La battaglia di Poitiers (conosciuta anche come battaglia di Tours) fu combattuta in un giorno indeterminabile di ottobre (forse il 10, forse il 17) del 732 tra l'esercito arabo-berbero musulmano di al-Andalus, comandato dal suo governatore, ʿAbd al-Rahmān b. ʿAbd Allāh al-Ghāfiqī, e quello dei Franchi di Carlo Martello, maggiordomo di palazzo (equivalente a capo dell'esecutivo e dell'esercito) dei re merovingi. Il governatore arabo (wālī) si era spinto, attraverso l'Aquitania, verso Bordeaux e puntava in direzione della città di Tours e della sua ricca basilica, dedicata a san Martino, per depredarla. Non è escluso che, in mancanza di reazioni, la razzia si sarebbe potuta trasformare in ulteriore avanzata e in un'azione di conquista. Eudes (Ottone), duca della marca d'Aquitania, che in passato aveva avuto utili intese coi musulmani e pessime invece con Carlo, tentò di arrestare il passaggio dell'esercito musulmano ma fu sconfitto nella battaglia della Garonna.
Fu allora costretto a chiedere suo malgrado l'intervento del potente maggiordomo di Austrasia e Carlo si presentò con un composito esercito, essenzialmente composto da Franchi, con forti presenze di Gallo-latini e Borgognoni e con minori aliquote di Alemanni, di abitanti dell'attuale Assia e Franconia, di Bavari, di genti della Foresta Nera, di volontari Sassoni e, forse, di Gepidi e di cavalleria leggera visigota, con imprecisabili quantità di contingenti composti da altre popolazioni germaniche. Tanto poco Carlo era preoccupato che non proclamò alcuna mobilitazione generale (lantweri), limitandosi a un semplice bannum (mobilitazione parziale). L'esercito cristiano attese il nemico in mezzo alla confluenza di due fiumi, il Clain e il Vienne, schierandosi in un'unica formazione, robusta e profonda, formata da una prima linea nella quale si era disposta la fanteria pesante intervallata da piccoli reparti di cavalleria. Altri cavalieri si erano posizionati sui lati esterni della seconda linea, lasciando il vuoto nella parte centrale per evitare improvvisi aggiramenti. Inoltre alla sinistra dello schieramento, molto arretrato e nascosto in un bosco, vi era Oddone I d'Aquitania (Eude) insieme alla sua cavalleria. Gli arabi invece si schierarono nel seguente modo: l'ala sinistra era formata da cavalleria leggera e si «appoggiava» al fiume Clain; la parte centrale, composta interamente da fanti ed arcieri, si era posizionata sull'antica via romana, mentre l'ala destra del fronte musulmano era schierata su una bassa collina. Dietro ad ognuna delle due ali vi erano due schieramenti di dromedari da trasporto: gli arabi infatti sapevano che l'odore pungente di questi animali poteva far imbizzarrire i cavalli dei franchi smobilitandone le schiere. La formazione iniziale era quella tipica a forma di mezzaluna, con le cavallerie un po' avanzate rispetto alle fanterie e disposte a tenaglia allo scopo di stringere il nemico sulle ali ed accerchiarlo. Dopo che gli eserciti si furono fronteggiati, addirittura per una settimana, cominciò la vera e propria mischia, dall'alba al tramonto: gli arabi si lanciarono all'attacco per primi facendo partire le cavallerie dei berberi che investirono i fanti cristiani con una vera e propria pioggia di giavellotti, concentrando ripetuti assalti nelle zone del fronte avversario dove credevano possibile l'apertura di un varco. La linea di condotta di Carlo Martello fu quella di non cadere nella tattica musulmana dell'al-qarr wa al-farr: cioè dell'attacco seguito da una programmata ritirata, mirante ad illudere l'avversario dell'imminenza di una facile vittoria e di un ancor più facile bottino. Ordinò dunque che i suoi guerrieri attendessero l'attacco senza altra replica che non fosse quella del momentaneo corpo a corpo, impartendo severe disposizioni affinché i suoi uomini non cadessero nella tentazione dell'inseguimento del nemico in apparente fuga. Il suo «muro di ghiaccio» resse splendidamente, forte anche della scarsa velocità delle sue cavalcature europee che s'accompagnava però a una loro maggior solidità, a fronte dell'agilità della cavalcature arabo-berbere, ma d'una loro scarsa resistenza e d'una minor mole. Quando gran parte della cavalleria dei saraceni era ormai persa contro gli scudi, ma soprattutto contro le picche dei