosofia perenne», allora può davvero investire ogni livello dell'esistenza, dal piano spirituale a quello pratico. Anche se gli insegnamenti più riposti rimangono celati, magari per un certo numero di anni, o addirittura per sempre, sarà comunque inevitabile che prima o poi essi abbiano ad influire sul corso della storia umana. Ciò che è esoterico diventa essoterico; la teoria si trasforma in pratica, l'astratto si muta in concreto. Si può dire che la capacità di una tradizione saggia di portare frutto nella vita quotidiana è tanto importante quanto il grado di illuminazione dei suoi seguaci. Nel caso dell'alchimia, la sua influenza può essere individuata nel campo delle scoperte scientifiche, nella letteratura, nelle arti e nello sviluppo della psicologia moderna. Talvolta questi sviluppi furono determinati dalle stesse persone che erano profondamente immerse nello studio dell'alchimia; in qualche caso si trattò di prestiti dalla struttura e dal linguaggio alchimistico. Certe scoperte, segnatamente in campo scientifico, furono frutto di esperimenti condotti nel corso di procedimenti alchimistici, mentre altre applicazioni dell'alchimia ricevettero nuova linfa e furono, per così dire, create ex novo, dopo che si procedette a rielaborare alcuni principi essenziali estratti dalla filosofia e dal simbolismo alchimistici. In questo capitolo si darà uno sguardo al modo in cui l'alchimia svolse, in contesti diversi, una funzione ispiratrice. In alcuni casi il legame è molto immediato, in altri può essere più speculativo o intrecciato ad altre tradizioni occulte o filosofiche. Non è sempre agevole rintracciare i punti in cui l'alchimia ed altre scienze altrettanto esclusive e segrete valicano la soglia che le separa dal mondo esterno; la scoperta di questi punti può comunque dimostrarsi assai eccitante, perché dà modo di rimettersi in contatto con l'energia originale che li ha ispirati e quindi di ampliare e rivitalizzare la visione che si ha in merito all'argomento in questione. Probabilmente non si azzarda troppo quando si dice che questo è un modo per completare il processo della creazione: l'impulso spirituale si fa strada attraverso la forma della materia, poi viene dimenticato, per essere in seguito riscoperto ad opera di uomini di un'epoca e di un paese differente, e legarsi così nuovamente alla forza creatrice divina (si pensi all'etimologia del termine re-ligo, che significa appunto «legare di nuovo"); in questo modo si viene a creare un nuovo collegamento fra la dimensione temporale e quella dell'eternità. A questo punto può verificarsi un'ulteriore creazione: è il caso, per fare un esempio, della filosofia degli antichi maestri Platone ed Aristotele, la quale, insieme con i testi ermetici, ispirò il Rinascimento europeo, periodo che indica, già nel nome, un concetto di «rinascita". E inevitabile che al suo ingresso nel mondo ordinario la conoscenza può subire un processo di dispersione o addirittura venire minata alla radice da tradizioni spirituali preesistenti. Come vedremo nel prossimo capitolo, Isaac Newton fu un mistico appassionato e un adepto dell'alchimia, purtuttavia le sue scoperte scientifiche sfociarono in una scuola di pensiero che rigettava tutto ciò che non si poteva pesare, misurare e quantificare. Dion Fortune, uno scrittore di scienze occulte associato all'Ordine della Golden Dawn e ad altri ordini esoterici, ha tenuto a precisare, in toni piuttosto oscuri, che le tecniche comunemente impiegate dalle agenzie pubblicitarie un tempo erano note solo agli esperti. In tal caso, si potrebbe ipotizzare che queste tecniche, che probabilmente implicano il potere dell'immaginazione e la forza di suggestione, possono essere state rese popolari e addirittura applicate per scopi estremamente ambigui. Esempi di questo tipo spiegano perché gli alchimisti siano così desiderosi di tenere nascosto il proprio sapere, che altrimenti può correre il rischio di cadere nelle mani sbagliate.
