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domenica 12 maggio 2013

I RACCONTI DI CANTERBURY - FRAMMENTO 1 - PROLOGO

Qui comincia il Libro dei Racconti di Canterbury.

Quando Aprile con le sue dolci piogge ha penetrato fino alla radice la siccità di Marzo, impregnando ogni vena di quell'umore che ha la virtù di dar vita ai fiori, quando anche Zeffiro col suo dolce fiato ha rianimato per ogni bosco e ogni brughiera i teneri germogli, e il nuovo sole ha percorso metà del suo cammino in Ariete, e cantano melodiosi gli uccelletti che dormono tutta la notte a occhi aperti (tanto li punge in cuore la natura), la gente allora è presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio e d'andare per contrade forestiere alla ricerca di lontani santuari variamente noti, e fin dalle più remote parti d'ogni contea d'Inghilterra molti si recano specialmente a Canterbury, a visitare quel santo martire benedetto che li ha soccorsi quand'erano malati.

Un giorno, appunto in quella stagione, mentre sostavo alla locanda del 'Tabarro' in Southwark, pronto a mettermi devotamente in pellegrinaggio per Canterbury, ecco capitare verso sera una brigata di ben ventinove persone, gente d'ogni ceto trovatasi per caso in compagnia e tutti pellegrini che intendevano recarsi a cavallo fino a Canterbury. Camere e stalle erano grandi, e perciò fummo alloggiati nel migliore dei modi. In breve, stava appena per tramontare il sole che già avevo parlato con tutti e anch'io ero ormai della brigata, e combinammo dunque d'alzarci presto per proseguire il viaggio dove vi ho detto.

Tuttavia, considerato che ne ho il tempo e l'occasione, prima di procedere nel racconto, mi sembra opportuno dirvi quanto potei capire della condizione di ciascuno di loro, chi fossero, a quale ceto appartenessero e in che modo vestissero. Comincerò per primo da un cavaliere.

C'era dunque un Cavaliere, un valentuomo che fin da quando aveva iniziato ad andare a cavallo aveva amato la cavalleria, la lealtà, l'onore, la liberalità e la cortesia. Valorosissimo in guerra per il suo signore, s'era spinto nei più lontani paesi cristiani e pagani, facendosi ovunque onore con la sua prodezza. Era stato alla resa d'Alessandria, più volte aveva avuto il posto d'onore in Prussia fra i rappresentanti di tutte le nazioni ed aveva guerreggiato in Lituania e in Russia più di qualsiasi altro cristiano del suo grado. Era stato anche a Granada all'assedio d'Algesir e s'era spinto fino in Belmaria. Fu alla conquista di Layas e Satalia, e in molte nobili armate sul Mar Grande. Per ben quindici volte aveva partecipato a combattimenti mortali, e a Tramissene tre volte era sceso in lizza per la nostra fede, sempre uccidendo l'avversario. Questo prode cavaliere un tempo era anche stato col signore di Palatia a combattere contro un altro pagano turco, ricevendo sempre sovrani onori. Benché fosse valoroso, era prudente e, negli atteggiamenti, mite come una fanciulla. Non avrebbe mai detto in vita sua una parola scortese a nessuno. Era un nobile cavaliere veramente perfetto. Quanto al suo equipaggiamento, i cavalli erano buoni, ma i suoi abiti non erano sfarzosi: portava un giubbone di fustagno macchiato ancora dall'armatura, perché tornava proprio allora da una spedizione e si recava a sciogliere un voto.

Era con lui suo figlio, un giovane Scudiero, un galante e gagliardo baccelliere, con certi riccioli così crespi che parevano appena usciti da una pressa. Avrà avuto una ventina d'anni; di statura media, ma straordinariamente agile e robusto. Aveva già partecipato a una spedizione in Fiandra, nell'Artois e in Piccardia, comportandosi assai bene per la sua età, nella speranza d'entrare in grazia alla sua bella. Andava ricamato che pareva un prato tutto pieno di freschi fiori bianchi e rossi. Non faceva che cantare e zufolare tutto il giorno, ed era allegro come il mese di maggio. Portava una casacca corta con maniche lunghe ed ampie. In sella si teneva bene e cavalcava impeccabilmente. Sapeva inventare e comporre belle canzoni, giostrare, danzare, scrivere e dipingere benissimo. Era sempre così ardentemente innamorato, che di notte non dormiva più d'un usignolo. Era cortese, umile e servizievole: a tavola faceva sempre da scalco al padre .
Costui al momento aveva con sé un servo solo, perché così gli era piaciuto mettersi in viaggio, un Arciere, il quale era vestito di mantello e cappuccio verde, teneva un mazzo di frecce aguzze e scintillanti con penne di pavone attaccate bravamente alla cintura (da buon arciere sapeva certo curarsi dei propri arnesi: non c'era freccia che avesse una penna penzolante!) e reggeva in mano un poderoso arco. Aveva i capelli rasi e il volto abbronzato. Sapeva tutto sulle usanze dei boscaioli. Portava una vistosa fascia al braccio, da un lato la spada e lo scudo, e dall'altro un bel pugnale, ben decorato, aguzzo come la punta d'una lancia; sul petto gli brillava un San Cristoforo d'argento, e teneva a tracolla un corno legato a un nastro verde: credo proprio che facesse il guardaboschi.
C'era anche una monaca, una Priora, dal sorriso semplice e modesto; il suo più gran giuramento non era che per Sant'Eligio; e si chiamava madre Eglantina. Cantava il servizio divino alla perfezione, intonandolo con un leggiadro accento nasale, e parlava francese speditamente e con eleganza, secondo la scuola di Stratford-at-Bow, perché il francese di Parigi le era ignoto. A tavola era in tutto beneducata: non si lasciava cadere una briciola dalle labbra, né intingeva troppo le dita nella salsa; sapeva recare il cibo alla bocca facendo bene attenzione che nessuna goccia le cadesse sul petto. Le belle maniere erano la sua gioia più grande. S'asciugava sempre il labbro superiore così bene, che nella sua coppa non si scorgeva la più piccola traccia d'unto quando aveva bevuto, e si serviva dei cibi con moltissimo garbo. Certamente essa amava anche conversare; piacevolissima e affabile nel portamento, si sforzava d'imitare le maniere di corte e d'aver modi dignitosi per esser stimata degna di riverenza. Ma, per darvi un'idea del suo carattere, era così caritatevole e pietosa, che si metteva a piangere se vedeva un topo preso in trappola, sia che fosse morto o sanguinasse. Teneva alcuni cagnolini che nutriva di carne arrostita oppure latte e pan buffetto. Ma piangeva a calde lacrime se gliene moriva uno o se glielo colpivano di mala grazia col bastone: era veramente tutta cuore e sentimento. Aveva il soggólo finemente pieghettato, il naso ben profilato, gli occhi grigi come il vetro, la bocca piccolina, rossa e morbida per giunta, ma soprattutto aveva una bella fronte, alta, credo, quasi un palmo, e di certo non era bassa di statura. Il suo mantello, vidi, era di foggia molto elegante. Portava al braccio un doppio rosario di piccoli coralli, con i grani più grossi tutti colorati di verde, e ne pendeva un medaglione d'oro lucente, su cui spiccava una coronata e, più sotto, "Amor vincit omnia".