fanti cristiani, Carlo Martello diede un segnale che fece sbucare, dal bosco in cui era nascosta, la cavalleria di Ottone che caricò il fianco destro dei musulmani travolgendolo e mettendolo in fuga. Nel frattempo cominciava l'avanzata compatta della fanteria che, abbandonate le posizioni di partenza, travolse tutto ciò che le si poneva di fronte. I fanti musulmani, privi di corazzatura, non potevano reggere il corpo a corpo con i robusti guerrieri del nord, pesantemente armati. Dallo scontro si passò quindi alla carneficina, che durò fino al tramonto quando anche ʿAbd al-Rahmān venne ucciso da un colpo d'ascia, infertogli forse dallo stesso Carlo Martello. Quando si sparse questa notizia gli arabi sopravvissuti scapparono rapidamente, lasciando sul terreno feriti e tende, ma soprattutto il bottino conquistato durante tutte le razzie in Aquitania. La storiografia araba non dà una descrizione dell'andamento della battaglia molto diverso da questo, infatti descrive come ad un certo punto i cavalieri berberi erano riusciti a far breccia nelle file dei franchi, ma alcuni di questi si erano diretti all'accampamento arabo per impossessarsi del bottino islamico. A questo punto, molti musulmani, accortisi di quello che stava accadendo, si sarebbero diretti verso l'accampamento stesso per proteggere il bottino, ma sfaldando, così, lo schieramento e facendo il gioco dei cristiani. Fu la rotta per i musulmani, che caddero in gran numero, tanto da far definire ai cronisti musulmani il teatro di quella battaglia come «il lastricato dei màrtiri» (balāt al-shuhadāʾ). La battaglia ebbe una rilevanza tattica abbastanza contenuta, dal momento che ai musulmani andalusi sarebbe stato facile armare un altro esercito in tempi assai brevi, ma sotto un profilo strategico essa fu decisamente di grande portata, più che per aver fatto fallire il piano delle forze musulmane per aver invece fornito il destro a Carlo di gettare le prime basi di un ambizioso futuro imperiale per sé e la sua casata che sarebbe stato poi portato a pieno compimento dal nipote Carlo Magno. Negli ambienti cristiani della penisola iberica, già in buona parte occupata da berberi e saraceni, la battaglia fu percepita come un evento carico di un forte significato simbolico, per il quale l'Occidente cristiano aveva fermato l'espansione araba. Proprio nel descrivere questa battaglia, pochi anni dopo il monaco lusitano Isidoro Pacensis nelle sue Cronache, usa per la prima volta l'aggettivo «europei» per attribuire un'identità collettiva ai guerrieri che per la prima volta avevano fermato gli invasori musulmani.
Fu allora costretto a chiedere suo malgrado l'intervento del potente maggiordomo di Austrasia e Carlo si presentò con un composito esercito, essenzialmente composto da Franchi, con forti presenze di Gallo-latini e Borgognoni e con minori aliquote di Alemanni, di abitanti dell'attuale Assia e Franconia, di Bavari, di genti della Foresta Nera, di volontari Sassoni e, forse, di Gepidi e di cavalleria leggera visigota, con imprecisabili quantità di contingenti composti da altre popolazioni germaniche. Tanto poco Carlo era preoccupato che non proclamò alcuna mobilitazione generale (lantweri), limitandosi a un semplice bannum (mobilitazione parziale). L'esercito cristiano attese il nemico in mezzo alla confluenza di due fiumi, il Clain e il Vienne, schierandosi in un'unica formazione, robusta e profonda, formata da una prima linea nella quale si era disposta la fanteria pesante intervallata da piccoli reparti di cavalleria. Altri cavalieri si erano posizionati sui lati esterni della seconda linea, lasciando il vuoto nella parte centrale per evitare improvvisi aggiramenti. Inoltre alla sinistra dello schieramento, molto arretrato e nascosto in un bosco, vi era Oddone I d'Aquitania (Eude) insieme alla sua cavalleria. Gli arabi invece si schierarono nel seguente modo: l'ala sinistra era formata da cavalleria leggera e si «appoggiava» al fiume Clain; la parte centrale, composta interamente da fanti ed arcieri, si era posizionata sull'antica via romana, mentre l'ala destra del fronte musulmano era schierata su una bassa collina. Dietro ad ognuna delle due ali vi erano due schieramenti di dromedari da trasporto: gli arabi infatti sapevano che l'odore pungente di questi animali