ALCHIMIA E MUSICA BAROCCA
La nostra indagine, sulle orme dell’Alchimia che avanza timidamente alle prime luci del giorno, incomincia con uno sguardo ai rapporti che legano alchimia e musica barocca. Raramente si è pensato di associare questi due temi, mentre esiste in realtà uno stretto legame fra di loro. Il più grande compositore del tempo, Claudio Monteverdi, si dedicò a pratiche alchimistiche, e anche altri famosi compositori dell'epoca si diedero a bussare alle fonti dell'antica saggezza e a incanalarle nella propria opera; gli studi di questo tipo, all'epoca fiorenti soprattutto nell'Italia settentrionale, includevano alchimia, neoplatonismo, astrologia e Kabbalah. La musica barocca, termine con cui questa “nuova musica” divenne nota, apparve negli anni fra il 1570 e il 1610. I suoi effetti furono notevoli, perché in quel breve periodo si ebbe una rivoluzione in campo musicale. Furono create nuove forme di canto solistico e di musica strumentale; la musica e il dramma si fusero in modo davvero completo, e dalla loro unione nacquero l'opera e l'oratorio. La sua innovazione preannunciava un'era musicale che durò per circa due secoli e tra le file dei suoi compositori si annoverano nomi del calibro di Johann Sebastian Bach, Georg Friedrich Haendel, Henry Purcell e Antonio Vivaldi. Molte delle forme e delle cifre stilistiche da essa impiegate sono rimaste ancor oggi nel corrente linguaggio musicale e la stessa musica barocca, naturalmente, vive e prospera ancora sui palchi dei concerti. Questa musica sembra, di fatto, godere oggi, più che in passato, di grande apprezzamento; ciò che incanta in maniera crescente è il suo amore per le forme limpide, graziosamente architettoniche, per la sua chiarezza e per la sua bellezza, che si sposano ad una prorompente vitalità. Quando si incomincia a scavare in profondità per scoprire le connessioni fra l'alchimia e la musica barocca, ci si imbatte in prove di carattere differente. Alcuni legami sono diretti: fra questi si può citare il provato interesse di Claudio Monteverdi per l'alchimia e il suo intento dichiarato di intessere nella sua musica verità filosofiche. Fra le deduzioni che si possono trarre c'è quella che la pratica dell'alchimia era all'epoca diffusa nel Nord Italia e che i gruppi di dotti e di compositori che si adoperavano a creare una nuova forma di musica, possono quasi certamente avere incluso l'alchimia fra i loro studi di metafisica e di mistica. Infine, si può tracciare un parallelo fra la pratica alchimistica e la musica barocca, nella misura in cui entrambe mirano ad una comprensione più ampia del processo creativo che sta alla base del lavoro di composizione. Siamo solo agli inizi di questa affascinante esplorazione e penso che gli anni a venire getteranno sempre maggior luce e daranno un più grande numero di prove delle connessioni che legarono queste due arti. Nei prossimi capitoli porterò esempi di ricerche già condotte sui legami fra l'alchimia e altre scienze ed arti; in questo capitolo presenterò l'area che ho indagato personalmente. Un altro parallelo tra l’Alchimia e la musica barocca riguarda la generazione di coppie conflittuali di opposti. Una delle innovazioni radicali della musica barocca fu l'impiego deliberato di acuti contrasti tonali in successione, per accrescere la tensione e innalzare la drammaticità di un testo. Spesso questi contrasti sono piuttosto violenti e ricorrono in una sequenza musicale molto breve, cosicché, per esempio, nel coro di un pezzo di musica sacra si possono udire le voci congiungersi in pochi accordi dolcemente polifonici, per poi mutare improvvisamente in un passaggio vivace. Per l'epoca questo fu alquanto provocatorio, ma indubbiamente molto stimolante. In alchimia, le prime fasi del processo sono contrassegnate da una scissione violenta della Materia Prima in due parti, che liberano così le polarità dinamiche racchiuse al suo interno. Questa fase è spesso dipinta come una battaglia, un duello fra una coppia di uomini, cani o draghi. Questa energia può successivamente venire utilizzata per attivare la trasformazione alchimistica; per giungere ad una soluzione finale e alla trasformazione, bisogna dunque provocare un conflitto. «Ero consapevole del fatto che sono gli opposti a smuovere in modo potente la nostra mente, e... questo è il traguardo che tutta la buona musica si dovrebbe porre»: così scrisse Monteverdi nel tentativo di descrivere la sua ricerca di una forma musicale adatta a rappresentare la conflittualità, una ricerca a cui «[si] dedicò con non poca diligenza e impegno». Questo ci conduce alla prossima corrispondenza, spostandoci da un concetto base di dualità a quello delle tre forze che possono essere viste come un consolidamento sia della composizione musicale sia del processo alchimistico. In musica esse corrispondono a tre «modi» di espressione; in alchimia esse sono il sale, il mercurio e lo zolfo, ossia corpo, anima e spirito. Questa