Aveva con sé un'altra Monaca, sua cappellana, e tre preti. E c'era un Monaco, eccezionalmente bello, un ispettore di poderi che amava andare a caccia, un pezzo d'uomo, proprio adatto a far l'abate. Aveva nella stalla molti cavalli di gran pregio e quando cavalcava, si sentiva la sua briglia tintinnare nel sibilo del vento, chiara e squillante come la campana della cappella. Siccome là nel piccolo convento di cui era guardiano la regola di San Mauro e San Benedetto era antiquata e un po' troppo rigorosa, questo Monaco tralasciava la roba vecchia per mettersi al passo col mondo nuovo. Non avrebbe dato una gallina spennacchiata per quella massima secondo la quale i cacciatori non sono santi e un monaco fuor di clausura, ossia un monaco fuori del chiostro, è come un pesce fuor d'acqua. Per lui quella massima non valeva un'ostrica, ed io gli dissi che aveva ragione. Perché avrebbe dovuto mettersi a studiare e diventar matto sempre col naso sui libri nel chiostro, o lavorar di mani e sfaticare come aveva comandato Agostino? Il mondo allora chi l'avrebbe servito? Si tenesse pure la fatica per sé Agostino!
Egli perciò faceva il battitore: aveva certi levrieri ch'erano veloci come uccelli in volo, e tutta la sua passione era spronare e andare a caccia della lepre, senza mai badare a spese. Vidi che aveva le maniche profilate ai polsi di pelliccia grigia, della più fine che si trovasse nel paese; e per allacciare il cappuccio sotto il mento, aveva un curioso, spillo d'oro lavorato, che formava al più grosso dei capi un nodo d'amore. Aveva la testa calva, lucida come uno specchio, e così il viso, tanto che pareva unto. Era un signorotto bello grasso e ben pasciuto, con certi occhi sporgenti e roteanti che ardevano come la brace sotto il paiuolo, stivali morbidi e il cavallo bardato splendidamente. Era insomma un gran bel prelato, non certo pallido come un'anima in tormento. Un cigno grasso era per lui il miglior arrosto; il suo palafreno era nero come una mora.
C'era poi un Frate, sbarazzino e allegro, un questuante, un tipo molto cerimonioso: in tutt'e quattro gli ordini nessuno più di lui sapeva far tante moine e belle chiacchiere, e più d'una volta aveva dovuto combinare a sue spese il matrimonio di qualche bella ragazza. Era proprio un nobile sostegno per il suo ordine! Eppure era molto ben voluto e in confidenza con tutti i possidenti del suo paese e con valenti dame cittadine, perché aveva autorità di confessore, diceva lui, superiore a quella d'un curato, per via della licenza avuta dal suo ordine. Ascoltava con gran dolcezza la confessione, e soave era la sua assoluzione; quando poi sapeva di poterne ricavare qualcosa, andava molto adagio con la penitenza. Far doni a un povero ordine di frati era segno di buona confessione: se un uomo dà, aveva il coraggio di dire, significa che s'è pentito; c'è gente così dura di cuore che non riesce a piangere, neppure se viene ferita a sangue: e allora, invece di tanti pianti e orazioni, dia dei soldi ai poveri frati! La sua cocolla era piena zeppa di coltellucci e spilli da distribuire alle belle donne. E aveva pure una gran bella voce: sapeva cantar bene e suonare la viola; nelle romanze poi era insuperabile. Aveva il collo bianco come un giglio, ma era forte come un guerriero. Conosceva le taverne d'ogni città e ogni oste e cantiniera, molto meglio dei lebbrosi o dei mendicanti; perché non stava bene che una persona come lui, con la sua posizione, avesse a che fare con lazzari ammalati. Non gli faceva onore e non gli serviva a niente trattar con certi poveracci, invece che coi ricchi e coi mercanti di cibarie. Dove credeva di poter trarre qualche profitto, si faceva cortese e umilmente servizievole.
Nessuno al mondo era più abile di lui. Era il miglior elemosiniere della sua casa (pagava perfino un certo cànone per il privilegio che nessuno dei suoi confratelli invadesse la sua riserva), perché, quand'anche si trattasse d'una vedova senza neppure una scarpa, così suadente era il suo "In principio", che almeno un quattrino l'otteneva sempre prima d'andarsene. Questi suoi guadagni superavano di gran lunga ogni sua prebenda. E sapeva darsi d'attorno come un cagnolo. Nei giorni di transazione sapeva essere di grande aiuto: allora non pareva davvero un conventuale con la tonaca logora da povero studente, ma somigliava a un dottore o a un papa. La sua mantellina era di doppio filato di lana e piombava tonda come una campana appena fusa. Talvolta egli bisbigliava vezzosamente per rendere più dolce l'inglese sulla sua lingua; e mentre arpeggiava, dopo aver cantato, gli occhi gli brillavano in fronte come stelle nella notte fredda. Questo valente elemosiniere si chiamava Uberto.
C'era un Mercante con la barba forcuta e la veste variopinta, alto in groppa sul cavallo; cappello di castoro alla fiamminga in testa, stivaletti con belle fibbie finemente lavorate. Sapeva farsi bene sue ragioni, ogni qualvolta c'era da guadagnare. Voleva a tutti i costi che si sorvegliasse il mare tra Middelburg e Orwell. Sapeva lui come cambiare a interesse i suoi scudi. Era un brav'uomo che si valeva ottimamente del suo ingegno: nessun s'era mai accorto che avesse debiti, riservato com'era nei suoi affari e nei contratti. Era insomma una persona certamente in gamba, ma, a dir proprio la verità, non so neppure come si chiamasse.
C'era anche uno Studente di Oxford, che da un bel pezzo aveva finito d'almanaccare con la logica. Il suo cavallo era secco come rastrello, e anche lui grasso non era, ve l'assicuro, ma aveva aspetto smunto e austero. Il suo gabbano era tutto logoro perché non usufruiva ancora d'alcun beneficio e non era così mondano da procurarsi un impiego. Preferiva avere a capo del letto venti libri, rilegati in nero o in rosso, su Aristotele e la sua filosofia, invece di ricchi abiti o un violino o un bel salterio. Ma, per quanto fosse filosofo, aveva ben poco oro nello scrigno: tutto quello che poteva ottenere dai suoi amici lo spendeva in libri e per istruirsi, e pregava assiduamente per l'anima di coloro che gli offrivano i mezzi per studiare. Dedicava allo studio la maggior cura e attenzione. Non diceva mai una parola più del necessario, e anche quella in forma corretta e rispettosa, concisa, svelta e piena d'alto significato; i suoi discorsi riguardavano sempre la virtù morale, e con ugual piacere era disposto a imparare e a insegnare.