poteva far imbizzarrire i cavalli dei franchi smobilitandone le schiere. La formazione iniziale era quella tipica a forma di mezzaluna, con le cavallerie un po' avanzate rispetto alle fanterie e disposte a tenaglia allo scopo di stringere il nemico sulle ali ed accerchiarlo. Dopo che gli eserciti si furono fronteggiati, addirittura per una settimana, cominciò la vera e propria mischia, dall'alba al tramonto: gli arabi si lanciarono all'attacco per primi facendo partire le cavallerie dei berberi che investirono i fanti cristiani con una vera e propria pioggia di giavellotti, concentrando ripetuti assalti nelle zone del fronte avversario dove credevano possibile l'apertura di un varco. La linea di condotta di Carlo Martello fu quella di non cadere nella tattica musulmana dell'al-qarr wa al-farr: cioè dell'attacco seguito da una programmata ritirata, mirante ad illudere l'avversario dell'imminenza di una facile vittoria e di un ancor più facile bottino. Ordinò dunque che i suoi guerrieri attendessero l'attacco senza altra replica che non fosse quella del momentaneo corpo a corpo, impartendo severe disposizioni affinché i suoi uomini non cadessero nella tentazione dell'inseguimento del nemico in apparente fuga. Il suo «muro di ghiaccio» resse splendidamente, forte anche della scarsa velocità delle sue cavalcature europee che s'accompagnava però a una loro maggior solidità, a fronte dell'agilità della cavalcature arabo-berbere, ma d'una loro scarsa resistenza e d'una minor mole. Quando gran parte della cavalleria dei saraceni era ormai persa contro gli scudi, ma soprattutto contro le picche dei fanti cristiani, Carlo Martello diede un segnale che fece sbucare, dal bosco in cui era nascosta, la cavalleria di Ottone che caricò il fianco destro dei musulmani travolgendolo e mettendolo in fuga. Nel frattempo cominciava l'avanzata compatta della fanteria che, abbandonate le posizioni di partenza, travolse tutto ciò che le si poneva di fronte. I fanti musulmani, privi di corazzatura, non potevano reggere il corpo a corpo con i robusti guerrieri del nord, pesantemente armati. Dallo scontro si passò quindi alla carneficina, che durò fino al tramonto quando anche ʿAbd al-Rahmān venne ucciso da un colpo d'ascia, infertogli forse dallo stesso Carlo Martello. Quando si sparse questa notizia gli arabi sopravvissuti scapparono rapidamente, lasciando sul terreno feriti e tende, ma soprattutto il bottino conquistato durante tutte le razzie in Aquitania. La storiografia araba non dà una descrizione dell'andamento della battaglia molto diverso da questo, infatti descrive come ad un certo punto i cavalieri berberi erano riusciti a far breccia nelle file dei franchi, ma alcuni di questi si erano diretti all'accampamento arabo per impossessarsi del bottino islamico. A questo punto, molti musulmani, accortisi di quello che stava accadendo, si sarebbero diretti verso l'accampamento stesso per proteggere il bottino, ma sfaldando, così, lo schieramento e facendo il gioco dei cristiani. Fu la rotta per i musulmani, che caddero in gran numero, tanto da far definire ai cronisti musulmani il teatro di quella battaglia come «il lastricato dei màrtiri» (balāt al-shuhadāʾ). La battaglia ebbe una rilevanza tattica abbastanza contenuta, dal momento che ai musulmani andalusi sarebbe stato facile armare un altro esercito in tempi assai brevi, ma sotto un profilo strategico essa fu decisamente di grande portata, più che per aver fatto fallire il piano delle forze musulmane per aver invece fornito il destro a Carlo di gettare le prime basi di un ambizioso futuro imperiale per sé e la sua casata che sarebbe stato poi portato a pieno compimento dal nipote Carlo Magno. Negli ambienti cristiani della penisola iberica, già in buona parte occupata da berberi e saraceni, la battaglia fu percepita come un evento carico di un forte significato simbolico, per il quale l'Occidente cristiano aveva fermato l'espansione araba. Proprio nel descrivere questa battaglia, pochi anni dopo il monaco lusitano Isidoro Pacensis nelle sue Cronache, usa per la prima volta l'aggettivo «europei» per attribuire un'identità collettiva ai guerrieri che per la prima volta avevano fermato gli invasori musulmani.
Fonte: Wikipedia
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