triade fondamentale non è esclusiva dell'alchimia, ma si ritrova, con nomi diversi, nella Kabbalah, nella filosofia platonica e naturalmente nella dottrina cristiana della Trinità. Lavorare in modo attivo con la triade, però, piuttosto che limitarsi al riconoscimento della sua esistenza, è un accentuazione propria dell'alchimia e questo processo di attività con le tre forze può servirci, a mio parere, a cogliere altri dati per interpretare la musica barocca. Fu Monteverdi ad innovare e stabilire questo principio musicale di una triplice possibilità di espressione: «Ho riflettuto sul fatto che le principali passioni o affezioni della nostra mente sono tre, cioè ira, moderazione e umiltà o supplica; i migliori filosofi sostengono questa veduta e la natura stessa della nostra voce ce lo dimostra con i suoi registri alto, medio e basso. L'arte della musica si riferisce a questi tre termini quando parla di "concitato", "molle" e "temperato". In tutte le opere dei precedenti compositori ho scovato degli esempi dello stile "molle" e "temperato", ma mai di quello "concitato". Monteverdi iniziò pertanto a lavorare alla creazione di un modo che rappresentasse musicalmente la guerra, come si è detto sopra. Fondamentalmente, lo stile da lui elaborato, e denominato «concitato», consiste di note velocemente ripetute centrate su una vibrazione regolare, ma adattata al ritmo e al senso delle parole del canto. È possibile che questa triade in dinamica cooperazione possa essere alla base delle composizioni musicali del tempo molto più di quanto finora non ci si sia resi conto. Monteverdi, data la sua formazione platonica e alchimistica, potrebbe avere considerato questa triplicità non solo come un terzetto di emozioni che richiedono di venire espresse, ma come un modo di descrivere le tre forze fondamentali della creazione in termini umani. Michael Maier, nelle sue fughe alchimistiche, fece proprio questo e ricorse al mito classico di Atlanta, la vergine veloce nella corsa, per personificare il mercurio, lo zolfo e il sale rispettivamente in Atlanta, Ippomene e la mela d'oro. Le tre voci qui si rincorrono in alternanza; le loro parti sono strutturate a simboleggiare l'individualità delle loro nature, mentre le armonie e le progressioni musicali rappresentano i mutamenti che intervengono nei loro reciproci rapporti. Sia la prefazione stessa di Maier alla sua opera, sia l'analisi di chi l'ha edita non lasciano dubbi in merito al fatto che intendesse dipingere un ritratto il più dinamico possibile della triade esistente nell'alchimia, volgendo in musica reale il mercurio filosofico, l'infuocato zolfo e lo statico sale. Fino ad ora si è visto che le tre forze creative dell'alchimia possono essere musicalmente strutturate sia in termini di armonia sia di registri stilistici di espressione. È altresì possibile che siano stati utilizzati per fornire alla musica un modello base funzionale, in cui ogni parte della triplicità riceve a tempo debito rilievo. Se si considerano certe composizioni sotto questa luce, si aprono nuove vie interpretative. Si prenda, ad esempio, il Lamento d'Arianna, scritto nel 1608. Si tratta di un prolungato lamento solistico; era il pezzo culminante di un'opera completa di Monteverdi basata sul mito di Teseo e Arianna, all'epoca ritenuta un capolavoro, ma oggi, purtroppo, completamente perduta. Il lamento è basato su una successione complessa delle emozioni provate da Arianna nel momento in cui viene abbandonata, e al sentimento misto di odio e amore che ella prova per Teseo. Se questo pezzo viene suddiviso in tre sezioni, si scoprirà immediatamente che il registro dominante di ciascuna sezione si accorda alla triplicità di «molle», «concitato» e «moderato». Nella prima sezione Arianna chiede alternativamente di poter morire e che Teseo faccia ritorno da lei; questo è il registro «molle», della supplica, della forza d'amore. Nella seconda, il suo rancore e la sua ira prendono il sopravvento; invoca la tempesta e gli uragani, perché vadano a distruggere Teseo che viaggia alla volta di casa. Qui è proprio lo stile «concitato», sia nel tema che nella traduzione musicale. Infine Arianna entra nello stato di «moderato»; il suo dolore persiste, ma si riconcilia con la dignità della sua sorte, si congeda dai suoi genitori e dalla sua patria. Il suo destino, dice, è quello di una persona che ha troppo amato e che ha concesso troppa fiducia. Se usiamo questa triade per farci guidare nell'ascolto e nella comprensione di questo meraviglioso, difficile e lungo pezzo, avremo una notevole chiave interpretativa, una guida sia per il cantante sia per l'ascoltatore. Questo è anche un modo per strutturare il lamento come una tragedia in miniatura completamente autonoma (all'epoca era, di fatto, considerata tale), che aveva la sua conclusione nel registro moderato, con una specie di risoluzione e riconciliazione finale.
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