C'era anche un Commissario di Giustizia, prudente e savio, colmo d'ogni eccellenza, che tante volte era stato al Portico. Persona discreta e di gran conto: almeno così pareva, a giudicare dalle sue sagge parole. Veniva spesso nominato giudice alle assise con lettera patente e pieni poteri. Per via della sua dottrina e del suo gran nome, parcelle e toghe ne aveva molte. Non c'era nessuno che sapesse comprar terre meglio di lui: tutto diventava per lui proprietà svincolata e i suoi contratti erano incontestabili. Non c'era uomo più affaccendato che tuttavia sapesse apparire più affaccendato di quel che fosse. Conosceva accuratamente tutte le leggi e tutti i decreti emessi fin dal tempo di re Guglielmo. E poi sapeva comporre e stilare un atto in modo così perfetto, che nessuno poteva cavillare sul suo scritto; ricordava a
memoria qualsiasi statuto. Cavalcava alla buona con un abito brizzolato, cinto da una fascia di seta a piccole strisce: sul suo vestiario non vi dico altro.
Era in sua compagnia un Allodiere, che aveva la barba bianca come una margherita e la carnagione sanguigna. A lui piaceva molto alla mattina inzuppar qualcosa nel vino. Era abituato a passarsela bene e, da vero figlio d'Epicuro, riteneva che la perfetta felicità stesse nel pieno godimento del piacere. Era ospitale e faceva le cose in grande: un vero e proprio San Giuliano dalle sue parti. Pane e birra da lui erano sempre di prima qualità, nessuno aveva il miglior rifornimento di vini. Timballi di pesce e di carne non mancavano mai in casa sua, ma v'era di tutto, e in tale abbondanza, che in quella casa pareva proprio che vi fioccassero i cibi e le bevande e tutte le leccornie che si possono immaginare. Il pranzo e cena variavano col variare delle stagioni. Teneva nella stia molte grasse pernici, e molte carpe e molti lucci nel vivaio. Guai al cuoco se la salsa non era piccante e forte e se tutto non era pronto! Esigeva che nella sua sala vi fosse sempre tavola imbandita, tutto il santo giorno. Anche nelle assemblee si comportava da signore e padrone: era stato diverse volte eletto rappresentante della contea. Dalla sua cintura, bianca come il latte del mattino, pendevano una daga e una borsa tutta di seta. Era stato anche sceriffo e revisore dei conti. Da nessuna parte esisteva un più degno valvassore.
C'erano poi un Merciaio e un Falegname, un Tessitore, un Tintore e un Tappezziere, e tutti indossavano il costume d'una solenne e grande confraternita. Il loro corredo, pulito e azzimato, era bello nuovo; i loro spadini non avevano placche d'ottone, ma tutte d'argento; cinture e borse erano lucide e ben lavorate. Avevano tutti l'aria di borghesi degni d'occupare un seggio nel palazzo di città: in quanto a saggezza sarebbero stati ottimi consiglieri, e capitale e rendita ne possedevano abbastanza. Le loro mogli poi ne sarebbero state felicissime: e chi avrebbe potuto biasimarle? È così bello sentirsi chiamar «madama», poter passare avanti alle altre ai vespri e farsi reggere il manto come una regina!
Avevano con sé un Cuoco, per il caso che occorresse preparare il pollo con ossibuchi, salsa piccante e galanga. Costui conosceva la birra di Londra alla perfezione. Sapeva arrostire, bollire, rosolare, friggere, preparar stufati e cuocere al forno gustose torte. Peccato che sullo stinco avesse un'ulcera in cancrena! Perché il pasticcio di pollo lo faceva squisitamente.
E c'era un Marinaio che veniva da lontano verso ponente: da quanto potei capire, era di Dartmouth. Cavalcava come poteva sulla groppa d'un ronzino, con una veste di fustagno che gli arrivava al ginocchio. Aveva un pugnale attaccato a una corda che dal collo gli scendeva fin sotto il braccio, ed era ancora tutto abbronzato dal gran caldo dell'estate. Certo era un bel briccone. Tornando da Bordeaux si trincava sempre parecchi sorsi di vino quando i mercanti dormivano. Non era uno che si facesse scrupoli di coscienza. Se per caso veniva alle mani e aveva la meglio, spediva sempre a casa l'avversario per via d'acqua, di qualunque paese fosse. Ma quanto ad abilità nel tener conto delle marce, delle correnti, dei pericoli a lui vicini, dei porti, della luna e del pilotaggio, non c'era nessuno che gli stesse alla pari da Hull fino a Cartagena: era nelle sue imprese ardito e prudente nello stesso tempo, giacché ormai la sua barba era stata scossa da parecchie tempeste. Conosceva tutti i porti da Gottland fino al capo di Finisterra, e ogni insenatura della Bretagna e della Spagna. La sua barca si chiamava la "Maddalena".
Era con noi anche un Dottor Fisico: nessuno al mondo s'intendeva di medicina e chirurgia al pari di lui, perché egli conosceva a fondo anche l'astrologia. Curava il suo paziente seguendo attentamente le ore celesti, secondo la magia naturale, e dai segni astrologici sapeva determinare con esattezza la costellazione favorevole all'ammalato. Conosceva la causa d'ogni malattia, fosse il caldo o il freddo, l'umido o il secco, e dove si fosse prodotta, e da quale umore generata. Era davvero un ottimo medico. Stabilita la causa e la radice del male, ne indicava subito il rimedio. E prontamente si faceva mandare medicamenti e farmaci dai suoi speziali, giacché l'uno faceva far soldi agli altri, essendo tutti amici di vecchia data. Ben conosceva l'antico Esculapio, Dioscoride e Rufo; il vecchio Ippocrate, Alì e Galeno; Serapione, Razis e Avicenna; Averroè, Damasceno e Costantino; Bernardo, Gatisdeno e Gilbertino. Era misurato nella sua dieta, che non era affatto esorbitante, ma nutriente e di facile digestione. La Bibbia non la studiava molto. Aveva un vestito rosso sangue e azzurro, con fodere di taffetà e zendalo; eppure era tutt'altro che prodigo nelle sue spese: metteva tutto da parte quel che guadagnava in tempo di pestilenza. E siccome l'oro in medicina è un è un cordiale, ecco ch'egli amava l'oro sopra ogni cosa.
E c'era una brava Comare dei dintorni di Bath, ma, peccato, era un po' sorda. A tessere il panno era così pratica, da battere quelli di Ypres e di Gand. In tutta la parrocchia non c'era donna che avesse il coraggio di passarle avanti a far l'offerta: se mai qualcuna s'arrischiava, a lei veniva una tal bile, che usciva fuori d'ogni grazia. I suoi fazzoletti erano di tessuto finissimo: giurerei che pesavano dieci libbre quelli che si metteva in capo la domenica. Le sue calze erano d'un bel rosso scarlatto, ben attillate; le scarpe morbidissime e nuove. Aveva un volto impertinente, bello, di colorito acceso. Era una donna ricca di meriti, che in vita sua aveva condotto ben cinque mariti sulla porta di chiesa, senza contare altre amicizie di gioventù... ma non è il caso di parlarne proprio ora. Tre volte era andata a Gerusalemme, e di fiumi stranieri ne aveva attraversati molti: era stata a Roma, a Boulogne, a San Giacomo in Galizia e a Colonia. Aveva insomma parecchia pratica di viaggi: i suoi denti infatti erano radi. Sul cavallo sedeva comodamente, ben avvolta da un soggólo, con un cappello in testa largo come un brocchiere o uno scudo; una gualdrappa intorno ai larghi fianchi, e ai piedi un paio di speroni aguzzi. In compagnia sapeva ridere e chiacchierare; e doveva intendersene di rimedi d'amore, poiché di quell'arte conosceva certo l'antica danza.
E c'era un buon religioso, un povero Parroco di campagna, che tuttavia era ricco di pensieri e d'opere sante. Era anche una persona istruita, un dotto, che il vangelo di Cristo predicava fedelmente, mentre ammaestrava con devozione i suoi parrocchiani. Era benevolo e pieno di zelo, pazientissimo nelle avversità, malgrado fosse di frequente provato. Gli ripugnava ricorrere alla scomunica per farsi dare le decima: preferiva piuttosto distribuire ai parrocchiani poveri parte delle elemosine e della sua stessa sostanza. A lui bastava poco. La sua parrocchia era estesa, le case sparse, eppure non tralasciava, con la pioggia o col tuono, nella malattia o nel dolore, di visitare coloro che stavano più lontano, grandi o piccoli che fossero, e sempre a piedi, col bastone in mano. Dava al suo gregge il nobile esempio d'operare prima che d'insegnare. Le parole le prendeva dal vangelo, e vi aggiungeva quest'immagine: se arrugginisce l'oro, che dovrebbe fare il ferro? Se non è puro il prete di cui ci fidiamo, nessuna meraviglia che il laico arrugginisca! È davvero vergognoso, se il prete ci pensa, che il pastore sia infangato e la pecora pulita. Un prete dovrebbe dar l'esempio, con la sua purezza, di come dovrebbe vivere il suo gregge. Lui non cedeva in affitto il suo beneficio, non lasciava le sue pecore nel pantano, per correre a Londra a San Paolo a procurarsi una prebenda cantando messe per i defunti, o una confraternita in cui sistemarsi. Ma se ne stava a casa, a occuparsi del suo gregge, perché il lupo non ne facesse strage. Era un pastore lui, non un mercenario. E benché fosse virtuoso e santo, coi peccatori non era sprezzante, né violento e arrogante nei suoi discorsi, ma discreto e affabile quando li ammoniva. Indirizzare la gente al cielo con garbatezza, col buon esempio, ecco la sua preoccupazione. Ma se qualcuno era ostinato, ricco o povero che fosse, allora lo strigliava a dovere. Credo proprio che da nessuna parte esistesse un prete migliore. Non si curava né di pompe né di onori, né per essi si faceva scrupoli di coscienza, ma insegnava la dottrina di Cristo e dei suoi dodici apostoli, ed era il primo a seguirla.
Era con lui un Contadino, suo fratello, abituato a caricare dei gran carri di letame: un vero lavoratore, un galantuomo, che viveva in pace e in carità perfetta. Amava Dio sopra ogni cosa, con tutto il cuore, in ogni circostanza lieta o triste, e poi il suo prossimo come se stesso. Quando poteva, andava a battere il grano, a zappare e a vangare, in nome di Cristo, per quei poveri che non potevano permettersi di pagare. Rendeva le sue decime onestamente e per intero, sia lavorando che in moneta. Avvolto in un tabarro, marciava in groppa a una cavalla.
C'erano ancora un Fattore e un Mugnaio, un Cursore e un Indulgenziere, un Economo, e infine c'ero io.
Il Mugnaio era un robusto pezzo d'uomo, grosso di muscoli e di ossa: lo provava il fatto che dovunque andasse nelle gare di lotta, vinceva sempre il montone. Era tarchiato e tozzo, duro come un ceppo d'albero. Non c'era porta che non avrebbe scardinata o rotta, andandoci a cozzar contro con la testa. Aveva la barba rossa come il pelo d'una scrofa o d'una volpe, e larga per di più come una pala. Proprio sulla punta del naso aveva una verruca, con un ciuffetto di peli sopra, rossi come le setole nell'orecchio d'una troia; le sue narici erano larghe e nere. Portava al fianco una spada e uno scudo. Aveva una bocca grande come una fornace, ed era ciarliero e buontempone, se si trattava soprattutto di peccati e di ribalderie. Rubava sul grano e si prendeva il triplo di quanto gli spettava; eppure, perdio, aveva un pollice d'oro! Portava un pastrano bianco col cappuccio turchino. Sapeva suonare bene la cornamusa, e con quella ci accompagnò fuori della città.
C'era il garbato Economo d'un collegio d'avvocati, dal quale la gente al mercato avrebbe dovuto imparare a far la spesa giornaliera: pagasse o prendesse a credito, era così accorto nelle sue compere, da esser sempre il primo a concludere buoni affari. Non è forse una gran bella grazia di Dio che l'acume d'un uomo così insipiente dovesse sorpassare in avvedutezza un mucchio d'uomini istruiti? Aveva più di trenta maestri, tutti esperti e studiosi di diritto, dei quali una dozzina almeno in quel collegio eran capaci d'amministrare le rendite e le terre di qualsiasi nobiluomo d'Inghilterra, così da farlo vivere del suo, onorevolmente e senza debiti (a meno che non fosse matto), oppure modestamente, se così gli fosse piaciuto; capaci di mettere in sesto tutta una contea, qualunque cosa potesse insorgere o accadere. Eppure quest'Economo li metteva tutti nel sacco.
Il Fattore era un uomo smilzo e collerico: si radeva la barba più vicino alla pelle che poteva; aveva i capelli tagliati in tondo attorno alle orecchie è il cucuzzolo pelato sul davanti come un prete; gambe lunghissime e molto magre, che parevano stecchi senza polpa. Sapeva lui come va tenuto un granaio o una cantina, e non c'era revisore dei conti che lo superasse. Calcolava alla perfezione quel che avrebbero reso, col secco e col bagnato, il grano e la semente. Le pecore, i bovini, il latte, i maiali, i cavalli, il raccolto e il pollame del padrone, tutto era nelle mani di questo Fattore, il quale ne rendeva conto per contratto fin da quando il padrone aveva compiuto vent'anni, e mai una volta venne sorpreso in arretrato. Non c'era domestico, né mandriano o altro garzone di cui non conoscesse i trucchi o gl'imbrogli: lo temevano tutti come la morte. Abitava sulla brughiera, in un bel posto ombreggiato dal verde degli alberi. Sapeva spendere il suo denaro meglio del padrone e s'era messo segretamente da parte un bel gruzzolo: così poteva far dei piaceri al suo signore cedendogli o prestandogli del suo, guadagnandosene in questo modo la riconoscenza e magari un mantello col cappuccio. Aveva imparato in gioventù un buon mestiere: era un ottimo artigiano, un falegname. Ed ora questo Fattore cavalcava un magnifico stallone, tutto grigio pomellato, di nome Scott. Indossava una lunga tunica azzurra e portava al fianco una lama arrugginita. Era di Norfolk, questo Fattore di cui parlo, dei dintorni d'una città chiamata Baldswell. Teneva la tunica rimboccata alla vita come un frate, e cavalcava sempre in coda alla compagnia.
C'era con noi anche un Cursore, con una faccia da cherubino rossa come il fuoco, piena di sfogo, e con gli occhi ravvicinati. Era ardente e lascivo come un passero, con nere sopracciglia tignose e la barba spelacchiata. I bambini avevan paura della sua faccia. Non c'era mercurio, né ossido di piombo, né zolfo, né borace, né cerussa, né olio di tartaro, nessun unguento che purifichi e bruci, che potesse alleviargli le bianche pustole e i vespai troneggianti sulle sue guance. Gli piacevano molto l'aglio, le cipolle e i porri, e bere vino forte, rosso come il sangue, per poi mettersi a chiacchierare e a gridare come un pazzo. Quando aveva ben bevuto, non parlava che in latino. Ne conosceva due o tre parole che aveva apprese in qualche decreto, e non c'è da meravigliarsi perché non sentiva altro in tutto il giorno: voi sapete che un pappagallo può chiamar "Loreto" come un papa. Ma bastava saggiarlo su altri punti per vedere che aveva ormai sborsato tutto quello che sapeva, e allora non faceva che ripetere "Questio quid iuris". Era uno scapestrato mite e accomodante: miglior compagno non si sarebbe potuto trovare. Per un quarto di vino lasciava che un amico si tenesse per un anno una concubina, scagionandolo in tutto, ma intanto di nascosto spennava il povero fringuello. Se s'imbatteva in un semplicione, gl'insegnava a non aver paura della scomunica dell'arcidiacono: l'uomo non ha certo l'anima nel portamonete, e in fondo lì soltanto sarebbe stato punito. «L'inferno dell'arcidiacono» diceva «è solo il portamonete.» Ma si sa benissimo che mentiva: chi è in colpa deve temere la scomunica, perché la scomunica danna mentre l'assoluzione invece salva, e bisogna stare attenti al "Significavit". Aveva sotto la sua giurisdizione, a modo suo, i giovani e le ragazze della diocesi, e conosceva i loro segreti ed era in tutto il loro consigliere. S'era messo in testa una ghirlanda di frasche, grande come l'insegna d'una birreria, e portava per scudo una pagnotta.
Cavalcava con lui un mite Indulgenziere di Roncisvalle, suo degno amico e compare, ch'era appena tornato dalla corte di Roma. Costui cantava a squarciagola: «Vieni, vieni, amor, da me!». E il Cursore gli faceva da accompagnamento, con una voce due volte più bassa e forte del suono d'un trombone. Quest'Indulgenziere aveva i capelli gialli come la cera, che ricadevano giù molli come una matassa di lino; i riccioli che aveva, a once, gli si allungavano fin sulle spalle e penzolavano radi, uno per uno, come straccetti. Eppure per civetteria non portava il cappuccio, tenendolo ben chiuso nella bisaccia. Credeva d'andare all'ultima moda, coi capelli sciolti e la testa coperta solo da un berrettino. Aveva gli occhi sporgenti come quelli d'una lepre. Sul berretto s'era cucita una veronica. E teneva davanti in grembo una bisaccia piena zeppa d'indulgenze, giunte calde calde da Roma. La sua voce era belante come quella d'una capra. Ma barba non ne aveva e non ne avrebbe mai avuta, perché era pulito e liscio come uno appena raso. Credo che fosse un castrone o una cavalla. Ma quanto al suo lavoro, non c'era mercante d'indulgenze pari a lui, neanche a cercarlo da Berwick fino a Ware. Teneva nella sua sacca una federa e sosteneva ch'era il manto della Madonna; diceva anche di avere un brandello della vela di San Pietro quando ancora andava per mare, prima che lo prendesse con sé Gesù Cristo. Aveva una croce d'ottone ornata di sassetti e, dentro un vetro, alcune ossa di porco. Con queste reliquie, appena trovava qualche povero parroco di campagna, faceva in un giorno più soldi lui che il parroco in due mesi. E così, con false lusinghe e trucchi, gabbava parroco e fedeli. Però bisogna dire la verità: in chiesa alla fin fine era un egregio ministro del culto. Al mattutino sapeva leggere magnificamente l'epistola o la leggenda d'un santo, ma meglio d'ogni altra cosa cantava l'offertorio, perché sapeva che dopo quel canto c'era la predica, e bisognava sciogliere bene la lingua per poi spillar quattrini, cosa in cui riusciva perfettamente. Ecco perché cantava allegramente con quanto fiato aveva in gola.
Così in poche parole vi ho fedelmente riferito il ceto, l'equipaggiamento e il numero dei componenti la brigata, ed anche il motivo per cui s'erano adunati a Southwark nell'ottima osteria del 'Tabarro', attigua a quella della 'Campana'. Ma adesso è ora che vi racconti cosa facemmo la sera che arrivammo alla locanda, per poi parlarvi della nostra partenza e di tutto il seguito del nostro viaggio.
Prima però vi prego, per piacere, di non accusarmi di malcreanza se di queste cose vi parlo schietto e se, riferendovi le parole e i gesti di quella gente, ne uso anch'io le stesse espressioni. Voi lo sapete meglio di me: chi vuol raccontare quel che ha sentito da un altro, deve ripetere più da vicino che può ogni parola che lo riguardi, per rozza e sboccata che sia, altrimenti cade per forza nel falso e deve inventare le cose cercando nuove parole. Si trattasse anche di suo fratello, non deve mai tirarsi indietro: bisogna che dica le parole proprio come sono. Cristo stesso nel vangelo parla schietto, ma non mi direte che si tratta di malcreanza. Anche Platone dice, a chi sappia leggerlo, che le parole devono corrispondere ai fatti.
Vi prego inoltre di perdonarmi se in questo racconto non ho disposto le persone nel giusto ordine, secondo il rango a cui appartengono. Ma sono un po' corto di mente: ormai dovreste averlo capito.
Il nostro Oste, dunque, fece a tutti grandi accoglienze e, senza perder tempo, ci sistemò per la cena, servendoci le pietanze più squisite; il vino era forte e noi lo bevemmo volentieri. Era proprio affabile con tutti, questo nostro Oste, degno di fare il maggiordomo di palazzo. Era un uomo grande e grosso, con gli occhi sporgenti, il miglior cittadino che esistesse a Cheapside: franco nel parlare, saggio, ben istruito, non mancava certo di virilità, ed era per di più un vero bontempone. Dopo cena cominciò scherzando a parlare di passatempi e fra l'altro, dopo che avevamo sistemati i conti, disse:
«Benvenuti, signori, veramente di cuore! Vi do la mia parola, non vi racconto storie: quest'anno non avevo ancora visto, in questa locanda, una compagnia di gente così simpatica. Se mi riuscisse, vorrei trovare il modo di farvi divertire. Ecco, m'è venuta un'idea che vi potrà piacere e non vi costerà nulla. Voi andate a Canterbury... bene, che Dio vi protegga e il martire benedetto vi faccia la grazia! Immagino che, cavalcando per via, vi racconterete storie e novelle, perché non c'è davvero gusto né piacere a far la strada muti come pietre. Voglio perciò suggerirvi, come dicevo, un modo di passare il tempo piacevolmente. Se poi, tutti d'accordo, vorrete seguire il mio consiglio e domani in viaggio farete come vi dirò, giuro per la buon'anima di mio padre che mi farò tagliare la testa se non vi divertirete! Ed ora basta con le ciance: chi approva alzi la mano.»
Il nostro consenso non si fece aspettare: pensammo che non valesse la pena di stare a tergiversare, e senz'altro ci affidammo a lui, pregandolo d'esporci il suo progetto, a suo piacere.
«Ebbene, signori, ascoltate,» disse «ma non prendetela alla leggera, vi prego. In breve, ecco il punto: ciascuno di voi, per ingannare il lungo cammino, dovrà raccontare due novelle durante l'andata a Canterbury, questa è almeno la mia idea, e durante il ritorno ne dovrà raccontare altre due, tutte d'avventure accadute in passato. Chi di voi si comporterà meglio di tutti, cioè in questo caso racconterà le novelle più significative e divertenti, riceverà una cena a spese di noi tutti, qui in questa locanda, seduto in questo posto, appena ritorneremo da Canterbury. Sperando di tenervi più allegri, verrò anch'io volentieri con voi, a spese mie naturalmente, e vi farò da guida. Chi si rifiuterà di stare ai patti dovrà pagare le spese del viaggio a tutti gli altri. Se siete d'accordo, ditemelo subito, senza tanti discorsi, e io, domattina presto, mi farò trovare pronto.»
La cosa fu subito sistemata: ben lieti d'accettare il patto, richiedemmo che anche lui vi si attenesse facendo da moderatore, giudice e censore dei nostri racconti, e fissasse pure un certo prezzo per la cena, giacché noi ormai ci saremmo in tutto assoggettati alle sue regole. E fu così che seguimmo d'accordo la sua proposta. Concluso il patto, si prese dell'altro vino: bevemmo e poi, senza perdere più tempo, andammo tutti a riposare.
L'indomani, cominciava appena ad albeggiare che il nostro Oste si alzò e, cantandoci la sveglia come fosse il nostro gallo, ci chiamò tutti a raccolta; e così, cavalcando poco più veloci che a passo d'uomo, partimmo in direzione dell'abbeveratoio di San Tommaso. Là il nostro Oste, fermando per la prima volta il cavallo, disse: «Signori, ascoltatemi, vi prego. Sapete quali sono i patti, ricordate. Ebbene, se il canto della sera va d'accordo con quello della mattina, vediamo ora chi deve dire il primo racconto. Ch'io non possa mai più bere né vino né birra, se chi si rifiuta d'obbedirmi non pagherà tutte le spese del viaggio! Via, tirate le paglie prima che si proceda oltre: dovrà incominciare chi pescherà la più corta. A voi, messer Cavaliere, mio padrone e signor mio! Su, tirate questa paglia, eravamo d'accordo! Avvicinatevi, reverenda madre Priora! E voi, messer Studente, via quella vostra timidezza, smettetela di almanaccare! Su, fatevi tutti avanti!»
Ognuno si mise allora a tirare a sorte, e insomma, per farla breve, fosse avventura, destino o caso, il fatto è che la paglia più corta toccò al Cavaliere, con gran gioia e contentezza di tutti. A lui dunque, com'era giusto, spettava ora narrare il suo racconto secondo il patto e l'accordo che sapete. Occorrono altre parole? Quando questo galantuomo vide che così stavano le cose, da persona assennata e ligia a mantenere un impegno liberamente accettato, disse: «Dal momento che devo incominciare il gioco, ebbene sia lodato Iddio ch'è toccato proprio a me! Mettiamoci in cammino, e voi statemi a sentire.»
A queste parole riprendemmo a cavalcare, ed egli attaccò subito di buon animo il suo racconto, narrandoci grano, a zappare e a vangare, in nome di Cristo, per quei poveri che non potevano permettersi di pagare. Rendeva le sue decime onestamente e per intero, sia lavorando che in moneta. Avvolto in un tabarro, marciava in groppa a una cavalla.
C'erano ancora un Fattore e un Mugnaio, un Cursore e un Indulgenziere, un Economo, e infine c'ero io. Il Mugnaio era un robusto pezzo d'uomo, grosso di muscoli e di ossa: lo provava il fatto che dovunque andasse nelle gare di lotta, vinceva sempre il montone. Era tarchiato e tozzo, duro come un ceppo d'albero. Non c'era porta che non avrebbe scardinata o rotta, andandoci a cozzar contro con la testa. Aveva la barba rossa come il pelo d'una scrofa o d'una volpe, e larga per di più come una pala. Proprio sulla punta del naso aveva una verruca, con un ciuffetto di peli sopra, rossi come le setole nell'orecchio d'una troia; le sue narici erano larghe e nere. Portava al fianco una spada e uno scudo. Aveva una bocca grande come una fornace, ed era ciarliero e buontempone, se si trattava soprattutto di peccati e di ribalderie. Rubava sul grano e si prendeva il triplo di quanto gli spettava; eppure, perdio, aveva un pollice d'oro! 
Portava un pastrano bianco col cappuccio turchino. Sapeva suonare bene la cornamusa, e con quella ci accompagnò fuori della città.
C'era il garbato Economo d'un collegio d'avvocati, dal quale la gente al mercato avrebbe dovuto imparare a far la spesa giornaliera: pagasse o prendesse a credito, era così accorto nelle sue compere, da esser sempre il primo a concludere buoni affari. Non è forse una gran bella grazia di Dio che l'acume d'un uomo così insipiente dovesse sorpassare in avvedutezza un mucchio d'uomini istruiti? Aveva più di trenta maestri, tutti esperti e studiosi di diritto, dei quali una dozzina almeno in quel collegio eran capaci d'amministrare le rendite e le terre di qualsiasi nobiluomo d'Inghilterra, così da farlo vivere del suo, onorevolmente e senza debiti (a meno che non fosse matto), oppure modestamente, se così gli fosse piaciuto; capaci di mettere in sesto tutta una contea, qualunque cosa potesse insorgere o accadere. Eppure quest'Economo li metteva tutti nel sacco.
Il Fattore era un uomo smilzo e collerico: si radeva la barba più vicino alla pelle che poteva; aveva i capelli tagliati in tondo attorno alle orecchie è il cucuzzolo pelato sul davanti come un prete; gambe lunghissime e molto magre, che parevano stecchi senza polpa. Sapeva lui come va tenuto un granaio o una cantina, e non c'era revisore dei conti che lo superasse. Calcolava alla perfezione quel che avrebbero reso, col secco e col bagnato, il grano e la semente. Le pecore, i bovini, il latte, i maiali, i cavalli, il raccolto e il pollame del padrone, tutto era nelle mani di questo Fattore, il quale ne rendeva conto per contratto fin da quando il padrone aveva compiuto vent'anni, e mai una volta venne sorpreso in arretrato. Non c'era domestico, né mandriano o altro garzone di cui non conoscesse i trucchi o gl'imbrogli: lo temevano tutti come la morte. Abitava sulla brughiera, in un bel posto ombreggiato dal verde degli alberi. Sapeva spendere il suo denaro meglio del padrone e s'era messo segretamente da parte un bel gruzzolo: così poteva far dei piaceri al suo signore cedendogli o prestandogli del suo, guadagnandosene in questo modo la riconoscenza e magari un mantello col cappuccio. Aveva imparato in gioventù un buon mestiere: era un ottimo artigiano, un falegname. Ed ora questo Fattore cavalcava un magnifico stallone, tutto grigio pomellato, di nome Scott. Indossava una lunga tunica azzurra e portava al fianco una lama arrugginita. Era di Norfolk, questo Fattore di cui parlo, dei dintorni d'una città chiamata Baldswell. Teneva la tunica rimboccata alla vita come un frate, e cavalcava sempre in coda alla compagnia.
C'era con noi anche un Cursore, con una faccia da cherubino rossa come il fuoco, piena di sfogo, e con gli occhi ravvicinati. Era ardente e lascivo come un passero, con nere sopracciglia tignose e la barba spelacchiata. I bambini avevan paura della sua faccia. Non c'era mercurio, né ossido di piombo, né zolfo, né borace, né cerussa, né olio di tartaro, nessun unguento che purifichi e bruci, che potesse alleviargli le bianche pustole e i vespai troneggianti sulle sue guance. Gli piacevano molto l'aglio, le cipolle e i porri, e bere vino forte, rosso come il sangue, per poi mettersi a chiacchierare e a gridare come un pazzo. Quando aveva ben bevuto, non parlava che in latino. Ne conosceva due o tre parole che aveva apprese in qualche decreto, e non c'è da meravigliarsi perché non sentiva altro in tutto il giorno: voi sapete che un pappagallo può chiamar "Loreto" come un papa. Ma bastava saggiarlo su altri punti per vedere che aveva ormai sborsato tutto quello che sapeva, e allora non faceva che ripetere "Questio quid iuris". Era uno scapestrato mite e accomodante: miglior compagno non si sarebbe potuto trovare. Per un quarto di vino lasciava che un amico si tenesse per un anno una concubina, scagionandolo in tutto, ma intanto di nascosto spennava il povero fringuello. Se s'imbatteva in un semplicione, gl'insegnava a non aver paura della scomunica dell'arcidiacono: l'uomo non ha certo l'anima nel portamonete, e in fondo lì soltanto sarebbe stato punito. «L'inferno dell'arcidiacono» diceva «è solo il portamonete.» Ma si sa benissimo che mentiva: chi è in colpa deve temere la scomunica, perché la scomunica danna mentre l'assoluzione invece salva, e bisogna stare attenti al "Significavit". Aveva sotto la sua giurisdizione, a modo suo, i giovani e le ragazze della diocesi, e conosceva i loro segreti ed era in tutto il loro consigliere. S'era messo in testa una ghirlanda di frasche, grande come l'insegna d'una birreria, e portava per scudo una pagnotta.
Cavalcava con lui un mite Indulgenziere di Roncisvalle, suo degno amico e compare, ch'era appena tornato dalla corte di Roma. Costui cantava a squarciagola: «Vieni, vieni, amor, da me!». E il Cursore gli faceva da accompagnamento, con una voce due volte più bassa e forte del suono d'un trombone. Quest'Indulgenziere aveva i capelli gialli come la cera, che ricadevano giù molli come una matassa di lino; i riccioli che aveva, a once, gli si allungavano fin sulle spalle e penzolavano radi, uno per uno, come straccetti. Eppure per civetteria non portava il cappuccio, tenendolo ben chiuso nella bisaccia. Credeva d'andare all'ultima moda, coi capelli sciolti e la testa coperta solo da un berrettino. Aveva gli occhi sporgenti come quelli d'una lepre. Sul berretto s'era cucita una veronica. E teneva davanti in grembo una bisaccia piena zeppa d'indulgenze, giunte calde calde da Roma. La sua voce era belante come quella d'una capra. Ma barba non ne aveva e non ne avrebbe mai avuta, perché era pulito e liscio come uno appena raso. Credo che fosse un castrone o una cavalla. Ma quanto al suo lavoro, non c'era mercante d'indulgenze pari a lui, neanche a cercarlo da Berwick fino a Ware. Teneva nella sua sacca una federa e sosteneva ch'era il manto della Madonna; diceva anche di avere un brandello della vela di San Pietro quando ancora andava per mare, prima che lo prendesse con sé Gesù Cristo. Aveva una croce d'ottone ornata di sassetti e, dentro un vetro, alcune ossa di porco. Con queste reliquie, appena trovava qualche povero parroco di campagna, faceva in un giorno più soldi lui che il parroco in due mesi. E così, con false lusinghe e trucchi, gabbava parroco e fedeli. Però bisogna dire la verità: in chiesa alla fin fine era un egregio ministro del culto. Al mattutino sapeva leggere magnificamente l'epistola o la leggenda d'un santo, ma meglio d'ogni altra cosa cantava l'offertorio, perché sapeva che dopo quel canto c'era la predica, e bisognava sciogliere bene la lingua per poi spillar quattrini, cosa in cui riusciva perfettamente. Ecco perché cantava allegramente con quanto fiato aveva in gola.
Così in poche parole vi ho fedelmente riferito il ceto, l'equipaggiamento e il numero dei componenti la brigata, ed anche il motivo per cui s'erano adunati a Southwark nell'ottima osteria del 'Tabarro', attigua a quella della 'Campana'. Ma adesso è ora che vi racconti cosa facemmo la sera che arrivammo alla locanda, per poi parlarvi della nostra partenza e di tutto il seguito del nostro viaggio.
Prima però vi prego, per piacere, di non accusarmi di malcreanza se di queste cose vi parlo schietto e se, riferendovi le parole e i gesti di quella gente, ne uso anch'io le stesse espressioni. Voi lo sapete meglio di me: chi vuol raccontare quel che ha sentito da un altro, deve ripetere più da vicino che può ogni parola che lo riguardi, per rozza e sboccata che sia, altrimenti cade per forza nel falso e deve inventare le cose cercando nuove parole. Si trattasse anche di suo fratello, non deve mai tirarsi indietro: bisogna che dica le parole proprio come sono. Cristo stesso nel vangelo parla schietto, ma non mi direte che si tratta di malcreanza. Anche Platone dice, a chi sappia leggerlo, che le parole devono corrispondere ai fatti.
Vi prego inoltre di perdonarmi se in questo racconto non ho disposto le persone nel giusto ordine, secondo il rango a cui appartengono. Ma sono un po' corto di mente: ormai dovreste averlo capito.
Il nostro Oste, dunque, fece a tutti grandi accoglienze e, senza perder tempo, ci sistemò per la cena, servendoci le pietanze più squisite; il vino era forte e noi lo bevemmo volentieri. Era proprio affabile con tutti, questo nostro Oste, degno di fare il maggiordomo di palazzo. Era un uomo grande e grosso, con gli occhi sporgenti, il miglior cittadino che esistesse a Cheapside: franco nel parlare, saggio, ben istruito, non mancava certo di virilità, ed era per di più un vero bontempone. Dopo cena cominciò scherzando a parlare di passatempi e fra l'altro, dopo che avevamo sistemati i conti, disse:
«Benvenuti, signori, veramente di cuore! Vi do la mia parola, non vi racconto storie: quest'anno non avevo ancora visto, in questa locanda, una compagnia di gente così simpatica. Se mi riuscisse, vorrei trovare il modo di farvi divertire. Ecco, m'è venuta un'idea che vi potrà piacere e non vi costerà nulla. Voi andate a Canterbury... bene, che Dio vi protegga e il martire benedetto vi faccia la grazia! Immagino che, cavalcando per via, vi racconterete storie e novelle, perché non c'è davvero gusto né piacere a far la strada muti come pietre. Voglio perciò suggerirvi, come dicevo, un modo di passare il tempo piacevolmente.

Se poi, tutti d'accordo, vorrete seguire il mio consiglio e domani in viaggio farete come vi dirò, giuro per la buon'anima di mio padre che mi farò tagliare la testa se non vi divertirete! Ed ora basta con le ciance: chi approva alzi la mano.»
Il nostro consenso non si fece aspettare: pensammo che non valesse la pena di stare a tergiversare, e senz'altro ci affidammo a lui, pregandolo d'esporci il suo progetto, a suo piacere.
«Ebbene, signori, ascoltate,» disse «ma non prendetela alla leggera, vi prego. In breve, ecco il punto: ciascuno di voi, per ingannare il lungo cammino, dovrà raccontare due novelle durante l'andata a Canterbury, questa è almeno la mia idea, e durante il ritorno ne dovrà raccontare altre due, tutte d'avventure accadute in passato. Chi di voi si comporterà meglio di tutti, cioè in questo caso racconterà le novelle più significative e divertenti, riceverà una cena a spese di noi tutti, qui in questa locanda, seduto in questo posto, appena ritorneremo da Canterbury. Sperando di tenervi più allegri, verrò anch'io volentieri con voi, a spese mie naturalmente, e vi farò da guida. Chi si rifiuterà di stare ai patti dovrà pagare le spese del viaggio a tutti gli altri. Se siete d'accordo, ditemelo subito, senza tanti discorsi, e io, domattina presto, mi farò trovare pronto.»
La cosa fu subito sistemata: ben lieti d'accettare il patto, richiedemmo che anche lui vi si attenesse facendo da moderatore, giudice e censore dei nostri racconti, e fissasse pure un certo prezzo per la cena, giacché noi ormai ci saremmo in tutto assoggettati alle sue regole. E fu così che seguimmo d'accordo la sua proposta. Concluso il patto, si prese dell'altro vino: bevemmo e poi, senza perdere più tempo, andammo tutti a riposare.
L'indomani, cominciava appena ad albeggiare che il nostro Oste si alzò e, cantandoci la sveglia come fosse il nostro gallo, ci chiamò tutti a raccolta; e così, cavalcando poco più veloci che a passo d'uomo, partimmo in direzione dell'abbeveratoio di San Tommaso. Là il nostro Oste, fermando per la prima volta il cavallo, disse: «Signori, ascoltatemi, vi prego. Sapete quali sono i patti, ricordate. Ebbene, se il canto della sera va d'accordo con quello della mattina, vediamo ora chi deve dire il primo racconto. Ch'io non possa mai più bere né vino né birra, se chi si rifiuta d'obbedirmi non pagherà tutte le spese del viaggio! Via, tirate le paglie prima che si proceda oltre: dovrà incominciare chi pescherà la più corta. A voi, messer Cavaliere, mio padrone e signor mio! Su, tirate questa paglia, eravamo d'accordo! Avvicinatevi, reverenda madre Priora! E voi, messer Studente, via quella vostra timidezza, smettetela di almanaccare! Su, fatevi tutti avanti!»
Ognuno si mise allora a tirare a sorte, e insomma, per farla breve, fosse avventura, destino o caso, il fatto è che la paglia più corta toccò al Cavaliere, con gran gioia e contentezza di tutti. A lui dunque, com'era giusto, spettava ora narrare il suo racconto secondo il patto e l'accordo che sapete. Occorrono altre parole? Quando questo galantuomo vide che così stavano le cose, da persona assennata e ligia a mantenere un impegno liberamente accettato, disse:
«Dal momento che devo incominciare il gioco, ebbene sia lodato Iddio ch'è toccato proprio a me! Mettiamoci in cammino, e voi statemi a sentire.»
A queste parole riprendemmo a cavalcare, ed egli attaccò subito di buon animo il suo racconto, narrandoci quanto segue.

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